L'efficientismo
ha conquistato anche i custodi dei musei, quei tradizionali cultori della
fannullaggine. Non so da dove viene questo zelo: forse gli hanno spiegato di
quanta bellezza (e ricchezza: che è un argomento che funziona sempre) hanno la
responsabilità; forse hanno solo paura di perdere il posto, che non sarà il
massimo, ma di questi tempi va tenuto stretto (dicono). Anche l'asservimento procede
a grandi passi. All'indietro. Senza nemmeno curarsi di assumere nuove forme,
tanto per salvare la faccia. Quella la salvino gli asserviti, se proprio ci
tengono. Forse è solo l'effetto di una recente direttiva ministeriale: l'unico
genere di iniziative culturali prodotte dal governo da poco, felicemente,
deceduto. O forse è solo che i custodi sono brava gente un po' ottusa, che è
facile impressionare.
Mi
è venuto di pensarlo l’altro giorno, a Genova. Può essere che i custodi di
Genova siano un po’ particolari (l’aria di mare combinata con quella montana fa
brutti scherzi, come dice un mio amico psichiatra: un genovese), senza contare
che parecchi, presumo grazie a corsie preferenziali una volta tanto giuste
nelle assunzioni, avevano dei deficit evidenti, non solo fisici (anche se con
una grande qualità che li metteva tra parentesi, quando non li rendeva
invisibili del tutto: la gentilezza); fatto sta che se saltavo qualche sala o
trascuravo un’opera famosa, subito arrivava qualcuno a farmelo notare e mi suggeriva,
con fermezza rattenuta a fatica (delicatamente cioè), di prestare maggiore
attenzione o di rifare il percorso (perché tornare indietro è sempre possibile!),
guardandomi stranito, per non dire scandalizzato, se affermavo di aver già
visitato le sale consigliate o avevo l’ardire di affermare che questo o quello
non mi interessava. “Così in fretta? Ma davvero non vuole andare? C’è il
violino famoso... la camera da letto...
il bellissimo soffitto affrescato... la visione panoramica!”
Se
solo ribadivo, ringraziando, che no, che preferivo non vedere tutto, la loro
sorpresa spontanea si tramutava in stupore, nell’accenno di una condanna morale
che tutto in loro manifestava, anche quando non trovava la via della parola. Di
fronte a tanta costernazione, ogni volta che il custode mi sembrava
particolarmente disarmato ho ceduto e sono tornato sui miei passi. Un paio di
signore mi hanno anche tenuto compagnia per tutto il percorso penitenziale,
mostrandomi di persona i capolavori di loro spettanza, di cui pronunciavano
autori e, qualche volta, titoli modulando tonalità inedite, di conio locale
immagino, una specie di maiuscoletto vocale, e irrigidendosi disorientate
quando, in risposta, arrischiavo un commento su qualche dettaglio o notizia di
cui non erano a conoscenza (praticamente tutto, a parte la pura indicazione).
Non si scostavano di un millimetro però, vicine, pronte a placcarmi, più che
abbracciarmi: non credo infatti di poter attribuire la loro contiguità a un
colpo di fulmine per la mia trascurabile persona: il mio fascino è troppo
sottile per essere colto d’acchito (nemmeno a lungo termine, se è per questo).
Però poi, raggiunta la collega più vicina, si sbrigliavano in lunghi commenti
appena sussurrati, ma sottolineati da frequenti occhiate e da una gestualità che
non avevo nessuna fretta di decifrare. Presumo di avvertimento; o di
compatimento. O entrambi. “E’ uno bizzarro, ma innocuo”: roba così...
Forse
però la reazione zelante dei custodi era solo un derivato del mio consueto comportamento
irregolare, di visitatore imprevedibile, che attraversa sale a grandi passi, si
ferma un bel po’ su un’opera o due e poi magari torna indietro, e si siede, o
cerca di fare foto anche quando non si potrebbe: comunque sia, dopo un po’ il
loro atteggiamento cambia sempre. In genere i più saggi fanno finta di niente e
continuano a leggere il giornale o a telefonare: mi ignorano, limitandosi
semmai a sbirciare ogni tanto, infastiditi per la distrazione che arreco; la
maggior parte mi segue con lo sguardo, sospettosa del mio ondivagare sempre al
limite dell’infrazione, dell’oltrepassamento di soglie proibite (le uniche, nel
caso, che mi sarei concesso in tutta la
vita); e solo pochissimi si prendono la briga di seguirmi passo passo. A Genova
invece, l’altro giorno, quasi tutti: generale il controllo della correttezza
del percorso e della sua scansione e linearità; immediato l'allarme non solo se
giravo una sedia verso la parete accanto a quella dell’opera prescritta, ma anche
se non rispettavo le tappe santificate e soggiornavo troppo in altre meno
canoniche, degne al massimo di un’occhiata fugace, o addirittura deserte da
tutti.
Accorrevano
in mio soccorso, ribadendo suggerimenti e proponendo correzioni e integrazioni,
informandosi su eventuali trascuratezze, e cedendo a malincuore solo se
insistevo nel mio errore erratico e eretico (pardon...), allontanandosi poi di
scatto per sottrarsi all'orrore provocato dai miei maldestri tentativi di
fotografare proprio quelle opere insignificanti o qualche loro
trascurabilissimo dettaglio, veloci come chi si ricorda solo in quel preciso
istante, all’improvviso, di un impegno improrogabile o è stato appena chiamato,
anzi: richiamato, da un superiore. Un bastardo, manco a dirlo.
Se
invece a richiamarmi erano loro, i buoni custodi, li stavo sempre ad ascoltare,
e quando, obbedendo alle insistenze dei più ansiosi, ogni tanto ne seguivo i
consigli, o le ingiunzioni, il loro sollievo era tale da ripagarmi ampiamente
della imprevista seccatura.
(Obbedire
ai più deboli. Assoggettarsi ai soggetti. Ossequiare i fantasmi sbriciolati del
potere nelle sue infime rifrazioni nell'immaginario e negli atti degli infimi,
che vi si assoggettano ignari e ignari lo ossequiano. Prendersi cura dei
custodi accettando, a volte, le loro cure: la loro spontanea premura.)
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