Compito difficile... perché anche se qualcosa si
poteva nascondere in questo posto, indicatoci dalla freccia lassù, sul
soffitto, nella nostra stanza, come ritrovarlo in questo groviglio, tra
erbacce, particelle, immondizie, che superavano in quantità tutto ciò che
poteva accadere sulle pareti e sui soffitti. Un’abbondanza davvero schiacciante
di legami e illazioni... Quante frasi si
possono comporre con le ventuno lettere dell’alfabeto? Quanti significati si
possono dedurre da centinaia di erbacce, zolle e altre minutaglie? Anche le
tavole del capanno, dal muro, trasudavano combinazioni infinite.
Cosmo, p. 41
Il (corpo) del (giovane)
Che
l’universalizzazione del giovanilismo sia anche quella della cretinizzazione
universale, non implica né l’identificazione del cretino col giovane né il
ricorso alla maturità come indispensabile contromisura. Se infatti il cretino
naturale che alberga in ogni giovane ha trovato il suo terreno di coltura
ottimale nel giovanilismo, che dire dell’adulto che lo ha dissodato e concimato
(e sfruttato)? Ma ancora più cretino è l’uomo maturo quando al giovane
contrappone la propria esclusiva maturità. Allora aveva ragione Gombrowicz, che
queste cose le aveva prefigurate con largo anticipo e non certo facendo salti
di gioia. In lui giovane e adulto non sono una coppia filosofica da organizzare
gerarchicamente o da ribaltare rispetto ai criteri abituali: non a caso mette
spesso “giovane” e “ragazzo” tra parentesi. L’una serve a decostruire l’altra e
come al solito, in questo lavoro la più bassa funziona meglio della più alta.
Del resto che bisogno ci sarebbe di smantellare la più bassa quando la più alta
già la controlla e deprime?
Ma
anche questo è solo provvisorio. Il giovane non è meglio dell’adulto, anzi per
certi aspetti è peggio, e lo sa lui stesso che pensa solo a diventare adulto;
non sarebbe meglio, se non fosse per il corpo. È il corpo che l’adulto desidera del giovane, ma quando il giovane si
accorge di questo desiderio (e non è detto che capiti sempre: è tanto ottuso),
crede che l’adulto desideri lui, lui
stesso. Invece quel che il giovane fa come se stesso non è meno ridicolo, e cretino, delle pietose acrobazie
dell’adulto quando fa l’adulto (che invece
è meno disprezzabile quando, desiderando il corpo del giovane, ad esso
si sottomette: abbassandosi fino ad esso, in realtà si innalza). Del giovane, vale solo quel che lo porta a fare il
(suo) corpo, e il corpo in quanto non è lui,
perché lui non è mai il corpo. Se
anche lui è qualcosa, lo è solo in quanto
concrezione momentanea, casuale e per di più inconsapevole, del corpo giovane:
meglio, del (corpo) (giovane). Forse conviene mettere tra parentesi anche il
corpo, per il suo statuto incerto di non-soggetto e non-oggetto.
L’adulto
vuole questo corpo, e allora lo immagina come oggetto, perché se così è, può
anche diventare soggetto: l’adulto vuole questo corpo, nel senso di esserlo (o
di essere per lui), ma non può, e non
potendo, può solo volerlo possedere.
D’altra parte nemmeno il giovane lo può avere,
perché nessuno può avere ciò che, pur essendo meno, è più di lui e lo
definisce, e può quindi limitarsi solo ad esserne posseduto (in tutti i sensi della parola: anche quello di
indemoniati, come il titolo polacco dei Schiavi
delle tenebre).
Il giovane offre all’adulto ciò che nemmeno
lui possiede, l’adulto chiede al giovane ciò che questi non può dargli e che
d’altronde lui non potrebbe nemmeno ricevere.
Entrambi
possono solo recitare lo scambio,
metterlo in scena e mettersi in sua balìa, coll’unico risultato di perdersi
entrambi. In questo scambio recitato nessuno controlla più niente; il
meccanismo domina e fa deviare tutti da una posizione che provvisoriamente
sembra definirli all’altra e li fa slittare sempre più verso il basso finché il
gioco finisce, fino cioè all’annullamento di tutto e di tutti, per lo meno come
aspiranti soggetti. Fino al buio della notte più buia e confusa. Anche per
questo ricorre così spesso la descrizione della notte non solo nella sua
“pienezza”, ma soprattutto quando sta per giungere, quando si profila, alla
lettera, minacciosa; per questo
sempre di notte si svolgono le scene finali di tutti i romanzi.
Inferiorità e forma
Alcuni
sostengono che Gombrowicz precorra e dichiari in anticipo, segnandola
definitivamente, la fine delle ideologie; altri (di preferenza gli stessi)
innalzano la giovinezza ( e in genere i presunti concetti-cardine
gombrowicziani) a ideale, cioè a ideologia. Anche lasciando da parte le
numerose messe in guardia che lo stesso Gombrowicz ha in più occasioni avanzato
( delle quali è giusto diffidare nella misura in cui tendono a proteggere
“troppo” l’interpretazione “corretta” dei suoi testi ecc.), dimenticano i
secondi che la giovinezza (ecc.) è un non-valore, anzi qualcosa di meno di un
valore (e quindi non una negazione che potrebbe essere ribaltata in
affermazione) e che appunto per questo è efficace contro la forma (che erode in
continuazione senza potervisi sostituire, finendo così per negarsi da sola).
