(Una breve premessa: questo testo è una lettera a FDL inclusa nell'edizione Bacacay del suo Didascalie alla "Sonata in mi minore", che è una delle sue opere più belle, che consiste in un album dove venivano raccolti i 33 giri, sulle cui pagine nere, attorno al cerchio vuoto dove avrebbe dovuto comparire l'etichetta dei dischi, come nell'immagine della copertina qui sopra, Federico De Leonardis ha disposto, ritagliate in modo che le teste e i dati di riconoscimento individuali non comparissero, una parte delle foto di famiglia dopo la scomparsa di sua madre, a cui l'opera, intensissima, è dedicata. L'edizione porta la data del 31 dicembre 1995. Non ho più riletto il libro, e la lettera, da allora. )
Per me nella ciambella è prezioso il buco[1].
Ma che fare della pasta? Una ciambella si può inghiottire, ma il buco rimarrà.
O.
Mandel’štam, La quarta prosa
Caro Federico,
io dei ricordi preferisco farne a meno. Quando
si presentano li allontano, e se talvolta, preso alla sprovvista, distratto da
altro, mi accorgo che indugiano nella mia testa in attesa di un pensiero o di
un’emozione, declino prontamente l’invito: non ne voglio sapere. Allo stesso
modo non faccio progetti. Rifuggo da entrambi come dal dolore, certo per paura
e per miopia, la stessa miopia che mi trattiene nel vicino, nell’assolutamente
prossimo, fin quasi a coincidervi (e quindi a non saperlo poi discernere).
Parliamo del nostro lavoro, — della scrittura quanto a me (e della lettura); della
cosiddetta vita non c’è niente da dire, anche ammesso che si sappia cos’è e che
ne valga la pena (che cosa sia la mia, l’unico punto di partenza possibile, è
chiaro che io lo ignoro, e del resto nemmeno mi interessa).
L’implicazione elegiaca o viceversa disperata
che l’irrimediabilità del ricordo di solito comporta, mi infastidisce, e anche
fare il punto o tirare bilanci, con la loro pretesa di far quadrare le cose,
sia pure per constatare una perdita, sottendono un’ambizione di senso di cui
non avverto la necessità. Chiamalo fatalismo, o stupidità: è lo stesso, vorrà
dire che sono fatalista o stupido. Piuttosto stupido che fatalista però, perché
anche questi affida all’incomprensibile la possibilità, e la capacità, di dare
un senso al succedersi di eventi e cose, nella speranza disperata, se mi
concedi il gioco di parole, che un senso lo abbiano. Io non ho queste pretese:
non me ne vanto, ma neppure me ne rammarico. Le cose sono come sono e basta. In
quanto stupido, al massimo mi provocano stupore (il che non mi dispiace, quando
succede). Quando non posso fare a meno di indirizzare o di impostare una parte
di ciò che faccio o che mi accade, mi trattengo entro un raggio limitato: oltre
non vedo e non voglio vedere. Com’ero da piccolo? Come sarò da vecchio? Non lo
so e non mi interessa. Cos’ho fatto in quell’occasione e cosa farò in
quell’altra? Nient’altro che ciò che ho fatto e che farò. Nessun rimpianto,
nessun desiderio retrospettivo e nessuna rassicurazione per felicità che ci
sarebbero state (di quelle di cui si dice: almeno loro non mi saranno tolte; le
stesse che poi avvelenano, a chi si compiace in questi esercizi, ogni confronto
col resto del tempo). Nessuna consolazione. Ma anche nessun eroismo. Non per
stoicismo: semplicemente perché non ce n’è bisogno. Il sale del pianto e il
miele dei giorni li lascio a chi ha carenze di sodio e glucosio. La mia dieta
va benissimo così com’è. Tutti quelli che amo, li amo per come sono, e non per
quello che sono stati (anche se ovviamente...); figli non ne ho voluti. Così
sia[2].
Non è per questo tuttavia che non ho mai amato
la fotografia. E non dico quelle degli album di famiglia o di viaggio (alla
curiosità perlomeno non rinuncio): parlo della fotografia artistica, quella che
ormai critici, galleristi e compagnia bella sono riusciti a imporre per
estendere lo spazio di un mercato in crisi, quella dei cosiddetti grandi
fotografi e reporter. Mi è sempre sembrato che la fotografia non fallisce mai
nell’ardua impresa di estetizzare tutto, in primo luogo l’atroce. Un’arte
dell’800 che si avvale di una tecnica postuma. Un occhio sottratto alla storia
dalla credulità nella trasparenza di uno strumento o nella possibilità di
dominarlo[3].
