Non
avevo molta voglia di andare a Amsterdam, mi sentivo un po’ stanco e depresso,
ma ormai avevo preso l’impegno con un amico, che oltretutto aveva già prenotato
aereo e albergo. “Vedrò qualche Rembrandt,” mi dicevo come fiacca consolazione,
“qualche Hals e la grande diga sul mare del Nord...”. Io che ho sempre
affrontato ogni viaggio con entusiasmo, carico di energia, con mille progetti
di cose da vedere e da scoprire, con la testa che cominciava a lavorare di
fantasia, gioiosa, non appena la decisione di partire veniva presa… Sto
perdendo la curiosità… le cose che mi interessano sono sempre di meno… Vuol
dire che sono invecchiato. Così, di colpo.
Poi,
lì, le cose sono andate meglio, il tempo primaverile era splendido e la città
incantevole, la gente tranquilla e i turisti nel complesso discreti, e pian
piano anch’io mi sono lasciato andare. Mi sono alleggerito. Andavo a spasso
volentieri, mi guardavo attorno senza ansia né avidità: mi lasciavo esistere.
Di visitare i musei, che di solito è la mia fissazione (almeno uno per città,
ma bene), non mi sfiorava nemmeno l’idea, ma siccome avevo allentato ogni
resistenza, quando il mio amico ha insistito per quello di van Gogh (è un
patito di van Gogh, lui), senza pensarci ho detto che allora era meglio il
Rijksmuseum. Vada per entrambi, mi ha risposto. Va bene: oggi uno, domani
l’altro.
Al
Rijksmuseum il mio amico, di cui ascoltavo distrattamente commenti, senza
condividerli ma anche senza nessuna intenzione di discuterli, dopo le prime
sale ha cominciato a prendere un ritmo diverso dal mio: ci ritrovavamo ogni
tanto, ma di fatto ognuno proseguiva la visita a modo suo (lui sedendosi
spesso). Ho visto cose belle con moderata attenzione e altrettanto entusiasmo
(cioè nessuno), soffermandomi qua e là su qualche dettaglio e su alcuni interni
di chiese. Uno in particolare, di Pieter Saenredam, con l’immenso edificio fatto solo di pareti e colonne chiare, con un gruppo di banchi al centro e poche persone che più che pregare o ascoltare il commento a un testo appena letto sembravano fare una sommessa, e direi quasi reticente, seduta di autocoscienza: tutti, tranne un cagnolino, mi pare, e un bambino sdraiato per terra fuori dai banchi, in primo piano, minuscolo, che appoggiato a un gomito leggeva non so cosa (avrei detto un fumetto, dalla sua posizione rilassata, se allora fossero esistiti fumetti). Mi ha colpito quella posa distesa eppure concentrata; mi è piaciuto che leggesse, perso in un piacere suo e indifferente alla funzione religiosa. E mi è piaciuto anche che il gruppo si disinteressasse di lui.
Poi
ho incontrato alcuni ritratti di Rembrandt e altre cose, certamente bellissime,
ma... Forse ero io che non funzionavo. Pazienza, càpita.
Infine
sono arrivato, senza accorgermi, nella saletta di Vermeer. Le pareti sulla
sinistra e di fronte erano ostruite da un gruppo con una guida e altri
visitatori sciolti, così mi sono diretto a destra, dove, davanti alla Stradina, c’era meno gente.
Ho
sempre pensato a Vermeer con diffidenza (forse perché piaceva a Proust, o per
come piaceva ai suoi personaggi) e per un caso curioso, chissà perché, tutte le
volte che sono stato al Louvre, almeno una dozzina, non ho mai visto i suoi due
quadri; e anche alle riproduzioni delle sue opere ho sempre guardato in modo distratto.
Poi mi sono imbattuto, a Vienna, con il Pittore
nel suo atelier, o Allegoria della
pittura, come viene anche chiamato. Così ero curioso di vedere le quattro
tele di Amsterdam, ma non entusiasta come mi era successo, per esempio, a Roma
mentre stavo andando a vedere i Caravaggio.