Quindi nessuna adesione estetica (estetizzante) di ciò che è superiore a ciò
che è e resta, sempre e comunque, inferiore (come nei vari primitivismi: dal
buon selvaggio al buon giovane), ma l’inferiorità di ciò che è oggettivamente,
cioè socialmente, superiore nei confronti di ciò che, oggettivamente, è
inferiore: la superiorità di ciò che è inferiore e imperfetto e che non potrà
mai diventare perfetto e superiore senza cessare di essere ciò che è.
D’altra
parte sembra che sfugga ai primi che la forma non solo tende sempre a
riformarsi, ma anche che non potrebbe essere altrimenti. Così è la vita
(secondo Gombrowicz). La vita tende alla forma, la forma sottomette la
giovinezza, la giovinezza la sconfessa ma è condannata dalla sua stessa
imperfezione alla precarietà, così che essa non possa andare oltre né oltre
debba essere posta.
Così
la soggettività è, appunto, soggettiva, e il consenso costituito dalla forma
(l’oggettività) per sussistere deve sminuirla, e negarla quanto più possibile,
ma non del tutto. Ma se l’oggettività è costituita da questo sminuimento, è
essa stessa ad aprire lo spazio anche per la soggettività. Dato però che
l’oggettività ha una tendenza oggettiva a prevalere (è più forte), la
soggettività torna a imporre la necessità della propria sopravvivenza, del
proprio carattere dissolutore, senza però potere a sua volta prevalere: può
gridare, desiderare e far tutto per affermarsi, ma non affermarsi davvero. La
scelta della sua necessità è (sembra) solo una questione di strategia, ma una
strategia che manca il proprio fine, che è quello di cessare dopo aver condotto
alla vittoria, proprio perché non può vincere, pur senza essere perdente. Se
vince, perde.
I segni del caos
È
anche opinione diffusa che in Gombrowicz è l’uomo a voler imporre un ordine (al
caos originario) attraverso un sistema arbitrario di segni spesso futili e
insignificanti. La ragionevolezza dell’osservazione mette in sospetto
(trattando di Gombrowicz). Si potrebbe anche pensare che è invece il caos a
suggerire, mediante i segni, questo fantasma di ordine per meglio trascinare
l’uomo nel proprio vortice. Ma ancora più probabile è che siano i segni stessi
a imporre un ordine fittizio (e caotico) a qualcuno che magari vivrebbe
benissimo senza, o meno peggio, dato che questo ordine, presunto e provvisorio,
smaschera l’indagatore e lo perde. C’è poi il rapporto tra l’emergenza dei
segni e le condizioni psichiche e fisiche di quest’uomo, stressato, teso,
stremato, abbiosciato dall’afa, oppresso dal caldo alla lettera soffocante: i
primi sono proiezioni delle seconde, o l’occasione perché si manifestino e
vengano concretizzate? sono la miccia o l’esplosivo? o che altro ancora?
Ciò
che si presenta è un accumulo di fatti irrelati che però, proprio in quanto
caotico, allude e sembra preludere alla significazione come un’imbastitura segreta
di segni indirizzati da tutti verso tutti. Qualsiasi atto o evento può
significare qualsiasi cosa per chiunque lo percepisce come potenziale segno
(cfr. il pranzo all’inizio del terzo capitolo di Cosmo), ma anche niente, per un’incongruenza laterale però, per
qualcosa cioè che non dovrebbe avere niente a che fare né con l’emittente né
col destinatario presunti (la mano, troppo piccola, “imponente nel suo effetto,
ma nulla in se stessa”).
Autonomia della logica
L’assurdo
nei romanzi di Gombrowicz prende di solito forme verosimili, al massimo tarlate
da minimi scarti che tuttavia, una volta innescati, instaurano una logica
inesorabile che travolge, e stravolge, tutto. Questi scarti tuttavia non
alterano la struttura complessiva del rituale che domina tutto: quando qualcosa
si spezza e si “distrae”, anche di un niente, dalla funzione prevista dal
rituale che domina ogni fase dell’esistenza, non per questo il rito cessa: le
regole continuano ferree e imperterrite a funzionare per conto loro. Solo il risultato si allontana sempre di più da quello
prefissato, o auspicato, fino a negarlo, ma questo fino a che punto modifica il
gioco, e il peso, delle regole? Fino a che punto nega il rito?
Troppo e quasi
La
logica del “troppo” (troppa bellezza, grandezza, serietà... ) che ribalta ciò
che è poi affermato – qualcosa che è stimato,
e magari anche da Gombrowicz sentito come positivo, come un “valore”, viene
condotto da questa logica alla banalizzazione, al ridimensionamento quando non
addirittura all’annientamento, spesso nel segno del ridicolo.