E allora perché ho amato subito, alla prima
occhiata, la tua Sonata, che di
fotografie è composta? Boh; ma forse vale la pena, specie per me, che ci giri
un po’ attorno, per vedere se riesco a cavare qualche ragno dal buco.
Quando apro l’album la prima cosa che mi
colpisce è l’odore, l’odore della carta, della legatura, della colla e delle fotografie.
È un odore forte, sgradevole, l’odore vecchio delle cose che ci sono e non
intendono né scomparire né eclissarsi nell’asetticità di una cella frigorifera
o nell’indifferenza. Ogni volta che mi avvicino per guardare meglio mi devo
ritrarre, perché la sua intensità mi respinge, non via, ma alla giusta
distanza, dove ancora ne percepisco l’effluvio ma in modo sopportabile, se non
quasi gradevole, e posso continuare a vedere con precisione le immagini, i
frammenti e soprattutto l’insieme delle pagina. La giusta distanza è quella che
non perde mai di vista l’insieme, è la distanza che da solo non so trovare
quasi mai, — io che tendo a perdermi nei particolari e ho la coazione a
suddividerli in frammenti sempre più piccoli finché non scompaiono anch’essi —,
a meno che non siano le cose stesse a impormela. Una ragione in più per essere
loro grato.
La seconda cosa che mi colpisce sono le tracce
di colla, i segni quasi invisibili (le x, i riquadri, le strisce, le impronte,
la spellatura del cartoncino nero delle pagine) che ogni tanto marcano il luogo
dove un’immagine non c’è, o non c’è più, e avrebbe invece dovuto, o potuto,
esserci, negativi di uno spazio che si sottrae ma lascia comunque un segno,
anche in chi vi si imbatte. L’indizio di un salto, o di un vuoto, o di una
negazione senza termini, ma anche l’invito a una sutura, a un ponte da
immaginare e costruire.
Solo allora faccio caso al buco centrale, che
non mi appare più come lo spazio scontato per le etichette dei dischi che non
ci sono[4],
ma in tutta la sua fisicità, e non ancora come un centro generativo e insieme
la destinazione, il senza fondo, verso i quali le figure spiccano il salto,
come il cavaliere acefalo su cui in questo momento sto fissando lo sguardo.
È soltanto a questo punto infatti che le
fotografie cominciano ad acquistare interesse per me. Sfoglio l’album,
dapprima, senza soffermarmi su niente, se non casualmente su questo o quel
particolare. Non cerco un disegno, una forma o un’intenzione, mi lascio andare
per un po’ alla distrazione. Divago. Ripeto l’operazione due o tre volte,
andando avanti e indietro a velocità e attenzione variabili, con accelerazioni
e ritorni a immagini che mi raggiungono a scoppio ritardato, o nelle quali un
particolare emerge solo dopo che ne ho vista un’altra a seconda delle
attrazioni casuali. Ad attrarmi per prime, per lo più, sono quelle foto piccole
che racchiudono spazi e luoghi di difficile definizione e riconoscibilità, dove
la figura umana è del tutto assente o eliminata (ma già l’eliminazione la segnala:
e dunque queste un po’ meno), come ciò che rimane della cartolina spedita
quindici anni prima della tua nascita da un certo Giovanni da un Lido
imprecisato, che mostra però in primo piani sterpi e ravatti e dietro un
cortile si direbbe di una cascina abbandonata, con una staccionata in legno
davanti a una fila di aperture buie senza porte, tanto da richiamare più la
pianura che qualche località in riva al mare. Guardo l’immagine; l’eventuale
significato, o l’insieme di possibili allusioni che essa può avere per te, per
la coincidenza delle date, non mi interessano[5].
