24/05/24

Appunti su alcuni libri russi di Paolo Nori, in particolare per "Vi avverto che vivo per l’ultima volta" e sul suo modo di scrivere


Ci sono scrittori di cui non ci importa niente cosa scrivono. Possono dire tutto, anche ripetersi all’infinito, ma non cessiamo di leggerli e di ricercare ogni nuovo libro sicuri di non essere delusi, perché, al di là delle loro storie o invenzioni e persino delle sciocchezze che possono scrivere, è la loro voce che ci attrae, è la sua inflessione che non cessa di parlarci. Non sono gli stessi per ogni lettore. Alcuni lo sono per un grande numero, altri per meno. Paolo Nori, per me, è uno loro.

Peraltro Nori di sciocchezze ne ha scritte poche, come poche ne scrivono questi scrittori, perché niente può essere una sciocchezza se l’inflessione è quella giusta.

È divertente, come sempre, a volte comico, e ci sono anche, come sempre, punti commoventi, che ogni tanto salgono le lacrime e si fa fatica a respingerle.

C’è gente che Nori proprio non lo sopporta, invece. Sempre a parlare delle sue inezie quotidiane, di suoi ricordi ripetuti alla nausea. Anche quando parla di cose o figura di grandezza irraggiungibile, li tira giù a terra come un quarto di bue dal gancio della cella frigorifera e cerca di scaldarli non con il loro stesso fuoco, ma con il suo tiepido fiato di dispeptico.

E poi gli dispiace che dice che quello che stai leggendo è un romanzo, ma poi come sottotitolo dice che è una biografia, e la biografia di uno scrittore, o di una scrittrice, famosi (Dostoevskij e Achmatova, per esempio), per attirare l’attenzione dell’eventuale lettore, che infatti coi casca, come il sottoscritto, e che questo è un modo un po’ troppo furbo di agire, che sarebbe un modo un po’ furbo di dire che è, poco o tanto, disonesto, un modo disonesto di agire, tanto più che poi ci sono cose che ripete, Nori intendo, da un libro a un altro, e a volte anche all’interno dello stesso libro, a volte dichiarandolo e altre no (troppo furbo!), che è una cosa che una volta a me avrebbe dato fastidio, ma tanto!, perché io allora, ero giovane, se c’era una cosa che non sopportavo era la ripetizione, così come la citazione, tanto più se mascherata, o indiretta, o peggio, inconsapevole, e invece ora non mi disturba neanche un po’, e anzi mi piace, se fatta in un certo modo, cioè che non sia identica anche quando lo sembra, fatta con furbizia insomma, un po’ almeno, e cioè con arte. E mi sembra che questo Nori lo faccia.


Molte cose che ci sono in questi ultimi due libri ci sono, infatti, pari pari già nel precedente I russi sono matti, che pure come sottotitolo dice in modo che ai detrattori parrà di sicuro furbesco, Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 (Utet, 2019, 223 p.), e invece è un repertorio di aneddoti e citazioni sugli scrittori e sulla storia della cultura e della società russa, con qualche riferimento alla letteratura in senso classico, ma si legge bene lo stesso, almeno io l’ho letto volentieri, è anche impaginato, come tutti i libri di Nori, in modo gradevole, e pazienza per la storia della letteratura russa, qualcosa si impara comunque, e non se ne esce disgustati, o annoiati, o disgustati e annoiati, come capita spesso con altri libri che magari volevano farti divertire o riflettere su cose serissime che purtroppo affliggono il mondo già di loro.

 


Chi cerca una biografia deve rivolgersi altrove (nella nota bibliografica, Nori ne suggerisce e commenta brevemente alcune), però a me sembra che alla fine del libro, della Achmatova ne sappiamo abbastanza. E anche di Nori, diranno i maligni. È vero. Ma io credo che quel saperne abbastanza della Achmatova, e in un modo vivo, parziale ma vivo, dipende anche dal fatto che ne veniamo a sapere abbastanza (cioè ancora troppo, non solo per i maligni) di Nori. Che cioè il modo vivo in cui veniamo a conoscere (o a ri-conoscere, per chi già un po’ la conosceva) la poeta russa (così voleva essere chiamata lei; non: poetessa) è legato al modo in cui Nori ci fa conoscere la sua vita, il suo modo di vivere, e quello che gli succede in rapporto al suo, al nostro, tempo, e al rapporto di questo con il tempo in cui ha vissuto lei. Perché diventa una persona vivente che si viene a conoscere da un personaggio che è vivente e ha qualcosa a che fare non con l’autore vivente, ma con il modo in cui l’autore rende vivente il personaggio che gli assomiglia, con la lingua e il tono e il respiro con cui ne parla. Così, a chi vuole sapere i fatti della vita della grande poetessa russa (io preferisco poetessa), e la storia della sua opera e anche qualcosa della sua opera, è meglio che legga altro; chi invece Nori gli sta simpatico per come parla e racconta le sue cose, sue del personaggio che si è costruito e di cui scrive, e di come questo personaggio vive gli autori di cui parla e la loro opera ecc., allora io direi che questo libro è da leggere.