Complementare,
identica anzi, c’è la logica del “quasi”, dell’ “in parte”. Niente è come è,
pianamente o compiutamente, tutto è minacciato, e corroso dall’insufficienza e
dall’eccesso.
La vittima del rito
Per
quanto concerne il rito, il celebrante e la vittima, non è nemmeno il caso di
ricordare quanto numerosi siano i richiami impliciti e espliciti alla messa e a
cerimonie religiose, oltre che la presenza di figure di sacerdoti o di
personaggi che ne fanno le funzioni, così come il ruolo del teatro anche nei
romanzi. In Pornografia Federico è
definito esplicitamente come un regista.
In
Cosmo è più evidente che il regista è
coinvolto nel teatro come attore manovrato dalla perdita stessa della
possibilità che ci sia un regista, cioè un soggetto che manovra. Chi ha
impiccato il passero? Chi ha appeso il bastoncino? Witold impicca il gatto,
dando in questo modo un ordine alla serie, facendola cioè diventare veramente
una serie: il bastoncino diventa un bastoncino impiccato davvero solo con
l’impiccagione del gatto, ma questa non è una scelta, non proviene dalla
decisione di un soggetto. Witold si trova a strozzare il gatto, qualcosa lo
spinge a strozzarlo, e questo qualcosa sono il passero e l’ipotesi
dell’impiccagione del bastoncino: non decide lui di farlo. Solo quando si trova
il gatto strozzato tra le mani decide di impiccarlo: in realtà non può fare
altro che impiccarlo, perché l’impiccagione aveva già manovrato le sue mani.
Perché le altre mani, a loro volta, chiedevano che anche le sue facessero
qualcosa e si aggiungessero al loro sistema: risucchiato dal sistema in
entrambi i casi (poi sarà la volta delle bocche; alla fine il dito in bocca a
Luigi unirà i tre sistemi in uno solo: anche i sistemi sono risucchiati dalla
logica del sistema).
Sembra
che aggiungere caos al caos sia il solo modo per fare ordine.
Il
regista è sacerdote di un rito di cui viene percepita solo la necessità (tanto
più trascendente quanto più si è radicata, confusa coll’immanente: necessità
che sembra solo dell’individuo cioè, e dell’individuo che crede di potersi
individuare – e legittimare – solo dal confronto con essa) e che si spera possa
condurre al senso solo celebrandolo.
Anche
il padre celebra questo rito: è forse l’unico soddisfatto, almeno qui, perché
ha fatto sistema del caos, dell’insignificante; si è eretto un sistema di riti
minori – palline di mollica, masticazione della caramella, linguaggio... – con
ciò che per gli altri è invisibile e insensato: si è radicato lui stesso in
quest’altro territorio che solo Witold riesce a percepire, e non a caso – così
come non a caso il padre riconosce Witold e ciò che sta tramando e appunto per
questo lo fa partecipe del proprio mondo e linguaggio, mondo e linguaggio che
sembrano identificarsi ma che si sovrappongono solo in pochi elementi che però
ciascuno usa a modo proprio, ancora individualmente cioè. Il rito del padre, la
sua rivincita, non può essere una vittoria finale, perché nutrita di una serie
di sconfitte che hanno segnato tutta la sua vita e continueranno a farlo anche
dopo. Non può essere una vittoria se poi a pranzo c’è la fricassea di pollo.
Se
ne deve allora dedurre che può vincere momentaneamente solo colui che dura
nell’essere vittima, appunto come il padre. La celebrazione finale, sia pure
momentanea, spetta solo a chi incarna, cioè vive nella continuità della carne,
la continuità della condizione di vittima. Il rito può essere celebrato solo
dalla vittima che si è affidata al caos, mentre chi pretendeva di dominarlo
razionalmente, Luigi, può solo impiccarsi, cioè sacrificarsi una volta per
tutte – ma per niente, perché la sua morte nasce solo da un crollo, nel momento
in cui si riconosce come quella vittima che prima aveva disconosciuto se
stessa.
La forma della morte
“Quando affronta senza compromessi i tratti
fondamentali della nostra condizione, la poetica si sforza di far luce
sull’indicibilità dei nostri incontri con la morte (per la loro struttura
definitiva, le narrazioni sono prove generali della morte).”
Questa
affermazione di George Steiner in che misura è possibile applicarla a
Gombrowicz? Gombrowicz cerca sempre di inserire la morte in una forma. Nei suoi
romanzi la morte è sempre (anche quando è solo cercata, come in Trans-Atlantico) un assassinio (o un
suicidio come assassinio di sé la cui causa però va ricercata nello scontro con
gli altri, come in Cosmo).
L’assassinio dà una forma alla morte, o cerca di dargliela. La lotta con la
Forma, che è tale in quanto aspira alla rigidità, non sarebbe allora una forma
per la lotta contro la morte? Cioè contro ciò che si sottrae alla fluidità
delle forme, per definizione interumane, consegnando l’uomo alla rigidità
dell’oggetto (che non comunica nulla, che allude sempre a qualcosa ma non
significa – nel senso attivo del verbo – nulla ed è sordo ad ogni
comunicazione, che invece è sempre per/con l’altro, e significato)?
