Raccontano che Tiziano, ai
funzionari veneziani in partenza per Bergamo che gli chiedevano un ritratto, rispondesse
che avrebbero potuto trovare laggiù chi avrebbe fatto al caso loro nella
persona di Giovan Battista Moroni, “che gli faceva naturali”. Un apprezzamento
che sa di duplice sprezzatura, verso di loro che non meritavano il suo
pennello, impegnato in soggetti di ben altra levatura, e verso il pittore
bergamasco, relegato a bravo artista di ritratti, genere di levatura minore,
per personaggi che la condividevano. Al suo studio bussavano imperatori, papi e
regnanti vari e varie, che lo pregavano di averne uno di suo pugno, e che da
soli bastavano a nobilitare anche il genere, a sua volta già innalzato dalla
genialità del pittore.
Moroni invece non si
vergognava di dipingere media e piccola nobiltà locale, notai, poeti di seconda
e terza categoria, prevosti, badesse, artigiani cittadini e valligiani. Della
val Seriana! Montanari. Che peraltro lo apprezzavano moltissimo, e che, al suo
ritorno definitivo a Albino dove era nato nel 1521, dopo gli anni passati a
Brescia alla scuola del Moretto e qualche successiva puntata a Trento in
occasione dei lavori del Concilio che gli avevano procurato le prime importanti
commesse, non si stancavano di chiedergli, oltre ai ritratti, pale d’altare e
altre opere religiose che lui eseguiva con la massima diligenza, anche se, a
detta degli esperti, con scarsa originalità e ancor minore immaginazione.
Chi volesse farsi un’idea di
quanto approssimative fossero queste valutazioni, insieme alla conferma del
livello eccelso dei ritratti, ha ora l’opportunità di farlo visitando la grande
mostra che al pittore albinese hanno dedicato Le Gallerie d’Italia di Milano, Moroni,
il ritratto del suo tempo, con ricco catalogo per l’eccellente cura di
Simone Facchinetti e Arturo Galansino (edizioni Gallerie d’Italia | Skira). Mostra
bellissima e completa, sia per la documentazione del suo intero percorso, sia
per il numero e la qualità delle opere degli autori a cui si è ispirato, che ha
copiato e con cui si è confrontato, a cominciare dal suo maestro Moretto, per
passare da Lorenzo Lotto, Savoldo, Antonis Mor, Tiziano (tra cui il poco noto sorprendente
“Ritratto del cardinale Filippo Archinto”), Tintoretto e Veronese, con opere
sempre di altissimo pregio, e talvolta veri e propri capolavori che
meriterebbero una visita anche da soli.
Moroni ha dipinto per quasi
quarant’anni, ci sono rimaste più di duecento opere, aveva contatti con nobili
lombardi e anche veneziani, il valore delle sue opere era riconosciuto, eppure
è rimasto “totalmente sconosciuto alla letteratura artistica cinquecentesca” (Paolo
Plebani).
Un’impresa non da poco. Non è
nemmeno che sia caduto in disgrazia o sia stato messo in disparte e dimenticato
(come Lotto): lui in grazia, a un certo livello perlomeno, praticamente non c’è
nemmeno mai stato. La sua ribalta è stata rasoterra. Per secoli. Ma lì è sempre
stata ben radicata, presso un numero ristretto ma tenace di amatori, fino alla
riscoperta in grande stile a metà del secolo scorso, quando alcuni dei più noti
hanno cominciato a dire che alcuni dei suoi ritratti sono tra i più belli di
tutti i tempi, come “Il sarto” della National Gallery e il cosiddetto “Uomo in
nero” del Poldi Pezzoli, entrambi presenti in mostra.
Non gli ha certo giovato, a
parte la parentesi di Trento nei primi anni 1550 dove ha potuto conoscere e
confrontarsi con la ritrattistica imperiale ufficiale per esempio di Tiziano e
di Mor, l’aver circoscritto tutta la sua carriera all’area bergamasca, dopo il
ritorno al paese d’origine nel 1555, dove ha ricoperto anche cariche importanti
nella comunità locale e da cui non risulta essersi mai spostato per tutta la
vita, contento di starci, “sommo e insieme sommesso, o sommo perché sommesso,
albinese”, come scrisse Giovanni Testori.
Se questo infatti ha
condizionato il raggio e la qualità della sua committenza, non ha però minimamente
influito su quella della sua pittura, che ha ben presto trovato proprio nella
ritrattistica il suo ambito privilegiato, con un importante incremento della
pittura religiosa soprattutto nell’ultimo decennio.
Come ha scritto Federico Zeri,
i “personaggi del Moroni sono tutti attori comprimari di una storia che
coinvolge l’intero tessuto sociale, […] è l’intima preoccupazione di prelati,
responsabili di un grado gerarchico sentito come missione, ignara di cedimenti
o compromessi”, che lui stesso condivide.
