Cari
tutti,
buon
pomeriggio. Poiché siamo stanchi e il tempo è poco prometto che sarò breve,
anche se non sono bravissimo a mantenere le promesse. Quando l’amico Marco Ercolani
mi ha invitato a parlare di Bacacay all’interno di una giornata di lavoro
dedicata a arte e follia, come è facile immaginare mi sono chiesto cosa diavolo
c’entrava ciò che Elio e io stiamo facendo da qualche anno sotto questa sigla
con l’argomento in discussione, e quindi cosa diavolo avrei potuto dire. Così
ho pensato di leggervi, con qualche commento estemporaneo, un breve testo
scritto in occasione di una esposizione avvenuta quattro anni fa. Eccolo qui:
Più
che una casa editrice, cioè un’impresa insieme culturale e economica, Bacacay è
un gesto affettuoso, una serie di gesti premurosi che si traducono in libri.
Alla
radice di ciascuno di essi stanno delle affinità personali o intellettuali, in
genere entrambe: le prime infatti, almeno in questo campo, sono indissolubili
dalle seconde, mentre le seconde, anche se possono prescindere dalle prime, è
difficile che non si instaurino quando un’occasione di incontro si verifica.
Fare
il libro di qualcuno, quando non è l’effetto di questo incontro, è la sua
premessa. Farlo materialmente, dalla richiesta o dalla scelta di un testo alla
sua elaborazione su computer, alla scelta della carta, alle bozze e alle
fotocopie degli “originali”, fino al lavoro concreto di realizzazione (piegare
i fogli, bucarli, cucire i fascicoli, incollarli tra di loro e poi alla copertina
e infine, eventualmente, rifilarli): ciascuno di questi gesti presuppone una
catena di affinità e di amicizia.
Se
il gesto ha un risvolto economico, è solo quello del dispendio: di qualche
soldo da parte di Bacacay (prima una sola persona, ora due: il sottoscritto e
mio fratello Elio), di tempo da parte di chi vi lavora, di rinuncia a qualsiasi
guadagno da parte di chi offre l’opera. L’unico guadagno è che un libro ci sia:
questo libro, di questa persona, fatto da queste altre persone. Un libro, e poi
un altro e un altro ancora, ma tutti presi uno per uno. Anche se poi, col
tempo, una serie si produce, e non indifferente (a tutt’oggi, maggio 2001, sono
una quarantina di titoli, cioè circa 4000 libri).
Anche
la distribuzione risponde alla stessa logica: lo scopo è che il libro vada in
mano a persone interessate, scelte ad una ad una, perciò la maggior parte delle
copie viene data dagli autori del testo e delle immagini e dagli editori stessi
agli amici e ai collaboratori. I libri non sono in vendita: per nuovi arrivati,
curiosi e sostenitori restano poche copie. Chiederle significa esser già
entrati in quella che si potrebbe chiamare la logica, o la illogica, di
Bacacay, che è fatta di interesse, di domanda non superficiale e di
interrogazione sul loro aspetto e insieme sulle ragioni della loro produzione.
(Dalla domanda poi, dal suo modo, dipende quello della risposta, che può essere
il dono, il suggerimento dell’opportunità di un sostegno che talvolta può
preludere ancora a un dono o esserne accompagnato, o la richiesta diretta di
una cifra, che può variare a seconda delle persone e delle circostanze, per
saggiare se interesse c’è davvero o per alzare qualche sbarramento, in
relazione al tipo di libro, al numero delle copie rimaste, ma anche agli umori,
alle reazioni anche di pelle tra gli interlocutori.)