L’eccitazione e la paura
In
Pornografia alla fine tutto combacia:
la legge della compensazione, la logica del sistema, il principio di simmetria
hanno portato a un nuovo equilibrio e una nuova Forma, retrospettivamente, si è
formata, ma ora si tratta di Forma ed Equilibrio vuoti, insensati, come la
morte. L’eccitazione che stava all’origine di ogni movimento sembra essersi
placata, non tanto nel raggiungimento del Piacere tuttavia, quanto in un nuovo
Stallo, asfittico, senza aria, come la morte ancora. Al di là del principio di
piacere.
È
lo squilibrio, la differenza (giovane-adulto ecc.) a mettere tutto in moto;
l’eccitazione è il risultato di questo movimento delle differenze che cercano
di placarsi nel proprio presunto e provvisorio opposto, ma naturalmente senza
riuscirci, perché essa non trova la sua meta, sempre viene fatta slittare verso
altro fino a negarsi nel momento in cui dovrebbe trovare una realizzazione
(Beppe viene ucciso: Federico sembra in estasi, “innocente!”, Carlo e
Enrichetta sorridono, e se per un attimo tutti riescono a guardarsi negli
occhi, è comunque sempre “dal fondo della loro
catastrofe”).
Ma
l’eccitazione conosce, o meglio: intuisce, percepisce senza conoscerlo se non
quando ne verrà sopraffatta, il pericolo che porta in sé, come un’eterna
gestante, e per questo essa non è mai senza la Paura, che non è la sua altra
faccia, bensì proprio la sua Faccia.
La
Paura è meno quella del Compimento che quella del Vuoto. Si potrebbe pensare
che sono la stessa cosa (la stessa paura), ma sarebbe un errore: infatti il
Vuoto di cui la Paura ha paura è la minaccia costante dell’Eccitazione non come
anticipazione della sua Fine ma in ogni momento del suo Essere, tanto presente
(ma è ovviamente un paradosso parlare qui di presenza) da svuotare tutto e
tutti coloro che solo sfiora, capovolgendoli nel loro opposto che a sua volta
si capovolge, in una doppia negazione che non dà luogo a nessuna affermazione.
Se a qualcosa infatti dà luogo è un’ulteriore negazione, sospesa come in
un’assenza pneumatica (come l’asma di cui Gombrowicz morirà) che svuota gli
opposti e l’opposizione che li oppone. Non la negazione di qualcosa ma il
non-qualcosa, non un nuovo valore ma il meno-di-un-valore...
Meno di uno
Nei
romanzi di Gombrowicz ogni protagonista (o meglio: ogni narratore) ha il suo
doppio. L’io è meno di uno e si sdoppia in narrante e agente, ma non è la loro
somma. Ma anche la loro somma è meno di uno. Il primo osserva e racconta, il
secondo mette in azione (un’azione che trascina nel suo ingranaggio anche il
primo, che non narra mai dal di fuori), ma l’impulso a questa azione, il movente, nel vero senso della parola, è
sempre qualcun altro (il giovane, la ragazza, Lena...) che a sua volta
abbisogna ancora di un altro doppio (Ignac e Orazio, Carlo e Enrichetta, Lena e
Caterina), quando non di più doppi (Beppe in Pornografia, le due sposine in Cosmo)
e di altre controparti o complementi.
Il
“Je est un autre” di Rimbaud si moltiplica, prolifera in tanti autres nessuno dei quali riesce a fare
un je, come del resto nemmeno le loro
somme provvisorie.
Visibile e invisibile
(Cosmo)
L’invisibile
ha inghiottito il visibile. Il senso (significato) ha cancellato i sensi, le
cose sono solo se stesse, cioè niente, o un frammento tra gli altri, indistinto
e uguale, cioè ancora niente. Ha senso solo ciò a cui viene imposto con
l’effetto però di ridurne la visibilità: il resto non si vede nemmeno. Se
qualcosa si impone nonostante tutto, allora deve
avere un senso, e se non ce l’ha, glielo si deve trovare. Trovarlo significa,
più che definirne la singolarità, produrre altre uguaglianze, istituire
relazioni: quindi non estrarre il visibile dall’invisibile, come potrebbe
sembrare, ma forzare il visibile verso l’invisibile, come se perderlo sia il
modo migliore per riacquistarlo altrove. Questa imposizione è violenza, frutto
e produzione di violenza (deriva dalla violenza, dalla paura di essa o dalle
sue forme in qualche modo istituzionali, e la perpetua, magari con l’intenzione
di stravolgerla e di negarla: propositi che finiscono in nulla o in nuova,
anche se comica, confusione: cfr. la fine delle tre parti di Ferdydurke, – anche l’ultima, prima della fuga in cui il protagonista si trova, c’era da aspettarselo, di
nuovo imprigionato –, e degli altri
romanzi). Quando però il sistema dei sensi (significati) decade e ciò che si
impone alla vista è troppo forte per poter essere cancellato (ovvero quando nel
soggetto sono crollati – svaniti, diventati vani, decaduti – i confini e i
parametri abituali dell’imposizione di senso), allora si impone il puro
meccanismo dell’imporre e il risultato è l’aberrante (ciò che erra lontano, via
da): il caos è moltiplicato dalla necessità di imporgli un ordine e
contemporaneamente rivela, fa esplodere, tutti i caos che le mappe dell’ordine
avevano coperto. Il meccanismo che si perpetua si trasforma in rito
inspiegabile che non assolve nessuna funzione, o che ne assolve una sola,
soggettiva e incomunicabile (ancora nessuna cioè, appunto perché soggettiva e
incomunicabile: è celebrato al buio come il rito onanistico di Leo; è il buio): non placa, inquieta; o se
apparentemente sembra placare qualcuno, tanto più inquieta e travolge tutti gli
altri (la gita del paparino).