Mi
sono dunque fermato davanti alla Stradina
e me la sono guardata ben bene. Più che guardarla l’ho scrutata, spiata,
anatomizzata centimetro per centimetro, con quei movimenti del busto e del
collo, quello spostarsi avanti e indietro che appaiono tanto ridicoli quando li
osserviamo negli altri. Mi spingevano a farli la voglia di non perdere nulla,
né dell’insieme né dei particolari, il desiderio di memorizzare e, infine,
l’ammirazione, ma la consapevolezza mi rendeva un po’ ridicolo ai miei stessi
occhi. Ma non mi importava.
Ammirazione...
Mi piace ammirare, riconoscere la grandezza, o anche solo la maestria; non sono
di quelli che trovano ovunque qualcosa da disprezzare, come se non facendolo si
sminuissero... no, ammetto volentieri di ammirare, con spontaneità,
ingenuamente (è uno dei pochi lati di me che mi piacciono: quando mi accorgo di
essere stato ingenuo, a volte riesco persino ad ammirare me stesso); ma
l’ammirazione non mi basta, preferisco sentirmi schiacciato, come sott’acqua, a
grande profondità e senza scafandro, con le ginocchia che si piegano dallo
sforzo per restare ritto e il corpo che si comprime, si fa più denso, compatto,
aumenta di peso specifico e non riesce a muoversi, il respiro che non trova
sbocco o poi esce tutto insieme, di colpo, in un fiotto rumoroso, come mi è
successo nella Cappella sistina e in poche altre occasioni; o ancora
preferisco... Lasciamo perdere.
Niente
di tutto ciò con La stradina, ma mi
accontento, e continuo a spogliarla col mio sguardo impertinente finché non
vedo che alle altre pareti i visitatori si sono diradati. Vado da quella parte
e mi trovo davanti alla cosiddetta Lattaia.
E subito, al primo impatto, resto impietrito, invaso da una commozione
inspiegabile, con gli occhi che mi si inumidiscono, anche se è un’umidità che
resta tutta dentro l’occhio, che non si trasforma in lacrima.
Non
capisco... avevo visto la riproduzione non so quante volte, senza restarne
particolarmente colpito. Quando sento gli occhi bagnarsi, il primo impulso è
resistere, invece resisto all’impulso e lascio che le cose vadano per conto
loro, inchiodato lì come un imbecille contento di esserlo. Aspetto che la
commozione defluisca, prima di spostarmi a vedere gli altri due quadri, ma
quella resta, come un sottofondo che si è ormai installato e che so che mi farà
compagnia a lungo, ora e ogni volta che me ne ricorderò.
Guardo
comunque sia la Lettera d’amore che
la Donna in azzurro che legge una lettera,
con quella doppia ombra azzurra della sedia che sembra irradiarsi sul muro in
lievi sfumature soffuse, a puntini scontornati. E nell’essere assorta della
donna trovo qualcosa di quella che versa il latte: mi piace moltissimo, ma
perché non mi tocca altrettanto? Solo perché la commozione di prima era così pervasiva
da non lasciare spazio a nient’altro? Torno alla Lattaia e l’emozione si rinnova, intatta, con maggior forza anzi,
come se la prima volta fosse stata solo una preparazione, una rincorsa, che
avrei scambiato per l’unica e vera, senza la minima traccia di dubbio, se non
fossi tornato indietro.
Cos’è?
Da dove viene? Cosa mi dà a vedere questo quadro? Guardo il muro, il chiodo in
trompe-l’oeil, lo scaldino sul pavimento, la gonna rossa e il
grembiale blu, il panno verde del tavolo con l’altro panno blu che finisce
sotto il paniere, il pane e il boccale sul tavolo, la finestra, la cesta di
vimini e lo scaldino di rame appesi accanto alla finestra, poi arrivo alla
testa piegata, scendo al busto e alla spalla con la manica rimboccata, al braccio
muscoloso e alla mano sinistra che regge da sotto la brocca tenuta per il
manico dalla destra, e mi arresto al meato nero della brocca da cui il latte si
riversa nella ciotola dagli orli luminosi. Poi torno di nuovo al volto piegato,
agli occhi in ombra che non mi guardano, e infine capisco: al di là
dell’insieme e dei particolari, al di là della luce e degli oggetti, ma in
ciascuno di essi, nell’ambiente e nella scena, ciò che questo quadro mi mostra
non è nient’altro che l’assolutezza di un
gesto; anzi, meglio, il gesto
assoluto.