Lo si vede dal particolare
tenore dei ritratti, che conservano la stessa serietà e partecipazione di fondo,
pudica e non sentimentale, e tutt’al più con qualche accenno di benevola
ironia, che caratterizza tutto il suo percorso artistico, coerente pur nei
cambiamenti che i tempi e le conoscenze hanno occasionato e che si notano non
solo nella moda degli abiti a cui i committenti prestavano grande attenzione,
ma anche nelle differenze stilistiche e di impaginazione, nei fondi e nella
colorazione prima accesa anche se equilibrata, poi incentrata su sottilissime
preziose e magistrali sfumature tonali di grigio e nero, poi di nuovo aperta a una
gamma cromatica varia e brillante.
Quello che non cambia è il
realismo del pittore, l’attenzione meticolosa, lenticolare a ogni dettaglio e
sfumatura, alla varietà delle stoffe e delle epidermidi, alla singolarità delle
acconciature e degli sguardi.
Le
donne e gli uomini ritratti presentano tutti figure e volti composti, mai
impassibili o algidi come in certi ritratti ufficiali spagnoli o manieristi, o
viceversa marcatamente espressivi, e anzi le loro posture sono persino
disinvolte in certi casi, rilassate, “naturali”. È gente seria, che al massimo
si concede una leggera piega ironica, un velo di tristezza o un accenno di
riflessività e di meditazione; ma più spesso ti guarda, e si dà a vedere,
placidamente, o non guarda affatto, concentrata sui fatti suoi, ma non in modo
altezzoso o scontroso: gente che ha da pensare e da fare, e che di conseguenza
ci pensa e lo fa. A volte lo sguardo è severo, mai cupo però, o giudicante,
come non giudica mai i suoi soggetti il pittore, che se evita di calcare il
pedale dell’empatia, li guarda in modo oggettivo ma non freddo, e in genere
come qualcuno per cui la loro presenza, e persino la loro compagnia, è una
consuetudine, e non problematica, scontata quasi, la compartecipazione a un
medesimo contesto di vita e di valori e di fede.
Indossano abiti lussuosi, ma
relativamente alla posizione sociale e alla carica; alcuni, specie quelli
femminili, incluse le acconciature e i gioielli, sono a volte ostentati a
dispetto di ogni disposizione suntuaria, mentre gli uomini sembrano più severi,
senza esserlo veramente, perché le stoffe sono quasi sempre di gran lusso,
ricercatissime per qualità e rarità, tutte meravigliosamente rese, che inducono
l’irresistibile desiderio di toccarle, di palparle e accarezzarle (più loro
delle epidermidi). Ma restano comunque abiti a volte un po’ elaborati da
indossare, tanto da indurre a immaginare la vestizione come un breve
cerimoniale celebrato con l’ausilio di un servo o di una cameriera da camera,
ma abbastanza comode da portare, calde in quelle loro case dagli ampi locali e
dagli alti soffitti, difficili da riscaldare, con i venti gelidi che percorrono
le valli bergamasche da ottobre a maggio. Anche certi ingombranti pantaloni rigonfi e
elaborati, aperti su braghette in genere discrete, che l’uniformità del colore
in parte smorza, tranne alcuni casi di esibizionismo un po’ ridicolo (ma sono
perlopiù nobili cittadini, podestà, funzionari veneziani, paciosi ma un po’
vanesi).
A partire dagli anni ’60
comincia ad affermarsi il nero integrale, sul modello della monarchia
asburgica, colore sobrio, ascetico, che allude a umiltà e penitenza, a onestà e
lealtà, ma anche a potenza e autorità, “fusione perfetta tra fede e austerità,
da un lato, e norme cortigiane dall’altro” (Simone Facchinetti)
Anche l’ambientazione si
spoglia sempre di più, i locali e le pareti si fanno disadorni, quando non
spariscono del tutto, anche in relazione al taglio del ritratto, ovviamente:
ravvicinato, di tre quarti, “al naturale” a figura intera. L’aspetto
celebrativo, se mai c’è stato (e comunque mai disgiunto da un inflessibile
rigore realistico, pur senza indulgere al dettaglio sgradevole, sempre tenuto
al livello di annotazione oggettiva, cioè di attenzione e di rispetto per la
realtà: e quindi di cura), sparisce del tutto: restano le teste, i busti, i
corpi di ogni persona rappresentata nella sua singolarità, con i suoi caratteri
individuali e mai tipici o simbolici, la sua personalità senza orpelli, il suo
sguardo, ciascuna bastevole a se stessa, inconfondibile, e perciò
indimenticabile.