I
libri sono a tiratura limitata e variabile (in genere però le copie sono 100,
almeno nominalmente, perché a volte se ne fanno meno e si completa la tiratura
solo se necessario), ma tutti numerati e di solito firmati, e in alcuni casi
contengono interventi a mano e si pongono in quel territorio indefinito che si
suol chiamare libro d’arte. Sempre occasione di interventi artistici realizzati
alla bisogna (che sia l’autore stesso del testo a realizzarli o qualche altro
amico invitato da lui o da Bacacay: ma il rapporto tra testo e immagine può
anche capovolgersi o fare tutt’uno, quando l’autore è un artista, – e a noi piacciono gli artisti che scrivono), essi
corrispondono anche come oggetti all’estetica implicita nel loro progetto: non
ostentano nessuna finta professionalità o pseudoeleganza da grafica o da
editoria di lusso, ma intendono mantenere le tracce anche materiali e le
imperfezioni del loro modo di produzione e del desiderio che li ha voluti.
Ecco,
questo è il testo. Resta la domanda su cosa diavolo c’entra con l’oggetto delle
nostre discussioni.
Sulla
follia infatti ho ben poco da dire: la follia non mi affascina, mi addolora, e
quando qualcosa mi addolora, cerco subito di cancellarla o di rimuoverla, o
quanto meno di attutirla (di studiarla senza in qualche modo parteciparvi non
sono capace: questa come qualsiasi altra cosa). Il gusto di sguazzare nel
dolore, e peggio se il dolore non è il proprio, lo lascio ad altri. Cerco di
attutirlo in me, stante la mia comprovata impotenza a attutire quello altrui;
anche se spesso ci provo. Ma i risultati sono così scarsi, essendo improbabile
che la condivisione del dolore abbia altro effetto che crearlo in chi se ne fa
carico se non può intervenire in modo efficace, che l’unica cosa ragionevole mi
sembra distogliersene. Se ci si riesce. Perché poi ci si sente anche
vigliacchi: e allora la fregatura è completa.
Allora
mentre seguivo gli interventi che mi hanno preceduto strologavo su cosa avrei
potuto aggiungere alla lettura del testo. Con un tono certo dettato, un po’,
anche dallo spaesamento e dall’ansia mi chiedevo: Che cosa cazzo ho da spartire
io con questi qua? È un’esperienza così
diffusa che verrebbe da rispondere che è appunto questo che abbiamo in comune:
il non aver niente da spartire con nessuno. E forse è così. Ma a me non basta.
Non mi va bene. Sono contento quando qualcuno ha qualcosa da spartire con me, e
viceversa: un pezzo di mondo comune, in cui però quello che importa non è tanto
il comune, quanto il pezzo di mondo. Per sentire qualcosa in comune e basta, di
mondo, intero o a pezzi, si può fare anche a meno. Anzi, in queste forme di
comunanza (e comunità), meno mondo c’è e meglio è, perché il mondo con la sua
materialità e corporeità spesso fa da ostacolo alla volontà di comunanza, che
sembra funzionare meglio come comunanza vuota.
Non
mi va nemmeno, tuttavia, un mondo pieno, o qualcosa del genere, che non possa
essere comune, come quello della pazzia. Per questo affermo spesso di voler
essere normale, e anzi di esserlo e basta.
Ma
forse Marco invitandomi a parlare in questo contesto sottintendeva che
un’attività come Bacacay è in qualche modo folle. Ora, io credo che coltivare
un’attività non economica non è folle: è stupido. Coltivandola (parlo a puro
titolo personale) è come se avessi voluto creare un recinto dove la mia
stupidità potesse liberamente scorrazzare, quasi a esorcizzare che circolasse,
ignorata, altrove: il che sarebbe stata la pretesa più stupida che avessi
potuto accampare, se l’avessi fatto. Con questo non intendo che il non averla
accampata mi abbia preservato dall’incarnare la stupidità in mille altri modi,
dei quali ovviamente mi accorgo (quando me ne accorgo) solo a posteriori;
tutt’altro. Questa constatazione peraltro non mi ha indotto ad abbandonare la
lotta, che infatti, col sicuro istinto del perdente, non intendo mollare.
Alziamo il livello, mi dico: anche se per ogni gradino che salgo, la beffarda
dovesse farmene scendere due. Qualcosa in comune magari resta. E comunque un
pezzo di mondo c’è, o di qualcosa del genere.
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