Non
mi racconta una storia, non allude a un contesto, non accumula, sia pure con
discrezione, elementi che definiscano un luogo o un ambiente o una posizione
sociale: mostra, come mai avevo visto prima, esattamente quel gesto di versare il latte che immediatamente, e insieme,
diventa il gesto.
A
impormi questa idea, questa evidenza, è l’inclinazione della testa della donna,
la sua continuità con ciò che fanno le mani, attraverso la posizione delle
spalle e l’angolo del gomito sinistro, la luce sull’avambraccio che accentua
l’impressione di una forza, non controllata, bensì resa inconsapevole di sé
dalla consuetudine, tanto che la brocca appare più leggera di quanto non sia,
così che la mano destra non ha nemmeno bisogno di stringere troppo il manico.
Guardo
il suo volto, gli occhi chinati, l’ombra sulle palpebre, le ciglia sotto cui
non traspare nemmeno un accenno del bianco della cornea mentre il chiarore si
diffonde sugli zigomi, e non riesco a pensare a cosa le passa per la testa. Non
ci riesco perché per la testa non le passa nulla, nulla al di fuori
dell’attenzione, della concentrazione totale su ciò che sta facendo. Non è
pensosa come il geografo, né sognante o maliziosa come chi riceve o legge una
lettera, e nemmeno serena, come pure verrebbe facile pensare: non c’è traccia,
in lei, di psicologia. Nessuna storia la precede o le accade o si può supporre
che le accadrà. Il suo gesto non rimanda a niente: sta solo versando del latte,
e lei è tutta in questo versare. Non c’è quella cura un po’ ansiosa di non
rovesciarne nemmeno una goccia, che prende sempre, per esempio, me, che sono
impacciato, maldestro o frettoloso (a scelta, il risultato non cambia: ne
rovescio sempre un po’); non c’è nessuna implicazione nel latte che versa, come
liquido vitale o cibo elementare, anche se la vicinanza del pane potrebbe
indurre a crederlo (e difatti lo si crede, come capita a me adesso: ma questo
non toglie nulla al discorso, semmai
aggiunge qualcosa; solo dopo, però, cioè adesso): sta solo versando del latte,
per preparare un pasto.
Le
cose sono sul tavolo nello stesso esatto modo in cui lei versa il latte.
Potrebbero essere considerate come una natura morta a sé stante, ma a me sembra
che la perfezione del gesto rende perfette anche loro, non per quello a cui
servirebbero, ma per quello che sono; anzi, facendone più di quello che sono
proprio in quanto sono solo come sono e solo quello che sono.
Attraverso
l’evidenza del gesto che mi si è mostrato, nel momento in cui lo percepisco,
vedo anche il corpo che lo compie, questo
corpo che compie questo gesto, la cui
assolutezza non comporta niente di universale o di eterno, ma è contenuta tutta
intera, è richiesta dalla, e richiede la singolarità, l’individualità dell’atto
e dell’esecutore.
A
versare il latte è (non può che essere) una donna, e precisamente questa donna che adesso amo, che vorrei
al mio fianco non perché io abbia bisogno di lei, né perché lei mostri di aver
bisogno di me, bensì proprio perché lei non ha bisogno (penso: “non ne aveva bisogno
allora e non ne ha ora...” ma subito mi vien da aggiungere: “non ne ha più”,
perché adesso è morta...) né di me, né di nessuno, né di nient’altro
(quantomeno finché compie questo gesto, che peraltro ormai compie per sempre). E mentre lo penso, mi rendo
conto che per la prima volta penso a lei come a una donna, una che in carne ed
ossa è stata, e che lei era esattamente come il quadro me la mostra, e non per
qualche presunta qualità “fotografica” del quadro (nel senso in cui una
fotografia in genere rimanda a qualcuno che, per essere stato fotografato, in
quel momento c’era, esisteva...), quanto piuttosto perché la sua esistenza è
resa ineluttabile dal gesto, che me la fa amare perché mi colma una mancanza
che ignoravo di avere nello stesso istante in cui me la rivela.