Spesso la persona ritratta sembra
colta mentre attende a qualche normale attività (leggere, tagliare una stoffa,
scrivere, pregare, redigere o studiare atti notarili…), ma nessuna ti guarda
infastidita per l’interruzione, e sempre ti accoglie tranquilla, con una
pazienza connaturata, al massimo con un po’ di curiosità, per vedere chi sei,
cosa vuoi, cosa può fare per te, cortese, mai sopra le righe né con familiarità
ostentata, piuttosto con pacato distacco, distesa e misurata, quasi che fosse lei
ad attestare la nostra esistenza e non noi a contemplare la sua.
È tutta gente a cui non viene
difficile vivere, che sta confortevolmente in se stessa, o così sembra, che sa
chi è e cosa fa e deve fare e non si spinge molto oltre, e che accetta ciò che le
tocca e lo affronta serenamente; e anche se sono incorsi in malattie e
sventure, e c’è chi è solo con due bambini piccoli che hanno fatto pensare che
fosse un vedovo (cosa non certa, nonostante il gesto protettivo del padre e la
tristezza negli occhi della bimba e lo sguardo un po’ perso del bimbo: entrambi
bellissimi, che possono stare alla pari della meravigliosa “Bambina di casa
Redetti” della Carrara di Bergamo, purtroppo assente a Milano), o chi porta i
segni della vecchiaia o di qualche imperfezione o malattia, non lo danno a
vedere come un triste trofeo, non lasciano trasparire, se non in forme pudiche,
lievi, le devastazioni e le ansie, così come non si fregiano esteriormente
delle cariche e dei ruoli o delle professioni, o solo di quel tanto di valore
sovrapersonale che esse comportano, per non sminuirle. Gli basta il decoro, la
dignità a cui ciascuno ha diritto per il semplice fatto di stare al mondo. Il
resto è benvenuto, quando c’è; e non rimpianto, se non è arrivato o si è
eclissato.
Nessuno ha l’inquietudine e
il mistero di certi ritratti del Lotto, o l’imponenza, l’eroica monumentalità,
non solo per ragioni ufficiali di rappresentanza o di carica, di quelli di
Tiziano, eppure a volte vien da pensare che proprio lì risiede il loro mistero.
Che proprio in quello consista la loro importanza. Possibile che nemmeno un’ombra
di turbamento o di trepidazione, la traccia di un dolore, di un’angoscia, di
una disillusione per un’ambizione mancata o dell’ansia per una agognata e da
raggiungere, li sfiori o abbia lasciato un segno, una ruga, una piega amara o
sprezzante sulle labbra o una pesantezza nelle palpebre? Hanno una naturalezza
compiuta e spontanea, non “soddisfatta” o ricercata o orgogliosa, come se non
potesse essere altrimenti: una naturalezza animale.
Sono facce che si possono
vedere in giro nella bergamasca anche oggi, Roberto Longhi aveva ragione a
farlo notare, persone che conosciamo, che hanno l’aria di famiglia. Non c’è
nessuna idealizzazione, non sono belle, ma neanche particolarmente brutte;
alcune hanno la pelle arrossata dall’aria fresca delle valli, segnata dal tempo
cronologico e meteorologico, le rughe o viceversa le guance pienotte, tese, più
che cadenti, eccetto alcuni preti e funzionari. Le donne sono bellezze
provinciali, come le chiamava Jacob Burckhardt, di raffinatezza più ambita che
incarnata, anche quando stracariche di abiti e di gioielli preziosissimi;
nessuna è estenuata, pallida o languida, o solo esile, piuttosto il contrario: floride
le giovani, matronali quelle più mature, in salute, che non indulgono a
stravizi ma certo non si negano niente, tranne quando il calendario liturgico
lo esige.
Gli stessi lineamenti li
troviamo anche nei fedeli che ci indicano le scene della passione o gloriose
che visualizzano mentalmente per favorire le loro preghiere, secondo i dettami
dei libri di esercizio spirituali già in voga prima di quelli di Ignazio di
Loyola e raccomandato dalla dottrina post-tridentina, come pure nei santi e
nelle sante che si differenziano da loro solo per la postura (e neanche sempre)
e per gli attributi iconologici: niente a che vedere con le sante rapinose del
Veronese e di altri veneziani o con quelle raffinate, dal gesto raffinato e lo
sguardo spesso velato di malinconia che il Lotto ha disseminato per le valli
bergamasche e che certo Moroni aveva presenti.