Il
visibile affiora come dettaglio, ma dettaglio irrelato. Il dettaglio irrelato
però è tremendus, incute terrore, il
terrore di chi si ritrova sperduto e solo davanti ad esso, e chiama alla
relazione, ma questa relazione è ancora relazione di dettagli in uno spazio
in-definito (tra gli alberi, ai bordi, fuori dai confini, – per es. della
strada –, nella macchia, o sui confini, – per es. i muri) e trascina con sé la
perdita di definizione anche di ciò che appariva definito. L’invisibile (i segni
sul muro, i sassolini ecc.) diventa visibile, non: torna alla visibilità, ma
proprio: diventa visibile, producendo
un sovraccarico indefinito di senso (significato) e dei sensi (percettivi),
eccessivo, intollerabile, che chiede di essere placato. Ma per placarlo c’è
appunto solo il rito del puro meccanismo, svuotato dall’affermazione del
visibile (genitivo soggettivo): ricorrendovi però, – perché non si conosce
altro, perché se ne è preda (oggetto e non soggetto, vittima mentre si agisce
da sacerdote) –, si producono effetti opposti a quelli desiderati. Il
simbolismo dei gesti produce vittime reali, e la perdita del senso del
simbolismo induce la perdita del senso della vittima. Che resta come tale,
inspiegabile, e può solo chiamare altri gesti simbolici (il dito in bocca) che
chiudono il cerchio del meccanismo, di quel
meccanismo facendolo però esplodere definitivamente. Questa esplosione produce
il riso: il riso è il riconoscimento del meccanismo esploso, la liberazione ma
anche il ritorno al caos, la bufera notturna. Non si vede più niente, il
visibile è cancellato con l’invisibile. La vittima svuotata di senso non ha
portato pace né definito nessuno spazio vivibile: i sopravvissuti restano
prigionieri di questo spazio vuoto. Forse potranno cominciare di nuovo a
vedere, ma quel che vedranno sarà ancora ciò che speravano di lasciare alla
spalle, ciò da cui avevano cercato di fuggire. Tornano, ma dove? Ancora alla
guerra col padre e il capufficio (con la forma, l’ordine, la definizione). In
modo diverso? Non credo.
L’invisibile è la forma
L’invisibile
si riforma sempre, deve riformarsi, perché l’invisibile è la forma, quella che ogni volta si riforma nello stesso momento
in cui qualcosa come forma è riconosciuto, è cioè diventato visibile. “Tanto
più uno è intelligente, tanto più è stupido.” Nel regno del visibile (e della
vista), l’invisibile regna.
La creazione della
realtà
Sul
transatlantico che lo sta riconducendo in Europa (a morire), Gombrowicz pensa
all’Argentina che sta lasciando per sempre e ne cerca una definizione, cioè un’immagine che la definisca per
poterla portare con sé, per capire che cosa ha tanto amato in essa. Prima è un
bambino (uruguaiano!), poi una “donnetta dagli angoli della bocca piegati
all’ingiù”, poi altre immagini ancora. Si sta ancora compiacendo di aver
trovato l’immagine, la definizione giusta, che subito qualcosa d’altro su cui
cadono i suoi occhi gliene suggerisce una nuova, presto sostituita da un’altra
ancora e così via. “Io avrei forse raggiunto il passato, se soltanto il
presente avesse cessato di svolgersi!”, conclude. E invece questo “si
dimostrava impossibile a causa della pletorica invasione dei fatti... fatti e
ancora fatti... era una galassia di fatti, fatti che sciamavano”, fatti che si
imponevano all’osservatore ma nessuno dei quali tuttavia riusciva ad imporsi
per se stesso, in quanto tale, perché
“la loro rabbiosa abbondanza li portava a una furibonda degradazione, (e) nulla
riusciva a verificarsi sul serio, perché già quel che seguiva stava alle
calcagna”. (Parigi-Berlino)
Mi
sembra che questo valga anche per i suoi romanzi, specie per Cosmo, la cui stesura è contemporanea di
queste pagine.