E
allora capisco anche che quando pensavo che la volevo al mio fianco non
formulavo un auspicio, e tanto meno un rimpianto, quanto una constatazione di
cui andavo prendendo coscienza e che ora si stava finalmente realizzando. Ora
l’ho al mio fianco, e insieme a lei ho la mancanza che ora conosco e il suo
rimedio per sempre efficace. E capisco anche, adesso, che le poche occasioni in
cui ho avuto esperienze come questa, momenti in cui, come dicevo, alla lettera manca il respiro, il nocciolo
dell’esperienza non è il venir meno del respiro, ma il suo recupero; anzi, più
che un recupero, il suo primo affiorare, il suo ri-nascere. Sono un altro.
Ho
le vertigini: non mi riconosco; mi manca il respiro: muoio; sono perduto: mi
piace; il primo respiro mi attraversa violento: sono nato; piango: sono grato.
E
tuttavia l’evidenza del suo non-essere più lì nell’essere-lì per sempre del suo
gesto, è anche l’evidenza del mio non-essere più qui, della mia morte, già
avvenuta e ancora da venire, ma già qui, e per sempre, nel suo avvenire. È
anche su di me che piango, è del mio non-esserci più che cerco di consolarmi.
Guardandola,
fisso lo sguardo su di me e gli occhi mi si inumidiscono. La mancanza che ho
incrociato è anche quella di ciò che mi mancherà, e che io mancherò: la fine, e
non riesco a sostenerla.
Piango
anche per questa mia debolezza che non accetto, e insensibilmente sto già
passando ad altro: qualcosa d’altro mi chiama (ciò che non riesco a sostenere
mi spinge altrove). Dapprima come puro richiamo, vuoto che non riesce a
prendermi, poi come interesse che mi cattura, anche se sullo sfondo resta
sempre ciò da cui credo di essermi allontanato e che a poco a poco mi convinco
di avere dimenticato. I musei servono a questo. Amo i musei (quando non li
odio).
Questo
non è ciò che ho visto, ma ciò che penso che il vedere mi abbia provocato.
Pro-vocato. Quando la commozione mi assale, cesso di vedere: le lacrime che mi
corrono verso gli occhi me li offuscano, e il pudore, o l’ostinazione, che
cerca di impedir loro di sgorgare, mi costringe a chiuderli. Chiudo gli occhi
perché stanno salendo le lacrime; li chiudo per impedire che sgorghino; li
chiudo se riescono ugualmente a sgorgare: in ogni caso non vedo più. Qualsiasi
cosa accada, il risultato è l’impedimento a vedere, tanto che mi sorge il
dubbio che non vedere sia, in ogni caso, lo scopo, il fine reale di ciò che
accade. Ho visto e non reggo ciò che ho visto. Non reggo ciò che ho visto e non
voglio più vedere. Non voglio più vedere perché vorrei non aver visto. Ma ora
che ho visto non posso più fare a meno di vedere. Ho visto per sempre. Riapro
gli occhi e lascio che la commozione prosegua il suo corso. Il suo corso è
buono. Adesso voglio vedere, non mi stanco di vedere. Anzi, non posso nemmeno
dire che voglio vedere: vedere è
l’unica cosa che io sono.
Poi
non posso fare a meno di notare il colore della parete. È luminoso, perlaceo,
lattescente, e non mi sembra provenire dalla finestra; ma allora da dove viene?
La risposta è semplice: viene dal gesto, e esattamente da ciò in cui il gesto
consiste, versare il latte, che si riverbera su tutto rendendolo più prezioso
(soprattutto il pane).
