Ogni
tanto anche a me vien da ricordare qualcosa.
Ecco: mi
ricordo quando ero piccolo, tra gli 8 e i 10 anni, che certi pomeriggi
d’inverno scendevo in officina (allora un lungo stanzone di 15 metri per 6
circa attaccato alla casa), portavo una sedia accanto alla stufa che bastava,
assieme al calore prodotto dai macchinari, a riscaldare tutto il locale e mi
mettevo lì a leggere fino all’ora di cena, più che altro fumetti (ma anche
Verne, Salgari, Gian Burrasca).
Il rumore
dei macchinari non mi disturbava e, anzi, presto diventava un ronzio che mi
cullava e ogni tanto, sposandosi con il calore della stufa, riempiva l’aria di
una vibrazione che mi trasmetteva un fremito, come una scossa elettrica a
bassissimo voltaggio che mi attraversava tutto.
Per
quanto non fossi un bambino isolato e introverso, tutto il contrario piuttosto,
erano, quelle, ore di perfetta felicità. Altre scosse simili erano di là da
venire, più intense ma non so se hanno lasciato, alla lunga, un segno più profondo
nella mia vita.
Già
allora, a leggere, ero felice. Senza pensarci. Solo facendolo.
(Il
ricordo è stato stimolato dalla parola “ronzio” letta, camminando, nel Saggio sul juke-box di Peter Handke. Poteva
essere qualsiasi altro: forse dipendeva solo dal camminare.)
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