Dal
passato, da cui non ci si riesce a staccare e che (forse perché) non si riesce
a comprendere, cioè a organizzare in un senso non si dice fisso, ma solo
qualsiasi, viene l’impulso coattivo a capire e a definire (la costruzione della realtà). Questo impulso
però viene deviato ogni volta da
qualcosa che accade, o su cui cadono
gli occhi (l’occhio caduto sul ponte della nave?), che sembra offrire una nuova
chiave per interpretare che sembra far quadrare tutto o indica in direzione di
un possibile sistema con evidenza allucinatoria. Non appena imboccata questa distrazione tuttavia, subito si impone
la nuova necessità di confrontare e
riorganizzare tutto, e tutto sembra acquistare una nuova forma, evidente nei
suoi componenti ma confusa nel suo senso: per chiarirlo bisogna allora fare qualcosa, se non che questo
qualcosa o è indecidibile (vedi la straordinaria scena del passaggio tra i due
massi in Cosmo) o è assolutamente
condizionato dall’ultimissimo stadio dell’organizzazione del sistema, che è la
stessa cosa. L’impossibilità si trasforma in, è uguale alla necessità;
l’immobilità trapassa nel gesto obbligato, al quale viene attribuito il
significato di una decisione, cioè di una scelta soggettiva, la cui origine
tuttavia il soggetto ignora perché già preso in anticipo nella rete che lui
stesso ha costruito senza saperne la ragione (perché bisogna costruirla; per paura; per noia, che “ha poteri ancora più
occulti della paura”). Il soggetto l’ha costruita alla lettera posseduto,
invasato, indemoniato (ritorna l’importanza della dimensione religiosa,
significativa proprio in quanto parodica : “quando aumento in me la sincerità, si
accresce contemporaneamente il rischio di caricare, di fare il buffone, e
allora diventa inevitabile la stilizzazione” – Parigi-Berlino), dalla cosa, dalla sua vita che diventa autonoma, e
per questo minacciosa ancor più che misteriosa.
Niente
si verifica sul serio non solo perché
quel che segue sta “già alle calcagna”, cioè perché sempre è sul punto di
accedere ma non oltrepassa la soglia del senso (definito una volta per tutte),
ma perché tutto ciò che segue si volge indietro, strizzando l’occhio a quanto
lasciato alle spalle, caricandolo di nuovi sensi a loro volta indefiniti. Di
nuovo caos, elenchi a cui imporre un ordine, una forma. Tanto più ti ritrovi
caos, dopo ogni tentativo di definire (di definirti), tanto più diventa
urgente, cioè vuoi, forma, ordine, sistema, architettura. (E tanto più
terribile sarà il nuovo caos.)
La creazione della
scrittura
La
creazione della realtà è (la stessa di) quella della scrittura. Gombrowicz lo
ha spesso dichiarato: voleva fare una cosa ma subito il testo veniva
“trascinato nel vortice di un tale danza” (Testamento)
che finiva per sfuggirgli, così che non poteva fare altro che seguire la sue
direttive e più di una volta si è trovato a tornare indietro per riscrivere
l’inizio o parti che credeva già compiute. Dalla forma voluta, e quindi imposta
(fosse pure dal soggetto), e quindi
falsa, adottata per ordinare il caos, emerge una nuova logica che a sua volta si impone e alla quale si tratta non solo di
assoggettarsi ma anche di venirne a
capo con la massima lucidità possibile, momento per momento, con la
consapevolezza però che è impossibile dominarla, che si deve essere pronto a
piegarsi alle sue deviazioni, a
lasciarsene distrarre, “fiducioso che
la forma, da sola, avrebbe messo fine a tutte le difficoltà” (Parigi-Berlino).
Viceversa,
è probabile che vedere l’opera organizzarsi in una forma sotto i suoi occhi gli
abbia fatto capire in che modo si forma (si crea) la stessa realtà. Ambedue
soggiacciono all’imperativo della forma, alle leggi della simmetria,
dell’analogia e del contagio, alla proliferazione di sensi che invocano un
sistema. L’unica differenza è che la realtà ritorna al caos, mentre l’opera
sembra concretizzarsi in una forma definita. Poi però ci penserà ogni nuovo
lettore ai reimmetterla nell’alternanza di forme e caos sempre nuovi
(nonostante la preoccupazione costante di Gombrowicz di porre dei punti fermi).
Identità e
legittimazione.
Niente
è, e tutto vuole essere. Il principio di identità sembra dominare, senza
possibili negazioni o equivoci (già in Bacacay: “Filippo però aveva giurato...
Ma il cuoco non è altri che in cuoco! Un cuoco è un cuoco, un cavolfiore — un
cavolfiore, una contessa — una contessa e soprattutto quest’ultimo fatto non
sia dimenticato”). Invece ogni cosa più che se stessa è non-altro (in Tans-Atlantico
la “gonna non gonna”, il “corpetto non corpetto”, la “camicia non camicia” di
Gonzalo; in Cosmo: “ ...apparve un uccello (...) No, non era un passero, ma
per il fatto stesso di non essere un passero, era tuttavia un non-passero, e,
essendo un non-passero, era un tantino passero...”) e la purezza è una pia
illusione in un mondo in cui ciò che predomina sono l’impurità, l’incrocio
bizzarro, la mescolanza, la deviazione, il pasticcio, l’abbassamento e lo
svuotamento come nell’estancia di
Gonzalo.
