Non è vero, come
talvolta mi sembra, ho pensato leggendo un libro che parla del lettore, che
tutto sommato le persone sono uguali, sempre e in qualsiasi circostanza; o
quasi, e solo con variazioni insignificanti. Ognuno non solo possiede caratteristiche
e vive le proprie esperienze secondo modalità, forme e intensità che
differiscono per mille sfumature e gradi, ma forse si distingue addirittura,
abissalmente, nella sostanza. Solo che è faticoso trovarle; a volte ci vuole un
tempo incalcolabile, ammesso che gli interessati ti concedano di accedervi, o
sappiano essi stessi di celarle.
Nei libri invece queste
cose sono già lì. Lo scrittore le ha scovate e decifrate e descritte e narrate
per il lettore, qualcuna per ogni libro, che sono migliaia, milioni, e ora
spetta solo a lui riconoscerle di nuovo e travisarle, facendole proprie: cioè
facendone l’uso che gli pare.
Mentre prendevo questo
appunto si è seduta accanto a me una giovane signora tutta compunta, con un
trench chiaro elegante, capelli rossi ondulati stirati all’indietro e raccolti
a crocchia e un bel viso severo e improntato a una certa distinzione (non dico
alterigia). Si è accomodata con movimenti delicati, ha sistemato la borsa sulle
ginocchia, ha dato una rapidissima occhiata al cellulare che ha subito riposto
in una tasca della borsa e ne ha estratto una rivista, Chi. L’ha sfogliata con mano sicura e si è fermata alla pagina
delle lettere al direttore, il famoso spin doctor Alfonso Signorini, di cui
compariva pure una bella foto, e si è messa a leggerla avidamente. Poi il mio
sguardo è rapidamente sceso alla borsa, alle falde del trench e più giù, alle
ginocchia, ai polpacci fino ai piedi affondati in stivaletti in suede senza
tacco. Le gambe erano nude; la pelle quella bianca tipica delle rosse, dal
colore non omogeneo, come se i capillari di superficie fossero ovunque rotti,
dilagati in velature rosate e livide, e per questo più nuda del nudo, in
qualche modo volgare.
Da quando sono salito in
treno invece, su un sedile nell’altro lato della carrozza, accanto al
finestrino contro il quale appoggia spesso la fronte ogni volta che non legge o
scrive sul suo smartphone, c’è questa giovane, che noto perché appena arrivata ha
cambiato fila dicendo a un’amica che c’era un animaletto morto sul pavimento.
In realtà non era un coleottero: solo un grosso dattero. Lei pure ha i capelli
tirati all’indietro in una piccola crocchia, ma scuri, lisci, anche se con una
leggera ondulazione sul davanti. La pelle chiara sembra illuminata dall’interno,
ha una lievissima tinta grigioambrata, come formatasi per effetto di una
vocazione alla porcellana che però si è bloccata prima di assumerne la
compattezza omogenea, restando punteggiata di minimi, quasi impercettibili
difetti (porosità, affossamenti e rilievi microscopici), che tuttavia non la
deturpano, ed anzi le conferiscono una forma peculiare, e forse più alta, di
perfezione: quella dell’imperfezione. Ha un bel naso, dritto e solido ma non
esorbitante, una bocca piccola e ben disegnata, la fronte alta, gli occhi
tagliati un po’ all’orientale e con un’ombra di mongoloidismo, che imprime un
che di dolce, oltre che di fine, alla sua espressione. Non è bella, ma la trovo
attraente, anche se troppo minuta, per non dire piccola, come verifico non appena
si alza per raggiungere il corridoio. In parte è merito anche del foulard nero
a disegni bianchi e del pendente sferico dell’orecchino esso pure nero, ma più
ancora dell’attaccatura del collo alla nuca, della curva appena accennata che
l’acconciatura mette in risalto. Sì, è questo. E quello sguardo vivo ma un po’
distante, non del tutto lucido.
(Stavo dicendo…?)
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