Sono immagini di luoghi che non conosco e non mi
richiamano alla mente niente; le guardo per quello che sono e comincio ad
abbozzarne mentalmente la descrizione, o le descrizioni: meglio, perché ognuna
di esse, a seconda di come le inizio, delle parole che uso, mi porta in
direzioni differenti che dipendono meno da ciò che vi intravedo che dalle
parole che sto usando. Le parole si instradano verso una costruzione della
quale io mi sforzo di seguire la logica (finiscono sempre per averne una, — la
mia testa funziona così —, e una stringente, dove tutto alla fine deve
quadrare, adesso sì, attraverso equilibri sottili, ripetizioni e riprese,
richiami e variazioni di ogni elemento, in una densità che toglie il respiro:
asfissiante o asfittica lo dirà il lettore), verso un racconto. O quantomeno
verso quello che io chiamo così[6].
Per quanto come documento (di cosa non saprei
dire: a volte di chi l’ha scattata; altre di una cosa che era, è stata, o è così; altre ancora di chi la mostra o ne
fa uso; ma niente colore del tempo, niente testimonianza storica, niente
validazione di un fatto), la fotografia già mi dispiaccia di meno, in ogni caso
prevale l’immagine, la sua organizzazione, i colori (meglio se in bianco e
nero, cioè le sfumature e i gradi del grigio), le dimensioni ecc. Per esempio,
se l’immagine è quella di un ragazzo[7]
che si tuffa (p. 5), non penso a nessun tuffo che abbia fatto o visto fare io,
non vado a memorie estive, non voglio sapere chi sia il tuffatore, non giudico
lo stile del tuffo, non mi curo di allusioni o simboli, e tanto meno mi
preoccupo della bellezza o della tecnica: vedo solo l’immagine di un corpo per
aria, che assume una data posizione, collocato in un luogo preciso rispetto al
pelo dell’acqua ma più ancora nel rettangolo della foto...
Ma anche quando mi soffermo su qualche foto in
particolare, anche se questa o quella può interessarmi o stimolarmi, ad
emozionarmi veramente non è mai nessuna di esse, ma ciò che tu ne fai, nel loro
insieme e nei dettagli di ciò che ne fai solo in relazione all’insieme: è
l’album. Solo allora anche ciascuna di esse, e ciò che è diventata l’immagine
che ciascuna mostra, comincia a suscitare qualcosa in me[8].
E solo allora comincio anche a leggere le poche
parole che hai tracciato ai margini (il che è piuttosto strano, per uno come me
che non appena vede una parola scritta non può fare a meno di leggerla
immediatamente) e comincio a pensare alle didascalie. Le foto in genere hanno
“bisogno” di didascalie, senza sembra che l’immagine resti indefinita
nonostante che la “realtà” riprodotta offra sempre un qualche riparo; qui
invece non ne hanno nell’ “opera”, non c’è niente accanto o sotto ciascuna di
esse, o in fondo all’album, ma sono “fuori”, come un supplemento che potrebbe
fare anche a sé, costituire un racconto “a parte”, un altro racconto magari[9].
A proposito della necessità di supplementi (cioè
che le foto abbiano bisogno di didascalie, ovvero di essere sempre animate dal di fuori, di essere a loro
volta illustrate), mi torna in mente
una cosa che scriveva Savinio negli anni ‘30, che «manca alla fotografia il
‘mistero dello sguardo’. Quello scambio di sguardo da pupilla a pupilla, quel
guardare altero e mosso che coglie di
sorpresa la realtà delle cose, nella fotografia non avviene, non può
avvenire, perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di
movimento». Eppure a volte è proprio questo che della fotografia a qualcuno
interessa (ammesso che sia vero che essa manca del “mistero dello sguardo”):
che il mondo, gli uomini, i volti, sono visti senza uno sguardo che diriga la
vista, come se a vedere fossero le cose: come se in essa fosse il mondo, senza
sguardo, a guardarci (a vederci, oltre che a darsi a vedere). Non meraviglia
allora che vediamo nelle foto brutture, imperfezioni, tutto “senza anima”,
anche il “bello”. Così sono le cose. E questo può essere più interessante, e
misterioso, di qualsiasi cosa che uno sguardo, provvisto o meno di mistero,
possa vedere.
