Questa
è stata votata come foto più bella nell'annuale rassegna del premio World Press
2011 che per le immagini, per quanto mi concerne, equivale agli Oscar o ai
Telegatti.
La
faccenda potrebbe essere liquidata con un'alzata di spalle o una battuta: "perché
sorprendersi? è tutto nella norma"; ma vedendo i commenti in rete, anche
da parte di gente colta: scrittori e poeti, intellettuali e compagnia bella di
non so che categoria (più o meno la mia, se la frequentassi), mi sono un po'
irritato e allora, senza documentarmi oltre, mi sono messo a scrivere questo. Cose
che si sanno e che a molti appaiono scontate, peggio: datate (basta che passi
del tempo perché tutto lo sia); ma ogni tanto è utile ripeterle. Ricominciamo:
Questa
foto è stata votata la più bella dell'anno dalla giuria del premio World Press.
Da
qualunque parte la guardi, e sotto qualunque aspetto la consideri, è una foto
che non mi piace. E' una foto brutta e falsa; e è brutta perché falsa; e è
falsa perché brutta; e è sbagliata, cioè brutta, anche, se non soprattutto, nel
modo in cui è falsa: e tutto questo lo è per motivi in gran parte opposti a
quelli che essa vuole incarnare e rappresentare (nel senso di esserne la
rappresentante), e per i quali, appunto, è stata premiata, ad avallo alla sua ambizione
e a suggello della dimenticanza e mistificazione che in essa si opera e che la
cultura che l'ha premiata vuole diffondere, o meglio: confermare nella sua già
globale diffusione. Non è la rappresentazione e la documentazione mediatica di
un evento, ma la perfetta documentazione, mediante una rappresentazione con cui
si identifica, di un evento mediatico.
Ignoro
chi in concreto l'ha votata e per quali ragioni manifeste e recondite, e non mi
interessa saperlo. Chiunque sia, ha urgente bisogno di lavare e sgrassare la
sua coscienza, incluso l'arredo estetico.
Ancor
più bisogno ne ha però la coscienza di chi l'ha scattata. Non so (preferisco
trascurare il paratesto, per il momento, per concentrarmi solo sull'immagine): forse
il fotografo era lì o ci è andato apposta, dovunque e qualunque cosa sia questo
lì, ha visto la scena e ha scattato la foto, tra decine o centinaia di altre.
Non lo credo: credo anzi che, sul posto, abbia annusato subito il colpo di
fortuna (eh, il colpo d'occhio...) nella scena davanti ai suoi occhi, o la
possibilità di aggiustarla alla meglio bisogna; ma se anche così fosse, se
nessuno dei sospetti malvagi che mi sono passati per la testa fosse giusto, non
avrebbe dovuto scattarla; o, una volta commesso questo errore, avrebbe dovuto
cancellarla, o quantomeno scartarla; e infine, concessa anche la debolezza di
amare le proprie creature tanto da non riuscire a eliminarne anche una sola,
non avrebbe dovuto stamparla, e divulgarla, e venderla. Non capisco nulla di
luce e tecnica e quindi non ho strumenti per valutare istantaneità o
preparazione, illuminazione naturale o adattata se non creata, e tutti gli
altri elementi che potrebbero deporre materialmente a favore della mia
impressione, ma non importa: tutto in questa immagine è costruito, e quindi
falso, anche se il fotografo non l'ha fatto, perché la costruzione è
nell'immagine stessa, che vuole rappresentare un dato di fatto, testimoniare un
"essere stato qui", e insieme citare, dandolo forse anche a vedere,
ma come se questo fosse un valore aggiunto all'immagine, un valore
"estetico", ma che non ne inficia quello primario, di
"verità" e "testimonianza". Se essa "cita",
quindi, cita in modo scorretto, e ancora falso. Fa ridere pensare a una
citazione falsa che non sia un apocrifo; a una scorrettezza che non sia una
distorsione voluta; ma qui è l'uso del riferimento a esserlo. L'immagine cita
Bill Viola, come è stato notato, ma anche Marina Abramovic, perché no?, per
quanto magari il fotografo non li conosca (ma ne dubito); suggerisce una serie
infinita di citazioni pensando di nasconderle nella misura in cui sono
scontate, cioè generiche, idealtipiche si sarebbe detto una volta, e in quanto
tali diffuse come clichés, o di passarci sopra sperando che lo facciano anche
gli spettatori e di sfruttarle per un maggior effetto di reale; cita il dolore
e ovviamente ne fa mercato. Non voglio riprendere i discorsi della Sontag e di
altri: mi limito al puro dato estetico: a come l'immagine è percepita (da
me: cioè dal più importante degli spettatori, per quanto mi riguarda).
Anche
se era lì, il fotografo ha voluto scattare la bella foto, fare il giornalista, documentare,
e insieme l'artista, pensando che fare l'artista, per come lui ne concepisce la
figura e l'attività, avrebbe accresciuto la potenza documentaria e
comunicativa, e emotiva, della foto, della bella
foto, che infatti come tale è stata premiata. Con la coscienza (sia falsa che
vera) a posto, oltretutto, perché l'uomo non sembra ferito in modo grave (di sicuro non sembra morto: la posizione delle braccia lo dimostra), la
donna già lo accudisce e certo si appresta a farlo ancora meglio a breve, cioè
una volta chiusa la formalità della foto mi verrebbe da dire se fossi maligno,
e lui non può essere tacciato di crudeltà e omissione di soccorso (glielo
auguro: al ferito, mica al fotografo, che di benefici ne ha già tratti a
sufficienza, al di là dei rischi che in questa come in altre occasioni ha
dovuto correre per stare "sul fatto": al cui proposito auguro anche a
lui di stare sempre bene, sano e salvo e di ottenere onori e che le sue
immagini abbiano effetti positivi e via dicendo: non è questo il discorso...).