Così
ognuno può solo limitarsi ad affermare
un’identità che non ha chiedendo agli altri di riconoscergliela per la sua
evidenza; non di legittimarla (atto che solo l’altro può compiere), ma di
riconoscere (cioè di conoscere e accettare l’imposizione che esige) la sua
autolegittimazione. In questo modo tuttavia è l’altro a non essere riconosciuto
nella propria identità e ad essere in tal modo delegittimato: contraddizione
che non conosce ragione, contraddizione di chi non conosce ragione.
L’altro
invece può legittimarlo solo in quanto altro (cioè come qualcuno che può
riconoscere o meno la pretesa di identità del primo), se non che proprio questo
gli torna impossibile dal momento che da una parte la sua identità non è
riconosciuta, perché riconoscerla sarebbe negare la legittimità della pretesa,
e dall’altra facendolo negherebbe la propria speculare pretesa. Potrebbe cioè
riconoscere l’identità del proprio altro (la sua differenza), solo in quanto
venisse a sua volta riconosciuto come simile (come uguale) nella sua essenza e
nelle sue pretese, se non che da entrambi simile e uguale vengono identificati
non con un’appartenenza comune a qualcosa che li oltrepassa (e cosa mai
potrebbe oltrepassare ciò da cui tutto promana?) ma appunto con l’identico,
trascinando tutto nel vortice dell’indifferenziato (del caos) da cui nessuna
identità può emergere. D’altronde l’altro non esiste, come Gombrowicz non si
stanca di ripetere.
Ammettiamo
però che per puro caso l’altro venga in qualche modo riconosciuto (cioè riesca
ad imporsi) non sopra o sotto ma allo stesso livello. Allora non ne risulta una
comunanza (come quella che può solo vagheggiare, tra gli altri, Mientus in Ferdydurke), e nemmeno una semplice
negazione, che presuppone l’identificazione di ciò che nega e ancora la
coappartenenza ad un ambito comune al cui interno ci si può incontrare e si può
parlare (è quello che “eroicamente” tenta la signora Amelia con Federico in Pornografia) , ma la scomparsa effettiva
di uno dei due (la sua morte, ma per mano di un terzo — Amelia — o propria —
Luigi) o lo svuotamento di tutto (come durante la messa ancora in Pornografia).
Che
cosa resta allora? O la chiusura di ciascuno nella propria rivendicazione,
nella propria vuota identità (il “sestessismo”, il “meproprismo” che non è
prossimità ma lontananza: “Tutto avveniva nella lontananza”, Cosmo); o la recita, il rito del vuoto
riconoscimento dell’autolegittimazione dell’altro come suggello e cieca
specularità della propria: non l’opera, ma l’operetta. La maturità è appunto questo: il voler essere quello che non si è e il
voler essere riconosciuto per quello che si vuole essere, mentre l’immaturità della maturità è proprio
questo voler essere un non essere, mentre l’immaturità
tout court è invece non essere quello che l’adulto vuole essere e volerlo
diventare, aspirare ad esserlo. Dunque la
maturità dell’immaturità sarebbe il sapere di non è essere ancora ciò che
l’adulto vuole essere e il non volere diventarlo: situazione senza sbocco però,
poiché nel non essere ancora non si può consistere né essere.
Da
un altro punto di vista la maturità consiste nel credere e voler far credere di
sapere quello che non si sa, anche quando qualcosa o molto si sa (“Tanto più
uno è intelligente, tanto più è stupido”), mentre l’immaturità consisterebbe
nel sapere di non sapere ciò che gli altri sanno o vogliono far credere di
sapere e insieme nel credere che gli
altri sappiano e nel voler sapere a propria volta (quindi non: “tanto più uno è
stupido, tanto più è intelligente”, bensì: “tanto più uno è stupido, tanto più
si illude sull’intelligenza, sia sulla propria che su quella di chi è
riconosciuto intelligente).
Molte
delle “battaglie” culturali di Gombrowicz, la sua passione per lo
smascheramento e la denuncia, i suoi sarcasmi e le sue provocazioni vengono da
qui. Sarebbe però troppo facile capovolgere contro Gombrowicz le sue stesse
argomentazioni, e Gombrowicz sarebbe troppo stupido se, proprio lui, lo
ignorasse (ciò che non sembra il caso). Eccolo allora giocare d’anticipo questa
carta contro se stesso e farne uno degli oggetti principali dei propri scritti,
d’invenzione e diaristici. E tuttavia questo non basta a togliere ogni
sospetto: qui si tocca un punto dolente; non c’è niente da fare, il dente è
cariato.