Ma questo certo non è facile da accettare,
perché prima bisogna essersi separati dai legami che con esse intratteniamo di
solito, dalle parole e dagli usi che le fanno essere per noi, e solo per noi. Ci vuole forza per separare,
per fare il vuoto attorno, mettere spazio tra sé e le cose (e tra una cosa e
l’altra): bisogna che il dentro si carichi quanto più possibile perché tutto
venga espulso dal peso di ciò che si vuole separare (che vuole separarsi), e
questo lascia tracce indelebili, pieghe che non possono essere raddrizzate né
stirate, perché l’espulsione poi si traduce nella modificazione della pelle del
dentro: la separazione del fuori dà la forma del dentro, il piatto si fa piega,
il liscio rugoso, il bidimensionale si moltiplica per due. Oltretutto
l’espurgazione non recupera la purezza, in quanto il segno lasciato dallo
sforzo, chiamalo dolore se vuoi, è incancellabile, poiché non si aggiunge a ciò
che era, ma è ciò che c’è (chiamala la sua gioia, se vuoi).
Non penso solo ai tuoi Cuscini e alle tue Braghe,
quanto al momento in cui hai iniziato la Sonata:
il giorno della morte di tua madre. Dunque, sembrerebbe, la Sonata non è altro che un’elaborazione
del lutto, un’elaborazione immediata, per di più, e nella sola (?) maniera che
si addice (così si dice) a un artista: con la nascita di un’opera[10](un
modo per cominciare a farla finita non appena la fine è cominciata; il
dopo-la-fine subito a caldo, mentre il corpo, perdonami l’empietà, non ha
ancora cominciato a raffreddarsi). Ed elaborazione del Lutto per eccellenza, il
solo a meritare la maiuscola, il Lutto per la Madre. Un modo per allontanare da
sé un dolore che appare intollerabile, ma anche, con la riflessione e le
rielaborazioni che comporta, per “fare i conti”, per trovare una “ragione” (una
forma) a ciò che colei che è scomparsa era e portava con sé nel suo essere di
ogni istante (ogni momento suo, del figlio, ma anche del marito, della famiglia
- e della Patria, non solo dati i tempi); e tuttavia, insieme, un modo per
trattenerlo (il dolore) con sé (e per trattenerla, la madre, in sé) con la
maggiore intensità, cioè per impedire che si allontani, per cancellare la fine,
o meglio: per non farla finire, perché il venir meno non venga mai meno e la
fine non sia definitiva.
Per questo non ci si può limitare a Lei, ma bisogna
che il trattenere, per essere più concentrato (più prossimo), si allarghi, al
seguito di tutte le tangenti che dal bordo perfetto del vuoto possono partire,
tangenti che, come è noto, sono infinite, anche se poi, di fatto, si concretano
in variazioni, anch’esse tendenzialmente infinite, delle poche[11]
che, nello spazio nero a cui il tempo sembra essersi ridotto (tendenzialmente
cieco, eppure pieno di incomprensibili bagliori), hanno tracciato solchi
(segni) più marcati...
E tutto questo mi turba, mi com-muove, perché
allora non posso fare a meno di pensare a quando morirà mia madre, e non tanto
nel modo in cui lo penso di solito (sempre con dolore, più o meno intenso a
seconda delle occasioni, ma insieme con sollievo, dato che mi limito a pensarlo
sapendo che è solo un pensiero: l’esorcizzazione del futuro in un presente che
ancora mi consola, e come a una eventualità a cui in fondo non riesco a
credere, una certezza che mi appare del tutto irreale), quanto nel modo
lampante, indiscutibile, dell’evidenza fisica, per averla qui, davanti a me, in
tutta la concretezza reale che forse allora non avrò, perché allora non avrò il
tempo (né probabilmente la forza) di pensarci, in questo tempo doppio,
nell’oscillazione che ora mi è concessa.
E come mai questo mi è possibile ora, mentre di
solito non avviene con la miriade di altre foto che potrebbero suscitarmi la
medesima reazione? Il fatto è che di solito, quando guardo una foto, a meno che
non la conosca in un modo o nell’altro (anche per sentito dire, così da pensare:
“Ah, è lei!”), la persona fotografata, per individuale che sia, e per
individuati che siano i suoi tratti fisici o psicologici o storici,
immediatamente si universalizza, svuotandosi della propria individualità, e
diventa il rappresentante di una categoria, di un tipo, di una professione o di
una condizione ecc.: è il contadino (siciliano, rumeno o bavarese), il
panettiere, il travestito, l’internato, l’antropofago, il ghigliottinato...