Anche
Steen ritrae gesti (vedi la donna che si toglie la calza nella Toeletta), ma, appunto, e sia pure con
occhio acutissimo, Steen questi gesti li ritrae:
sorprende, descrive, racconta, ammicca, teatralizza, cerca il tipico, la
caratterizzazione (come nel Ciarlatano
o nelle scene famigliari). Esattamente tutto ciò che non intendo quando parlo di gesto
assoluto (che forse sarebbe meglio
chiamare atto assoluto, se “atto” non
avesse troppe connotazioni filosofico-teologiche alte, da Aristotele in poi).
La
“lattaia” invece non è ritratta, non è in posa, sia pure la più “realistica”,
la meglio “recitata”: non c’è, davanti al pittore, un modello da ritrarre dal
vero, con quello scrupolo della “somiglianza” (vedi le dispute sull’uso della camera oscura...) che per molti studiosi è l’essenza della pittura di
Vermeer. Nessun modello può essere così dimentico di se stesso: per arrivare a
“dare” il gesto, Vermeer ha dovuto tradire, o dimenticare, il vero che pure
aveva davanti agli occhi.
La
donna non (mi) guarda e non si dà a guardare: è questo che mi piace. Questa
“chiusura” c’è anche in molti altri quadri: per esempio, oltre che nella Merlettaia, nella Donna in azzurro che legge una lettera e nella Ragazza che legge una lettera accanto alla finestra, che la precede
ed è interessante perché, a differenza di essa, questa è riflessa dalla
finestra a cui sta accanto, quasi volgendosi verso lo spettatore, aprendo un
gioco di sguardi che è più dei fiamminghi che di Vermeer; anche se, osservando
con attenzione, pure il volto sulla finestra sembra guardare meno lo spettatore
che, ancora, la lettera che la ragazza tiene in mano. Ma è appunto questa
duplicità che Vermeer esclude dai suoi quadri: le figure sono assorte, e lui
non interferisce. Davanti a esse egli si eclissa, di solito; è distaccato, si
direbbe; ma, come dice benissimo Gowing, questo «distacco si rivela come una forma d’amore»: l’amore che lascia che il mondo sia come è, che non ha bisogno
di afferrare né di intervenire. È la pienezza che le cose comunicano col loro
semplice esserci.
Se
qualcuno avesse visto Vermeer dipingere, certo non avrebbe scorto nessuna
differenza con l’atteggiamento delle figure dei suoi quadri. E infatti il gesto
assoluto che il pittore ci mostra è lo stesso che egli compie mostrandocelo.
A
proposito dell’agire assoluto in un contesto quotidiano e elementare, mi viene
in mente una poesia di P’ang-yün che talvolta do come traccia di tema ai miei
studenti:
Quale
soprannaturale meraviglia,
E
che miracolo è questo!
Io
tiro acqua dal pozzo, e porto la legna!
Ma
appena la rammento mi appare inadeguata. È P’ang-yün a provare questa
meraviglia, sono io che la leggo, non la donna che versa il latte; in ciò che
essa fa non c’è spazio, come non c’è bisogno, per l’autocoscienza di chi si
vede compiere qualcosa e d’un tratto ne gioisce, colto dalla sorpresa di
un’illuminazione in cui una serie di azioni, banali nella loro quotidianità e
in questo elementari quanto essenziali, si rivela nella concatenazione armonica
degli istanti: lei è questa
concatenazione, e insieme è il perfetto isolamento di ciò che non ha bisogno di
nient’altro, perché si basta, è perfetta, nel suo essere ciò che è nell’istante
in cui lo è.
Un
gesto assoluto è questo. Ma “gesto assoluto” è solo una formula. Si trattava di
vedere, per me, al di là della soddisfazione momentanea che mi procurava
l’averla trovata e che in un certo senso già mi forniva un’accettabile
spiegazione della mia commozione (come se spiegare bastasse), se mi poteva
aiutare a scoprire dell’altro, se c’era.
Di
solito le formule soddisfano solo i superficiali. A me piacciono le formule,
talvolta. Ma non le uso. Stavolta sì. Io sono superficiale, spesso. Non
stavolta.