 

Non c’è alternanza vera e propria tra le parti dedicate a AA e quelle in cui il narratore parla delle cose che gli stanno succedendo e dei suoi ricordi di altre che gli sono successe o ha scritto: questo modo di comporre il libro, di mettere le cose insieme e dargli forma, mi sembra indicativo di come la storia della poeta russa e i suoi versi, e quella della Russia dei tempi in cui ha vissuto e delle persone che ha sposato, amato, conosciuto ecc. e quella del narratore e dei tempi che stiamo vivendo, la guerra della Russia all’Ucraina, i modi in cui noi la affrontiamo comodamente indignati sulla poltrona di casa o dello studio dove leggiamo e scriviamo, ecc. si intrecciano, del modo in cui Nori (e il suo narratore) e noi (i suoi lettori) viviamo o possiamo (potremmo) vivere questi giorni, questi anni: siamo già al secondo, dopo lo scombussolamento del Covid, e ancora la fine non si vede: e quella che si intravvede non è quella che vorremmo, e potrebbe essere anche davvero la fine, la fine-fine, per molti di noi, tantissimi, quasi tutti.

È una forma che si maschera da disorganizzazione, se non da confusione. È un bel modo di portare dentro le storie e farle comunicare tra di loro e di portare a condividerle il lettore. È un artificio molto scaltro, o meglio: molto abile, di costruire un libro. Roba vecchia, si dirà: l’artificio che si nasconde nella naturalezza, nella mimesi della confusione del quotidiano; e invece è calibratissimo. Quasi sempre, perché un materiale così mobile a volte rischia di sfuggire di mano; questo lasciare porte e finestre aperte perché l’imprevedibile entri, può comportare che a volte sia l’imprevedibile a portarti fuori, a portarti così lontano che a un certo punto ti chiedi: ma allora dove sono? Perché mi sono lasciato condurre qui, che davvero va be’, è anche interessante (a parte che alcune cose le ho già lette: che le ripete, lo ripeto), ma insomma, c’entra poco: se non c’era, il libro era più piccolo di sicuro, ma forse anche migliore. Con tutto che è bello e piaciuto molto e ci sono tante cose che mi hanno fatto ridere, e anche riflettere e alcune persino commuovere.


 

 

20/05/24

Moroni, sommesso e sommo

Raccontano che Tiziano, ai funzionari veneziani in partenza per Bergamo che gli chiedevano un ritratto, rispondesse che avrebbero potuto trovare laggiù chi avrebbe fatto al caso loro nella persona di Giovan Battista Moroni, “che gli faceva naturali”. Un apprezzamento che sa di duplice sprezzatura, verso di loro che non meritavano il suo pennello, impegnato in soggetti di ben altra levatura, e verso il pittore bergamasco, relegato a bravo artista di ritratti, genere di levatura minore, per personaggi che la condividevano. Al suo studio bussavano imperatori, papi e regnanti vari e varie, che lo pregavano di averne uno di suo pugno, e che da soli bastavano a nobilitare anche il genere, a sua volta già innalzato dalla genialità del pittore.

Moroni invece non si vergognava di dipingere media e piccola nobiltà locale, notai, poeti di seconda e terza categoria, prevosti, badesse, artigiani cittadini e valligiani. Della val Seriana! Montanari. Che peraltro lo apprezzavano moltissimo, e che, al suo ritorno definitivo a Albino dove era nato nel 1521, dopo gli anni passati a Brescia alla scuola del Moretto e qualche successiva puntata a Trento in occasione dei lavori del Concilio che gli avevano procurato le prime importanti commesse, non si stancavano di chiedergli, oltre ai ritratti, pale d’altare e altre opere religiose che lui eseguiva con la massima diligenza, anche se, a detta degli esperti, con scarsa originalità e ancor minore immaginazione.

Chi volesse farsi un’idea di quanto approssimative fossero queste valutazioni, insieme alla conferma del livello eccelso dei ritratti, ha ora l’opportunità di farlo visitando la grande mostra che al pittore albinese hanno dedicato Le Gallerie d’Italia di Milano, Moroni, il ritratto del suo tempo, con ricco catalogo per l’eccellente cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino (edizioni Gallerie d’Italia | Skira). Mostra bellissima e completa, sia per la documentazione del suo intero percorso, sia per il numero e la qualità delle opere degli autori a cui si è ispirato, che ha copiato e con cui si è confrontato, a cominciare dal suo maestro Moretto, per passare da Lorenzo Lotto, Savoldo, Antonis Mor, Tiziano (tra cui il poco noto sorprendente “Ritratto del cardinale Filippo Archinto”), Tintoretto e Veronese, con opere sempre di altissimo pregio, e talvolta veri e propri capolavori che meriterebbero una visita anche da soli.