L’immagine di ciò che è singolo nella sua
singolarità, uomo o cosa, quindi di ciò che è e per essere non ha bisogno di
stare per altro, diventa immediatamente proprio la sua negazione: ciò che sta
per altro, o che lo “rappresenta”, non essendo più rilevante chi o cosa è/era
lui: la vittima, per esempio. Se questo non avviene quando guardo la Sonata invece, è perché essa, pur
raccontando una storia non si può più personale e con strumenti non si può più
individuati (le fotografie, appunto, che attestano l’essere stato proprio di
quello e di nient’altro in quel preciso luogo e momento), lo fa però in modo
che si spersonalizzi (tutti i marchi di identità vengono al contempo indicati -
date, luoghi ecc. - e negati - asterischi, allusioni incomprendibili a chi non
sia F. d. L, volti tagliati o tanto lontani, ovvero, molto spesso, in ombra, da
essere irriconoscibili, o riconoscibili, nei loro lineaementi, solo nel caso in
cui sono sconosciuti a F. d. L. stesso: foto di altri e di altre storie che
sembrano non avere niente in comune con questa, se non per qualche tangente);
ma proprio questo, mentre allude a una storia che potrebbere essere di molti
(la storia di un Italiano del ‘900, se non addirittura dell’Italia), la fa
ripiombare in una individualità non più generalizzabile (e generica), bensì
perfettamente concreta ma non più chiusa in se stessa: una storia che può
essere anche la mia, meno perché posso riconoscermi in essa tuttavia (non mi ci
riconosco affatto), quanto perché fa appello a me come individuo da parte di un
altro individuo che posso riconoscere come tale, e solo come tale: proprio lui, anche se prima, e in un modo in cui
prima, non l’ho mai conosciuto: in questo caso F. d. L., che allora non posso
fare a meno di amare.
E come invidio, io, ora, qui, il bambino che
dalla foto in alto a destra di p. 14 guarda verso di me con l’espressione della
più perfetta felicità...
E poi, Federico, come sono belle le gambe di tua madre...
Fara, dicembre 1995
Ciao, Luigi.
[1] Nella ciambella la
circonferenza massima, quella esterna, si chiama equatore; quella minima,
l’interna, che delimita il buco, sia chiama invece gola. Atto della gola
definisce Dante il respiro. Gola si chiama anche la cavità esistente fra due
creste dell’onda. Gola è cavità, voragine, ma anche braccio di fiume, stretto
di mare, istmo. In architettura è la modanatura il cui profilo è costituito da
due archi di cerchio rivolti in senso opposto e raccordati fra loro, e, per
estensione, elemento architettonico o modanatura che presenta una superficie
concava o convessa (scanalatura). E ancora gola è la parte più stretta della
cannoniera, che termina nella bocca; e poi la parte interna del tacco di una
scarpa da donna, la parte del gambo di una nota, che è più vicino alla testa.
Fare gola... prendere per la gola... morire in gola (venir meno della voce)...
mormorare in gola (essere flebili, indistinti)... appendere per la gola...
avere il capestro, il coltello alla gola... avere l’acqua alla gola... avere il
pianto, un rospo, il riso, un groppo, il cuore in gola... schiarirsi la gola...
restare a gola asciutta... essere immerso fino alla gola... tagliare la gola...
tornare in gola (con forza irresistibile)... La ciambella di salvataggio ha
spesso una corga che le gira attorno, vuoi attorno all’equatore, fissata da
chiodi con la testa ad anello, vuoi passsando dalla gola all’equatore alla
gola... Quanto all’equatore, oltre ad essere la corda invisibile che
impacchetta il nostro bel pianeta, lo si potrebbe considerare anche come la
gola di una ciambella (l’universo) il cui buco sarebbe proprio la terra...
[2] L’unico testo di
Beckett che non mi piace è L’ultimo
nastro di Krapp, forse condizionato da una vecchia messinscena alquanto
patetica — leggi sconsolata — di Glauco Mauri: gli attori rovinano tutto; dopo
non l’ho riletto però, e quindi potrei sbagliarmi: mi sembra così strano, a
pensarci, un Beckett che cerca lo strazio; magari è solo sarcasmo per i
rimpianti, ma allora ne vale la pena? Sarebbe come valutare con stelle o
forchette una mensa aziendale.
[3] Ora in parte ho
cambiato idea, ma è una debolezza, il giudizio di fondo resta quello. Non l’ho
mai amata, fino a poco tempo fa, e in buona parte per le stesse ragioni di cui
parli tu nella tua Introduzione:
adesso un po’ mi piace, ma continuo a non stravedere.
