“Mi scusi se le mostro le spalle!”: è facile
accorgersi anche nel galateo quotidiano del singolare stigma rivolto al corpo
visto da dietro. Non accade diversamente nella storia delle immagini, dove
continuamente troviamo figure che ci vengono incontro, ci mostrano le loro
fattezze, i loro movimenti, il loro abbigliamento. È quasi un’ovvietà:
comprendiamo le intenzioni degli altri osservandoli di fronte, perché è così
che ricaviamo informazioni da quello che è l’emittente per eccellenza del corpo
umano, il volto; ed è sempre dal davanti che possiamo osservare le traiettorie
delle infaticabili collaboratrici del volto, le mani. Eppure, più spesso di
quanto non si creda, i pittori hanno fatto ricorso alle figure viste da dietro.
Lo dimostra ora Luigi Grazioli in Figura di schiena, edito da Doppiozero books, e scaricabile
dal sito online della rivista.
Si comincia dal Trecento e da una delle più
significative apparizioni della figura di schiena, il compianto sul corpo di
Gesù che Giotto dipinse a Padova nella Cappella degli Scrovegni; è qui, nelle
donne sedute a terra attorno a Gesù morto, che osserviamo, come all’improvviso,
una delle più importanti funzioni di questo motivo: consentire allo spettatore
di entrare, per così dire, nella scena dipinta. Non si tratta di un gioco di
parole: lo spettatore coglie immediatamente e istintivamente il parallelismo
tra il proprio corpo e quello delle figure viste da dietro, come lui intente ad
osservare ciò che accade al centro del dipinto, e può partecipare più
intensamente al dramma in atto, nel nostro caso la morte di Gesù.
Grazioli segue dunque la traccia delle figure di
schiena dal medioevo al Seicento, traccia esile e non sempre caricata
dell’impegnativo compito affidato ad esse da Giotto; più spesso svolgono il
ruolo del parergon, fungono cioè da riempitivo, completano la scena
rendendola più credibile: pastori addormentati nelle scene di Natività, soldati
assonnati accanto al sogno di un imperatore antico, guerrieri a terra dopo una
battaglia; oppure, ai margini dell’episodio principale, uomini e donne ci
girano le spalle per servire da testimoni o da spettatori di un evento
memorabile. E sono quasi sempre inquadrati da dietro i manigoldi che stanno per
decollare un santo: lo splendore del martire risalta ancor di più accanto
all’opacità del boia.
In questo itinerario Grazioli si imbatte in testi
celebri come quello degli Scrovegni, ma anche in opere molto meno consuete,
come il Sacrificio di Lavinia che Mirabello Cavalori eseguì per lo
Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio a Firenze; e pone domande anche a
artisti moderni come Caspar Friedrich, Picasso, Magritte, per poi soffermarsi a
lungo su una foto – prosaica quanto ambigua – di Brassaï, L’armadio a
specchi (1932). Solo in apparenza questo percorso è divagante, infatti ben
presto l’autore restringe le sue osservazioni all’ambito fiammingo e con un
obiettivo ben preciso, quello di ricostruire il retroterra dell’opera che più
lo ha affascinato, l’Arte della Pittura di Vermeer, in cui il pittore
protagonista del quadro è ripreso appunto di spalle.
In questo percorso di avvicinamento a Vermeer,
la Madonna del cancelliere Rolin di Jan van Eyck è un testo cruciale: la
figuretta che sugli spalti del palazzo ci dà le spalle per sporgersi e guardare
in giù mette in campo un ben altro genere di sguardo rispetto a quello con cui
il cancelliere si presenta alla Vergine e al Bambino: qui lo sguardo della
compunta devozione, là quello della curiosità disimpegnata. Lo sguardo,
infatti, coinvolge sempre anche il resto del corpo.
È proprio nel mondo fiammingo, e non solo con van Eyck,
che spicca la dimensione accessoria e, nel medesimo tempo, necessaria della
figura di schiena; a volte, come nell’autoritratto di Johannes Gumpp – di
spalle, ma con il volto riflesso in uno specchio e dipinto nel quadro in corso
d’opera – la figura di schiena spinge addirittura a interrogarsi sullo statuto
delle immagini; altre volte si tratta di situazioni irregolari e inattese, come
quando Pieter Saenredam è attratto da un ragazzo che scarabocchia sul muro di
una chiesa di Utrecht. Un soldato a cavallo visto da dietro di Gerard ter Borch
rivela invece l’aspetto più specifico delle figure di schiena, il loro celare
fattezze ed espressioni del viso: ma proprio nel momento in cui ci chiediamo
quali siano il loro umore o le loro reazioni davanti a un determinato episodio
la nostra immaginazione ha già iniziato a mettersi in moto.
Ed è proprio quello che accade nell’Arte della
Pittura di Vermeer, in cui il ricorso alla figura di schiena diventa lo
strumento che rende possibile la difficile quanto equilibrata coabitazione di
chiarezza e enigmaticità, di ostensione e allontanamento. Ogni minimo dettaglio
è sotto i nostri occhi, il pittore è al lavoro e la ragazza è in posa, eppure
tutto sembra sottrarsi a una interpretazione definitiva; se si tratta anche di
un autoritratto, come tanti indizi lasciano credere, perché questo apparire e
questo nascondersi dell’artista?
pubblicato su doppiozero, 30 ottobre 2014
Nessun commento:
Posta un commento