C’era
questo signore, un bel po’ meno giovane di me (che è tutto dire), che, mentre
io il primo giorno soleggiato di questa primavera tardivissima, dopo essere
andato a verificare se al mio cespuglio di rose canine erano spuntate le
foglioline (sì), mi ero fermato sul ciglio dell’alzaia a guardare giù verso la boscaglia
e l’antico corso del fiume, folgorato da quello che sul momento mi era parso il
primo albero in fiore dell’anno (un pruno selvatico, credo), non ha fatto in
tempo a sorpassarmi
a tutta velocità, elastico, elegante, che si è bloccato di colpo, è tornato sui
suoi passi verso di me che mi sono riavuto all’istante dalla mia
contemplazione, si è piegato verso l’erba ai bordi dello sterrato, ha raccolto con
la sinistra una bottiglia di plastica ed è subito ripartito con un movimento
fluido prima che io potessi leggerne almeno i lineamenti. Ma dopo appena cinque
passi si è arrestato di nuovo, ha raccattato dall’erba qualcos’altro che,
mentre riprendeva la corsa, ha riposto in un sacchetto di plastica che, solo
ora lo notavo, stringeva nella destra e ha recuperato subito velocità, a busto
eretto, la testa salda sul collo, il movimento delle braccia per nulla impedito
dagli oggetti che teneva tra le mani. Ho estratto da tasca la macchinetta come
un pistolero, ho chiuso lo zoom quasi al massimo e, sperando che andasse tutto
bene, senza nemmeno inquadrare, sono riuscito a scattargli una foto sfocata
appena prima che sparisse dietro una curva. Se già mi sentivo bene (per il
sole, il cespuglio, il pruno in fiore: mica poco!), mi sono sentito ancora
meglio al vederlo, a seguire la naturalezza dei gesti, la noncuranza di una
cura fatta consuetudine; ma al contempo anche un po’ peggio. Per me, che non
faccio che guardare. Non è vero, però così pensavo, convinto, allora. Per tutto
il primo, e il secondo, e il terzo passo. Poi ho ripreso a respirare l’aria
profumata.
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