Il fatto è che, quand’anche
si ispirava e prendeva a prestito, o addirittura copiava (in particolare
dall’antico maestro Moretto), motivi e figure dei suoi quadri religiosi, sempre
il pittore albinese li declinava a modo suo, scostandosi in apparenza
lievemente (soprattutto nei primi decenni) e poi sempre più, ma in nessun caso
vistosamente. Non era interessato, o forse non era versato, a ricercare
clamorose innovazioni formali, e tuttavia è difficile non riconoscerli come di
sua mano una volta che li si incontra. La sua spiritualità non ha faticato ad
aderire ai dettami del Concilio di Trento, che prescrivevano rappresentazioni
semplici dirette, di facile lettura e immediata adesione, più riflessiva che
scomposta e commossa, o alle richieste di committenze dal gusto tradizionale e desideroso
di impianti a volte arcaici, come i polittici, ma non mancano, accanto alla
maestria dell’esecuzione fin nei minimi dettagli, soluzioni originali e
innovative che si fondono senza attrito con essi, come nell’“Ultima cena” di
Romano di Lombardia o nelle “Crocifissioni”, in particolare quella di Albino.
Si prenda ad esempio il “Cristo
portacroce” (1575-77), tutto concentrato in se stesso, preso dalla propria
pena, dal peso non solo fisico che sta sopportando in perfetta solitudine, in
un paesaggio spoglio, vuoto, senza fedeli o spettatori, senza nemmeno rivolgere
a chi osserva quello sguardo straziante, venato di sangue, che caratterizza
altri Portacroce dal taglio ravvicinato, con quasi la sola corona di spine e un
frammento della croce, come quello giorgionesco della Scuola di San Rocco o
quello tizianesco dell’Ermitage, struggente al limite del sopportabile.
Ma a caratterizzare queste
opere è il ruolo che vengono ad assumere i cieli e le atmosfere e in genere l’importanza
assegnata al paesaggio, spesso stupendo, che richiama anche solo in alcuni
dettagli quello reale dei luoghi dove erano esposte.
In particolare a colpire è la
presenza quasi ubiqua del massiccio roccioso della Cornagera rappresentato da
varie angolazioni in molti scorci paesaggistici o negli sfondi delle opere
religiose e delle pale d’altare, anche se può essere letta (e in un certo senso
forse è) come una firma indiretta, un
emblema geologico, crea nel fedele un effetto di appaesamento, che si traduce
nella cifra di una comunanza di luogo e di identità, e di comunità, di
partecipazione allo stesso credere e sentire, tra autore, committenti e fedeli
valligiani, che uscendo dal luogo sacro dove hanno pregato davanti all’immagine
si ritrovano nello stesso spazio che vi avevano visto rappresentato, e come in
quello avevano riconosciuto lo spazio fisico della propria vita, in questo
ritrovavano la stessa sacralità che elevava e benediceva la loro (modesta, spesso
povera, quasi sempre tribolata) quotidianità.
Nelle Crocifissioni, specie
quella di Albino, il cielo è spesso cupo, l’atmosfera satura di umidità, il
temporale imminente, rappresentato con sublime maestria, mai vista prima
(neanche in Giorgione, vien da dire), ma se il cielo sta per scatenarsi, se il
buio è a un passo dal coprire ogni cosa,
pensa il fedele che conosce il racconto evangelico della Passione, è perché il
sacrificio del Redentore sta per compiersi, e che quindi non deve avere timore,
e anzi rallegrarsi, ringraziare con la preghiera, perché allora anche la sua
salvezza diventa possibile.
Moroni 1521-1580,
Il ritratto del suo tempo, a cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino,
Gallerie d’Italia – Piazza della Scala, Milano
6 dicembre 2023 – 1 aprile 2024
Catalogo,
Edizioni Gallerie d’Italia | Skira, 24 × 28 cm, 344 pagine, 200 colori, € 38,00
Didascalie
1 – Giovanni
Battista Moroni - Il cavaliere in nero, Museo Poldi Pezzoli, Milano 2 - Giovan
Battista Moroni, Il sarto, 1572-75, National Gallery, Londra
2. Tiziano, ritratto del Cardinale Filippo Archinto 1558
3 - Giovan
Battista Moroni, Ritratto di Isotta Brembati, 1555-57, Collezione Lucretia
Moroni in concessione al FAI
4 – Allestimento
mostra Giovan Battista Moroni, sala con ritratti, © Ph. Roberto Serra Giovan
Battista Moroni, Il
5 - Moroni -
Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (il cavaliere in rosa) 1560, Collezione
Lucretia Moroni in concessione al FAI
6-
Allestimento mostra Giovan Battista Moroni, Sala con Ritratto di uomo con e
figli e Ritratto di giovane donna- © Ph. Roberto Serra
7 - Giovan
Battista Moroni- Devoto in contemplazione
8 – Giovan
Battista Moroni, Cristo portacroce, Chiesa della Madonna del Pianto, Albino
9 - Giovan
Battista Moroni, Crocefisso adorato dai santi Bernardino e Antonio da Padova.
Albino, Parrocchiale di San Giuliano