La
donna non mi è vicina, non mi guarda, non sa di essere vista: sembrerebbe
dunque distante; dirò di più: essa presuppone non tanto il suo non essere vista
quanto l’assenza del vedere nella sua stessa pensabilità. È questa la sua
riuscita paradossale: solo un voyeur nascosto la potrebbe vedere così, ma
l’intimità che egli scopre non ha niente da nascondere, e quindi nemmeno niente
da esibire, così che l’atto del sorprendere, l’intenzionalità del vedere tipica
del voyeur, viene negato. Quel che resta è un vedere puro, a sua volta
assoluto, senza soggetto. Il gesto assoluto può essere visto solo da uno
sguardo assoluto.
Ciò
che la donna compie non è subordinato o funzionale alla cosa da fare, anche se
non potrebbe essere quel gesto, proprio
quello, senza che, non qualcosa, ma quella cosa, proprio quella, sia fatta.
La
concentrazione sul fare non è l’indifferenza verso il risultato, è anzi
l’espressione del massimo rispetto che in ogni istante gli è dovuto; e proprio perché
gli è dovuto il massimo rispetto, non lo si deve “servire”. Non gli è dovuta
nessuna subordinazione: io non mi sacrifico all’opera, che sarebbe quindi la
giustificazione di un sacrificio che a sua volta la giustificherebbe; nessun
oggetto vale anche il minimo sacrificio se, nel momento in cui effettuo la
serie di gesti al cui termine esso è realizzato, ognuno di essi non basta a sé.
Ognuno è se stesso e basta, ed è compiuto perché non può fare a meno di essere
compiuto nel modo esatto in cui lo è; nessuna giustificazione a posteriori,
così come nessun progetto a priori, lo potrebbe salvare se non si salva già da
sé in ogni momento del suo compiersi. Non è finalizzato a nient’altro che a sé,
fosse pure quest’altro l’illuminazione, la trascendenza o la salvezza (e
tantomeno l’autonomia dell’opera, la sua divinizzazione o il suo essere fine in
sé: stiamo freschi...).
In
ogni cosa che faccio deve essere contenuta la perfezione, non solo del gesto
che la fa, ma anche dell’attitudine, o dell’impulso, che mi ha spinto a farla.
La perfezione della cosa fatta le deriva non tanto dalla sua compiutezza,
quanto piuttosto dal suo reiterare all’infinito la perfezione del fare, del
gesto che fa. La lattaia non
rappresenta un, o il, gesto assoluto: lo è; e lo è solo nella misura in cui
quello che vedo nelle immagini e nei colori di cui consiste, nell’assolutezza
del gesto da lei compiuto, è l’assolutezza della pittura, che a sua volta è
tale solo in quanto questa pittura assoluta è l’assoluto di ogni gesto compiuto
da Vermeer.
L’opera
non ha bisogno dell’autore, è sciolta da lui (assoluta) nella misura in cui tutto l’autore è in essa nel gesto
mediante il quale essa viene ad essere. Se questo gesto è perfetto, nemmeno
l’autore ha bisogno dell’opera (anche lui è assoluto), ma a sua volta lo è solo
in quanto l’opera c’è e non ha più bisogno di lui. Egli scompare dall’opera
così come l’opera scompare da lui. Ciascuno è la sparizione dell’altro perché
ciascuno è la perfezione dell’altro e, mediante tale perfezione, dall’altro si
scioglie (è assoluto). E in quanto tali ciascuno di loro, senza bisogno di
negare alcunché d’altro, è l’unico possibile, come l’unico quadro possibile mi
è sembrato, quando l’ho visto, questo quadro, non il più bello, ma proprio
l’unico, perché incarnava anche una mia ossessione (anzi, in quel momento la
mia sola ossessione), facendomela (ri)scoprire nel momento stesso in cui mi
indicava la strada per cercare di venirne a capo, tanto che dopo, anche se ho
continuato la visita, in tutti gli altri quadri non ho fatto altro che vedere
questo.
Non
ho visto più niente, cioè. Ho continuato a sognare il mio sogno. Quello di
sempre, perché è così che vorrei che fosse ogni cosa, ogni singola parola che
scrivo nel momento in cui qualcuno la legge. Io per primo. Anche queste. Queste
per prime. Ora. Ciascuna.
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