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La cosa interessante dei
Bartleby è che rinunciano all’opera non per la vita, secondo l’errore più
diffuso e banale in cui incorrono i seguaci dell’esempio (stavo per dire della
religione) di Rimbaud, o comunque per un di più, relativissimo peraltro, di
vita, quanto piuttosto per un di meno: non per andarle incontro e gettarsi
nelle sue braccia, ma per evitarla meglio, per allontanarsi, o per abbandonarsi
alla sua corrente senza opporre resistenza, non avendo nemmeno imparato a
nuotare, ovvero, se in qualche età remota lo avevano appreso, dimenticando di saperlo,
adoprandosi a disimpararlo non facendo niente.
La rinuncia all’opera
appare insomma come una rinuncia a sé, come se uno potesse cercare di
raggiungersi (di cogliersi, di aversi) solo con l’opera (assieme, e mediante, e
nell’opera), quando invece, si sa, è nell’opera che uno si perde, si cancella.
La rinuncia all’opera è l’effetto di un’errata idea di essa: non è quindi una
rinuncia vera e propria, quanto un cedimento, che è insieme un prostrarsi,
davanti alla sua immagine, una forma fatale e fatalista di idolatria. (Che
peraltro spesso è anche mia.)
Ma allora vien da
chiedersi: quale sarebbe l’opera di cui non ci sarebbe falsa immagine? Ogni
immagine dell’opera non è già falsa? E non lo è nella misura in cui, [pur]
essendo immagine, è già essa stessa opera?
(Et donc?)
Anche per questo sono interessanti Bartleby e la sua compagnia. Più di coloro, perlomeno, che oppongono a qualsiasi cosa, o in generale, un rifiuto aprioristico e assoluto – per quanto qui, forse, il mistero sia ancora più grande, e vuoto, come il mistero non di tutto (di ogni cosa), ma del tutto... ciò che non possiamo scandagliare perché ci siamo sempre dentro, ne siamo parte... Se non che, a volte, è proprio questa impossibilità ad affascinarci di più, a tentarci...
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