24/09/15

Sui Bartleby. Due brevi appunti



1

 

La cosa interessante dei Bartleby è che rinunciano all’opera non per la vita, secondo l’errore più diffuso e banale in cui incorrono i seguaci dell’esempio (stavo per dire della religione) di Rimbaud, o comunque per un di più, relativissimo peraltro, di vita, quanto piuttosto per un di meno: non per andarle incontro e gettarsi nelle sue braccia, ma per evitarla meglio, per allontanarsi, o per abbandonarsi alla sua corrente senza opporre resistenza, non avendo nemmeno imparato a nuotare, ovvero, se in qualche età remota lo avevano appreso, dimenticando di saperlo, adoprandosi a disimpararlo non facendo niente.
La rinuncia all’opera appare insomma come una rinuncia a sé, come se uno potesse cercare di raggiungersi (di cogliersi, di aversi) solo con l’opera (assieme, e mediante, e nell’opera), quando invece, si sa, è nell’opera che uno si perde, si cancella. La rinuncia all’opera è l’effetto di un’errata idea di essa: non è quindi una rinuncia vera e propria, quanto un cedimento, che è insieme un prostrarsi, davanti alla sua immagine, una forma fatale e fatalista di idolatria. (Che peraltro spesso è anche mia.)
 
Ma allora vien da chiedersi: quale sarebbe l’opera di cui non ci sarebbe falsa immagine? Ogni immagine dell’opera non è già falsa? E non lo è nella misura in cui, [pur] essendo immagine, è già essa stessa opera?

(Et donc?)

 


2 

“La potenza – questa è la testi geniale, anche se in apparenza ovvia, di Aristotele – è, cioè definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio (...) la potenza è una sospensione dell’atto” (Agamben, “Cos’è l’atto di creazione”, in Il fuoco e il racconto, p. 43). 
Anche per questo sono interessanti Bartleby e la sua compagnia. Più di coloro, perlomeno, che oppongono a qualsiasi cosa, o in generale, un rifiuto aprioristico e assoluto – per quanto qui, forse, il mistero sia ancora più grande, e vuoto, come il mistero non di tutto (di ogni cosa), ma del tutto... ciò che non possiamo scandagliare perché ci siamo sempre dentro, ne siamo parte... Se non che, a volte, è proprio questa impossibilità ad affascinarci di più, a tentarci...

E tuttavia: cosa distingue uno che dice no dopo aver fatto qualcosa da uno che lo dice senza aver fatto (ancora) niente? Nel momento della negazione si chiudono entrambi, più che stare sospesi, e solo noi attribuiamo al primo la possibilità di fare (ancora) qualcosa negandola al secondo che, magari, potrebbe fare altrettanto, se non di più e meglio. Nel momento non di dire no, ma subito dopo, appena il no pronunciato, sono uguali.

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