È
seccante far ricorso a vicende personali, ma d’altra parte è Gombrowicz stesso
ad autorizzarlo (ah!) ricorrendovi lui per primo. Coraggio dunque:
È
noto quanto pesasse al giovane Witold essere un signorotto: almeno altrettanto
che voler esser quel che non era, senza però essere nient’altro di particolare,
perché avrebbe comunque significato essere un non-signorotto (se non forse
voler essere uno scrittore: vale a dire proprio ciò che le zie non volevano da
un lato e ciò che gli altri non gli riconoscevano ancora dall’altro; e con
“altri” non vanno intesi i pochi estimatori, per alto che fosse il loro valore,
ma “tutti”, o quanto meno “il maggior numero possibile”: si ricordino le
considerazioni sul numero — dei pittori, dei musicisti, degli scrittori — e
suoi suoi effetti soffocanti e paralizzanti nel Diario). Quando arriva in Argentina e decide di restarci (la scusa
è eccellente: la guerra), scopre, magari tardi, di averlo deciso perché gli
veniva offerta un’opportunità unica (col plusvalore dello sgravio di
responsabilità): quella di non essere più, di essere da capo e insieme di poter
giocare (recitare, divertirsi con) il suo essere stato senza il peso di esserlo
più e ancora.
Fa
una vita grama, è vero, ma non gli costa. Che liberazione anzi! Non si è mai
sentito tanto leggero. Va dove vuole, fa quel che vuole e con chi vuole senza
dover rendere conto a nessuno, nemmeno al se stesso che era senza volerlo
essere (un signorotto con tanto di zie!). Non frequenta intellettuali e
scrittori, ma gente comune (anche equivoca!), e soprattutto giovani, coi quali
può essere, tra il serio e il faceto (cioè serissimamente nel divertimento),
scrittore e conte assieme, idolatrato per quello che è senza zavorre sociali e col vantaggio
derivante dal fascino di poter fare occhiolino a ciò che per gli altri può
essere stato (nobile, ricco, noto) ma al quale lui può permettersi di riferirsi
come a un mito ironico. Ah, i ragazzi!
Eppure
gli scrittori che non frequenta (Borges e il salotto delle Ocampo per esempio)
non per questo sono meno presenti alla sua mente (e alla sua penna: come
bersaglio), così come quelli che, letti da tutti (consacrati da Parigi!), non
solo non leggono lui, ma non sospettano nemmeno della sua esistenza. Quando a
Buenos Aires arriva strombazzato da tutti i giornali François Bondy, direttore
della rivista Preuves (parigina!), e
viene a cercarlo il giorno stesso, lui in persona nonostante i suoi numerosi
impegni ufficiali, Gombrowicz, che per delicatezza aveva progettato di fargli
visita l’indomani in albergo lontano dagli imbarazzi mondani che peraltro
disdegna, è lusingato e emozionato come un bambino. (A pensarci, dopo il primo
sorriso, non fa nemmeno tenerezza: è la triste ironia della storia e basta.)
Sì, perché il problema dell’identità e della legittimazione che smonta e deride
nei suoi testi, angustia anche lui, e lo angustia in maniera tanto più intensa
proprio perché ne conosce ogni più riposta contraddizione e finzione, e insieme
la profonda necessità. Ma non può farci niente, è un problema anche suo, è il suo problema (ricordare l’ironico e
drammatico inizio del Diario: “Lunedì.
Io. / Martedì. Io /Mercoledì. Io.”), — e nessuno saprebbe
rimproverarglielo, nonostante lui stesso ne esagerasse la debolezza e
l’intrinseco pericolo di esposizione al ridicolo, quello vero, quello che tocca
e corrode ciò che di più forte e profondo uno sente dentro, non quello che si
può gettare per esempio sugli ospiti di una cena chic cominciando a togliersi i
pantaloni (episodio che oltretutto pare inventato di sana pianta) o su chiunque
se ne sta impettito nel proprio ruolo e da tutti riverito. È il problema
insieme della legittimazione ad essere, di quella ad essere uno scrittore e di
quella dello scrivere: la stessa cosa per Gombrowicz, e per chiunque scriva (o
dipinga, scolpisca...).
È
anche un problema troppo grosso, che qui si può solo sfiorare (formula tipica
di chi non è in grado di affrontarlo veramente, direbbe forse Gombrowicz, — e
se non l’ha detto, lo dico io. Formula della distrazione, della deviazione. E
comunque...) È uno dei problemi principali dell’arte e degli artisti
contemporanei, come è noto, dopo che la relativa tranquillità derivante dalla
legittimazione esterna (della coappartenenza sociale, religiosa, di classe...),
per quel che poteva vale, si è afflosciata lasciandosi alle spalle come un
senso di disgusto che distoglie da ogni tentazione nostalgica. La
legittimazione quindi, se non viene più dal di fuori, deve venire dal di dentro
(dell’opera, dell’artista), deve avere il crisma della necessità, affermarsi da
sola. Deve essere un’autolegittimazione insomma. Ma allora...? ...allora
l’identità... l’altro... la maturità e l’immaturità... il puro e l’impuro... la
forma... il cosmo... il caso... il caos... Troppo. Quasi.
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