27/05/15

Non sono uguali



Non è vero, come talvolta mi sembra, ho pensato leggendo un libro che parla del lettore, che tutto sommato le persone sono uguali, sempre e in qualsiasi circostanza; o quasi, e solo con variazioni insignificanti. Ognuno non solo possiede caratteristiche e vive le proprie esperienze secondo modalità, forme e intensità che differiscono per mille sfumature e gradi, ma forse si distingue addirittura, abissalmente, nella sostanza. Solo che è faticoso trovarle; a volte ci vuole un tempo incalcolabile, ammesso che gli interessati ti concedano di accedervi, o sappiano essi stessi di celarle.
Nei libri invece queste cose sono già lì. Lo scrittore le ha scovate e decifrate e descritte e narrate per il lettore, qualcuna per ogni libro, che sono migliaia, milioni, e ora spetta solo a lui riconoscerle di nuovo e travisarle, facendole proprie: cioè facendone l’uso che gli pare.

Mentre prendevo questo appunto si è seduta accanto a me una giovane signora tutta compunta, con un trench chiaro elegante, capelli rossi ondulati stirati all’indietro e raccolti a crocchia e un bel viso severo e improntato a una certa distinzione (non dico alterigia). Si è accomodata con movimenti delicati, ha sistemato la borsa sulle ginocchia, ha dato una rapidissima occhiata al cellulare che ha subito riposto in una tasca della borsa e ne ha estratto una rivista, Chi. L’ha sfogliata con mano sicura e si è fermata alla pagina delle lettere al direttore, il famoso spin doctor Alfonso Signorini, di cui compariva pure una bella foto, e si è messa a leggerla avidamente. Poi il mio sguardo è rapidamente sceso alla borsa, alle falde del trench e più giù, alle ginocchia, ai polpacci fino ai piedi affondati in stivaletti in suede senza tacco. Le gambe erano nude; la pelle quella bianca tipica delle rosse, dal colore non omogeneo, come se i capillari di superficie fossero ovunque rotti, dilagati in velature rosate e livide, e per questo più nuda del nudo, in qualche modo volgare.



Da quando sono salito in treno invece, su un sedile nell’altro lato della carrozza, accanto al finestrino contro il quale appoggia spesso la fronte ogni volta che non legge o scrive sul suo smartphone, c’è questa giovane, che noto perché appena arrivata ha cambiato fila dicendo a un’amica che c’era un animaletto morto sul pavimento. In realtà non era un coleottero: solo un grosso dattero. Lei pure ha i capelli tirati all’indietro in una piccola crocchia, ma scuri, lisci, anche se con una leggera ondulazione sul davanti. La pelle chiara sembra illuminata dall’interno, ha una lievissima tinta grigioambrata, come formatasi per effetto di una vocazione alla porcellana che però si è bloccata prima di assumerne la compattezza omogenea, restando punteggiata di minimi, quasi impercettibili difetti (porosità, affossamenti e rilievi microscopici), che tuttavia non la deturpano, ed anzi le conferiscono una forma peculiare, e forse più alta, di perfezione: quella dell’imperfezione. Ha un bel naso, dritto e solido ma non esorbitante, una bocca piccola e ben disegnata, la fronte alta, gli occhi tagliati un po’ all’orientale e con un’ombra di mongoloidismo, che imprime un che di dolce, oltre che di fine, alla sua espressione. Non è bella, ma la trovo attraente, anche se troppo minuta, per non dire piccola, come verifico non appena si alza per raggiungere il corridoio. In parte è merito anche del foulard nero a disegni bianchi e del pendente sferico dell’orecchino esso pure nero, ma più ancora dell’attaccatura del collo alla nuca, della curva appena accennata che l’acconciatura mette in risalto. Sì, è questo. E quello sguardo vivo ma un po’ distante, non del tutto lucido.

(Stavo dicendo…?) 



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