I miei libri delle vacanze si riassumono
anche quest'anno in quello che da sempre devo e voglio leggere e che non
leggerò mai: Guerra e pace. Tutti gli
anni leggo altri libri che hanno la sola funzione di sostituti, miseri
surrogati neanche dell'oggetto aminuscolo,
di cui tutto è più o meno un surrogato, ma di un ancora più fantomatico A maiuscolo
(o altra lettera similare), quello mastodontico, gigantesco e rivoltante, qualsiasi
cosa sia quell'orrida bestia, barrata, il cui baluginio ogni tanto ci ferisce
come una stilettata e è già esso stesso solo un riflesso, un effetto di qualche
suo altro effetto innominato e senza nome, disperso nella catena dei
significanti, dei libri, dei desideri senza misura che ti scavano un buco vibrante
nella pancia, una voragine brulicante di gas e esserini appena vivi e già
moribondi, in via sempre di morire senza mai sparire, che si dirama in una
serie di gallerie con tanto di crolli e esplosioni sotterranee dove qualcosa
resta imprigionato, incriptato per sempre e tu manco lo sai, manco sai che
cazzo è. Quando mi avvicino alla mia preda con tanto di ghigno sanguinario a
deformarmi il muso, sicuro di tenerla e pronto a ghermirla, subito mi ritraggo:
una volta è un'edizione troppo voluminosa, un'altra i caratteri sono troppo piccoli,
un'altra ancora nutro seri dubbi sulla traduzione, senza contare che poi mi
arrivano libri urgentissimi, la cui lettura immediata è indispensabile,
addirittura vitale, specie per chi me li ha mandati, e così tutti gli anni lo
lascio lì. E mi ritrovo a leggere sempre altro, con un senso di colpa ormai
tanto remoto che me ne giunge solo, nei momenti più bui, solo qualche vaga
zaffata (e meno male...).
Allora mi lascio trasportare dalle
occasioni. Quest'anno un caro amico, che qui ringrazio, mi ha chiesto se mi
andava di fare una recensione all'ultimo libro di Peter Handke, Saggio sul luogo tranquillo (Guanda), magari accennando anche a qualche recente ristampa, come
Storie del dormiveglia e Il peso del mondo (entrambi pure
da Guanda), e a Un
anno parlato dalla notte (Moretti e Vitali), un libro che attinge il suo
materiale dai sogni e che quindi non dovrebbe piacermi, perché poco mi respinge
come i sogni in letteratura, ma che mi è stato caldamente raccomandato anche da
un'amica di cui mi fido che lo ha molto amato.
Il
peso del mondo è stato il terzo libro che ho recensito in vita mia, in coppia
con L'ora del vero sentire (Garzanti,
ultima ed. Gli Elefanti Narrativa), nel luglio del
1981. Negli anni immediatamente precedenti e successivi ho letto molti libri
dello scrittore austriaco, ma poi le mie letture si sono diradate e quasi
spente, e allora ho approfittato dell'invito per ricucire un filo un po' più
continuo, se non completo (con Handke è impossibile, tanto ha pubblicato). E
così, oltre a quelli che già possedevo, siccome nelle librerie che ho girato
c'era pochissimo (e a volte nulla), mi sono comprato tre dei più recenti e me
ne sono procurata un'altra dozzina con l'interprestito. Sono felice della
scelta perché sono quasi tutti libretti brevi che stanno anche nelle tasche dei
jeans o dei bermuda, come piace a me, e che posso agevolmente tenere in mano
per leggerli mentre cammino: abbastanza grandi, però, perché i foglietti che di
solito uso come segnalibro non fuoriescano da bordi arricciandosi o
strappandosi, e con una carta che prende bene le sottolineature a matita (i
miei), ma sufficientemente solidi per appoggiarvi i foglietti per prendere
appunti sia in piedi mentre cammino che, a maggior ragione, quando mi siedo da
qualche parte perché la cosa viene lunga (vedi foto). Cosa che faccio ogni
giorno peraltro, non solo in vacanza (ma io lo sono sempre, essendo in
pensione), nei dintorni del mio paese ad agosto spopolato (anche se negli
ultimi anni molto meno: e si capisce perché), sulle stradine e le piste
ciclopedonali lungo il fiume o i canali, o nella campagna, che conosco palmo a
palmo e dove quindi posso trascurare di occuparmi del terreno e seguire le
parole nella mia testa o sulle pagine e a volte fischiettare senza timore di disturbare
nessuno, perché nessuno o quasi passa di lì quando ci passo io. E queste
saranno le letture principali da fine luglio a ferragosto.
Però, poi, per non fare un torto completo
al buon Lev Nikolaevič (un disgraziato che è andato a morire in mezzo al nulla
dopo aver capito che la sua opera avrebbe generato una trafila vertiginosa di
melensi film e serie televisive: una rivelazione che nessun uomo dabbene
riuscirebbe a tollerare oggi, figuriamoci un'anima santa come la sua, di quei
tempi poi...), mi riservo ogni anno una sua operina minore (minore...), qualche
romanzo breve, un'edizioncina di questo o quel racconto o di due o tre raffazzonati
pretestuosamente per qualche vago tema comune, o a seconda dell'aria che tira
quell'anno, e così, pian piano, disegno attorno all'opus magno il suo
perimetro, ne traccio i confini, scavo in negativo il suo calco con il resto
della sua opera e mi ci metto dentro, mi ci sdraio, assecondandone come posso le
forme, e vi riposo, senza troppi pensieri. Esattamente quello che si chiede
alle vacanze.
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