
Abbiamo un bel dire che la letteratura
sono i testi e il resto non conta, ma se uno ama quelli, un po' dell'amore si
riverbera attorno, invade i paraggi e vi si installa, comodo comodo. In
particolare va a lambire la figura dell'autore, e non solo quando è stato in
qualche modo un protagonista dei suoi tempi, ma anche solo così, per pura
passione, o feticismo. Il paradosso è quando il suo oggetto è qualcuno che
invece per e nella scrittura si è cancellato, o ha tentato di cancellarsi.
Fosse pure come stratagemma per sottrarsi alla vita; a quella che in genere si
chiama vita. A quella che gli altri chiamano vita, scandalizzandosi se qualcuno
non la pensa come loro. Come Kafka, per esempio. E così le vite immaginarie di
Kafka si sprecano. Tra l'altro è quello che ha sempre attratto anche me, che
pure di biografie sono poco curioso. Ma se ami ciò che uno ha scritto e la
scrittura è stata la sua vita, anche nel senso che la vita, le scelte e le
azioni di cui è fatta, è stata subordinata alla scrittura, o addirittura vi si
è dissolta, allora è normale che uno si interessi a quella vita, non in quanto
vita di qualcuno che ha scritto, che al limite ci potrebbe anche stare (perché
no? è una curiosità legittima), ma in quanto vita nella scrittura, dove
è confluito anche ciò che l'ha preceduta, per chi ha scritto, e seguita, per
chi ha letto o legge, incluso chi ha scritto. Il bello è che tutti coloro che
lo pensano sopravvissuto, e sopravvissuto anche ai lager, magari perché
emigrato, come qui Philip Roth peraltro in modo molto spassoso, ne dipingono
non solo un'esistenza grigia (date le premesse: quelle di chi scrive... di chi
immagina la vita di Kafka basandone la colorazione sull’idea di colorazione che
della vita ha lui: scarsamente fantasiosa) ma anche senza opere: sia quelle che
avrebbe potuto scrivere dopo l'emigrazione o prima del lager, sia quelle
scritte prima, che l'autore avrebbe magari bruciato davvero, mentre invece la
sua provvida morte (siamo sempre alla "provvida sventura") ha consegnato
nelle mani del pio Brod e da lì nelle nostre, ancora più pie (infatti noi non
ci esimiamo dal dare lezioni di morale a Brod) e al contempo disinvolte.
Benjamin avrebbe avuto (nei continuatori
immaginari della sua vita) ben altro futuro! (Ma è talmente tragica – leggi:
interessante, paradossale, simbolica, ecc. – la sua morte, che di solito non si
fa che ruotarle attorno, subordinarle tutto, e alla fine non ci si muove da
lì...)
Meno male che Kafka è morto nel ‘924.
Così non ha fatto in tempo a distruggere i suoi manoscritti (anche se non è
certo che l’avrebbe mai fatto: continuava a minacciarlo, ma quanto a mettere in
atto le intenzioni... quasi come il matrimonio; qualcosa però è sicuro che l’ha
bruciato, come in parte la sua vita, appunto) e non è finito a Auschwitz, come
i suoi famigliari; e, soprattutto, così ha lasciato libero corso a scrittori e
lettori di immaginare la sua vita dopo quella data proiettandovi un po’ della
propria, paure e illusioni soprattutto.