Quando
guardo la foto, non mi chiedo che malattia o ferita abbia l'uomo, ma di cosa
sono parte i dettagli ai margini dell'immagine, ritagliati perché l'insieme
centrale acquistasse maggior forza (perché cancellarli e basta non era
corretto: cioè andava a ritoccare direttamente l'immagine, come fanno i
fotografi pubblicitari o di moda - è lo stesso -, rendendola falsa nel senso
che non documentava più direttamente ciò che l'obiettivo aveva catturato: ciò
che era stato lì davanti all'obiettivo, così trovato o disposto); e soprattutto
mi chiedo cosa dice il tatuaggio sull'avambraccio, che da una parte richiama i
numeri delle vittime dei lager nazisti, dall'altra il cartiglio sulla croce
"re dei giudei", come se fosse trasmigrato dal legno alla pelle: come una forma di
equivalenza dei tre monoteismi, almeno nella sofferenza dei loro fedeli, se non
in quella che si procurano l'un l'altro, molto più problematica. Asimmetrica per
definizione (per la definizione che ciascuno degli interessati ne dà.)
I
buoni sentimenti di tutti sono a posto. L'insipienza estetica e culturale non
conta nulla: e infatti nessuno ha ritegno a sbandierarla. L'aria che soffia
basta e avanza. Le madri dolorose di ogni luogo e cultura hanno qualcosa in più
a cui identificarsi e su cui piangere (quelle che guardano le foto: non quelle
che hanno motivi reali di dolore); tutto è politicamente corretto: il velo sul
volto dice una cosa, ma l'assenza di volto apre a ogni possibile identificazione;
il corpo bianco va bene dal Kashmir alla Patagonia; l'iconografia è cristiana,
l'abito islamico (ma anche mediterraneo d'antan: tra l'altro il tessuto sembra molto bello, così a occhio: e il colore blu richiama la madonna di molte Pietà, come quelle di Sebastiano del Piombo tanto per fare un esempio); i circoli della fotografia qualcosa su cui discutere, e certo da ammirare, con qualche riserva del solito bastian contrario; i documentatori della verità potranno far finta che documentarla è possibile, e abbastanza facile e gratificante, oltretutto. Basta scattare. Basta essere lì: lì, da qualche parte, anche se spesso è pericoloso, e duro e doloroso, nessuno lo nega e per fortuna che qualcuno lo fa (per la buona cattiva coscienza nostra e mia). C'è ancora spazio per la realtà: e per l'ennesima volta siamo contenti tutti. O quasi. (Io no: e non credo di essere il solo.)
Un
qualsiasi crocefisso ligneo di ignoto intagliatore di qualche secolo fa, mi
trasmette un'idea del dolore 100 volte più intensa e diretta, pur non essendo
io credente. Perché lo era l'intagliatore; ovvero: perché condivideva le idee
(le idee di dolore e di fede) con i committenti e i destinatari: forse non
nella realtà (nel suo intimo: ma questo non importa affatto), ma certo nella
concezione della rappresentazione. Cosa che non si può dire qui, oggi, e con
questa foto. Né del suo autore, buona o cattiva che sia la sua coscienza. Quella
artistica non lo è di sicuro: e non lo è anche se lui è in buona fede; anzi: se
è in buona fede, lo è ancora meno: conviene ribadirlo con tutto l'andazzo della
riscoperta della realtà e della verità con annessi e connessi, pizzi e pezze - meglio
se intrise di umori vari -, come rispecchiamento, testimonianza e compagnia
bella, come se niente fosse. Mala tempora currunt. Ora come sempre. Ora più di
sempre, perché potendo sapere, dobbiamo sapere; e, sapendo, non possiamo
tacere. Parliamo delle cose terribili, quindi: è un dovere! Mica faremo i
fighetti che svicolano! O i narcisini che circolano in numero sempre maggiore,
"col sole in fronte", ma sempre cantando "beatamente", i fatti loro. I nostri. I miei.
E'
ora di tornare ai fatti, sembra, alla realtà. Eccoli lì che ci chiamano, come
sirene e teste di Medusa: che ci incantano e struggono, e agghiacciano e impietriscono.
Il falso come modo o come passaggio verso una qualche forma di vero che come
tale si sottrae, è solo esercizio retorico; la coscienza dei linguaggi, delle
forme e delle loro storie, inutile esibizione, alessandrinismo; ecc. Invece niente è più retorico di ciò che
si presenta come diretto: e questa foto ne è un'ottima testimonianza. Trasuda
retorica, e è proprio questo che ne assicura il successo di ricezione. Mi
spiego: trasuda retorica senza citare la retorica, fingendo che non ci sia, o al
massimo ascrivendola nella rubrica: omaggi, memorie; cioè strizzando seriamente
l'occhio. Ma come cazzo si fa a strizzare l'occhio seriamente? Con l'obiettivo (con l'obiettivo dell'obiettivo),
per di più, di indurre alla pietà, di suscitare reazioni forti? Reazioni
positive, sia chiaro: quelle che nascono dal comune sentire umano. Dal
"comune" "sentire" "umano". Chi ci casca mai?
Beh, in tanti, a quanto pare.
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