[4] Del resto l’album è
composto di pagine, non di buste, anche se ti confesso che un vuoto
supplementare, tra le pagine, uno spazio in cui infilare qualcosa di mio
(biglietti del metrò, qualcuno dei foglietti su cui scrivo, altre immagini...),
non mi sarebbe dispiaciuto; ma forse sarebbe stato pleonastico, o addirittura
ottimistico, di quell’ottimismo della crescita continua di cui né tu né io
sappiamo che farcene. Noi, mi pare, siamo ancora della vecchia scuola per la
quale meno è più; per noi è l’invisibile a dare forma al visibile e quindi
dobbiamo togliere, scavare, spezzare, aprire varchi per farlo agire, o quanto
meno per indicarlo o afferrarne qualche lembo, perché anche il visibile, che
non disprezziamo affatto, anzi, che ci preme più di ogni altra cosa, venga in
essere.
[5] Per esempio che quelle
aperture richiamano i buchi delle pagine, ma, diversamente da questi, rinviano
a un dentro nel quale invitano a entrare, per vedere cosa c’è, tracce di una
vita passata o magari nascosta in qualche angolo, oppure resti di altre vite o
di altri passaggi, animali o atmosferici; ma poi, guardando meglio vedo che una
di esse una porta ce l’ha, ma socchiusa (come quella a p. 10, o come la
finestra sul retro di di p. 28). Non ci entrerò (dico che non lo farò).
[6] La foto fissa l’attimo,
talvolta l’attimo di un’esperienza che non c’è stata, la percezione di un
frammento di evento che i sensi non hanno colto, e l’attimo è già racconto: non
dico “è insito in”, “rimanda a “ o “contiene” un racconto, ma “è già” racconto.
[7] La capriola della
quinta pagina è sulla sabbia, la testa è tagliata dal buco nel quale il corpo
sta per cadere (estate, 1921); nel buco saltano anche, oltre la staccionata, il
cavallo e il cavaliere di p. 12 (sotto, stessa pagina, dal buco è uscito un
bambino, F., giorno della nascita 9-3-38 o poco dopo, foto sviluppata in
negativo); due pagine prima (retro decima) dal buco emerge solo una racchetta;
il tuffo in mare, nel buco, ma con foto capovolta(?) e disposta di lato, come
se il tuffatore (la tuffatrice) dal buco stesse uscendo, scampata per un pelo
(c’è anche quasi tutta la testa), è sul retro di p. 22; sul retro di p. 28
invece, il cane non ha niente a che fare col buco (ne è scampato? proprio non
c’entra? non lo riguarda? non può esserne risucchiato?...) e guarda dall’altra
parte, fuori da una finestra, la cui anta però gli taglia il muso (ma allora?),
solo che la persiana è chiusa.
[8] Per esempio, di tutti i
tagli, quello più forte è ovviamente il taglio del volto, la decollazione, che
oltretutto mi ricorda il motivo di uno dei miei racconti che a te piacciono di
più... Ma lasciamo perdere, il discorso sarebbe troppo lungo (e non è detto che
non l’abbia già fatto).
[9] Per non parlare
dell’introduzione che vi hai aggiunto, anch’essa piuttosto originale: quando
mai si è vista non una nota alle immagini o simili, ma proprio un’introduzione
a delle didascalie? Il che significa che pure le didascalie hanno uno statuto
diverso dal solito...
[10] Anche da questo punto
di vista Trame di famiglia mi sembra
complementare alla Sonata. Gli
elementi comuni sono molti, ma ciò che mi importa segnalare qui è che T.d.F. è composto di foto che tu hai
scattato a Isetta incinta (nascita vs. morte, in questo caso) ma che sono state
sviluppate solo dopo un lungo intervallo (14 anni); per non parlare
dell’incrocio di certi temi, toccati casualmente (?) anche dai due fratelli
scriventi, con quelli della S.
[11] Si potrebbe fare una
lettura per temi, e poi intrecciarli: immagini, lingua, architettura, guerra,
occhio meccanico, giochi, luoghi (per citare solo i principali).
Mozart_Federico de Leonardis_Luigi Grazioli, mettono in opera per Sonata-in-mi-minore, 1982, rispettivamente, radicalmente, la decostruzione della sonorità, dell'ana-architettura, della scrittura, per commisurarla, indicibilmente, all'incommensurabile figura di una madre.
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