 

Moroni ha dipinto per quasi quarant’anni, ci sono rimaste più di duecento opere, aveva contatti con nobili lombardi e anche veneziani, il valore delle sue opere era riconosciuto, eppure è rimasto “totalmente sconosciuto alla letteratura artistica cinquecentesca” (Paolo Plebani).

Un’impresa non da poco. Non è nemmeno che sia caduto in disgrazia o sia stato messo in disparte e dimenticato (come Lotto): lui in grazia, a un certo livello perlomeno, praticamente non c’è nemmeno mai stato. La sua ribalta è stata rasoterra. Per secoli. Ma lì è sempre stata ben radicata, presso un numero ristretto ma tenace di amatori, fino alla riscoperta in grande stile a metà del secolo scorso, quando alcuni dei più noti hanno cominciato a dire che alcuni dei suoi ritratti sono tra i più belli di tutti i tempi, come “Il sarto” della National Gallery e il cosiddetto “Uomo in nero” del Poldi Pezzoli, entrambi presenti in mostra.


Non gli ha certo giovato, a parte la parentesi di Trento nei primi anni 1550 dove ha potuto conoscere e confrontarsi con la ritrattistica imperiale ufficiale per esempio di Tiziano e di Mor, l’aver circoscritto tutta la sua carriera all’area bergamasca, dopo il ritorno al paese d’origine nel 1555, dove ha ricoperto anche cariche importanti nella comunità locale e da cui non risulta essersi mai spostato per tutta la vita, contento di starci, “sommo e insieme sommesso, o sommo perché sommesso, albinese”, come scrisse Giovanni Testori.

 Se questo infatti ha condizionato il raggio e la qualità della sua committenza, non ha però minimamente influito su quella della sua pittura, che ha ben presto trovato proprio nella ritrattistica il suo ambito privilegiato, con un importante incremento della pittura religiosa soprattutto nell’ultimo decennio.

Come ha scritto Federico Zeri, i “personaggi del Moroni sono tutti attori comprimari di una storia che coinvolge l’intero tessuto sociale, […] è l’intima preoccupazione di prelati, responsabili di un grado gerarchico sentito come missione, ignara di cedimenti o compromessi”, che lui stesso condivide.

Lo si vede dal particolare tenore dei ritratti, che conservano la stessa serietà e partecipazione di fondo, pudica e non sentimentale, e tutt’al più con qualche accenno di benevola ironia, che caratterizza tutto il suo percorso artistico, coerente pur nei cambiamenti che i tempi e le conoscenze hanno occasionato e che si notano non solo nella moda degli abiti a cui i committenti prestavano grande attenzione, ma anche nelle differenze stilistiche e di impaginazione, nei fondi e nella colorazione prima accesa anche se equilibrata, poi incentrata su sottilissime preziose e magistrali sfumature tonali di grigio e nero, poi di nuovo aperta a una gamma cromatica varia e brillante.

Quello che non cambia è il realismo del pittore, l’attenzione meticolosa, lenticolare a ogni dettaglio e sfumatura, alla varietà delle stoffe e delle epidermidi, alla singolarità delle acconciature e degli sguardi.

Le donne e gli uomini ritratti presentano tutti figure e volti composti, mai impassibili o algidi come in certi ritratti ufficiali spagnoli o manieristi, o viceversa marcatamente espressivi, e anzi le loro posture sono persino disinvolte in certi casi, rilassate, “naturali”. È gente seria, che al massimo si concede una leggera piega ironica, un velo di tristezza o un accenno di riflessività e di meditazione; ma più spesso ti guarda, e si dà a vedere, placidamente, o non guarda affatto, concentrata sui fatti suoi, ma non in modo altezzoso o scontroso: gente che ha da pensare e da fare, e che di conseguenza ci pensa e lo fa. A volte lo sguardo è severo, mai cupo però, o giudicante, come non giudica mai i suoi soggetti il pittore, che se evita di calcare il pedale dell’empatia, li guarda in modo oggettivo ma non freddo, e in genere come qualcuno per cui la loro presenza, e persino la loro compagnia, è una consuetudine, e non problematica, scontata quasi, la compartecipazione a un medesimo contesto di vita e di valori e di fede.

 Indossano abiti lussuosi, ma relativamente alla posizione sociale e alla carica; alcuni, specie quelli femminili, incluse le acconciature e i gioielli, sono a volte ostentati a dispetto di ogni disposizione suntuaria, mentre gli uomini sembrano più severi, senza esserlo veramente, perché le stoffe sono quasi sempre di gran lusso, ricercatissime per qualità e rarità, tutte meravigliosamente rese, che inducono l’irresistibile desiderio di toccarle, di palparle e accarezzarle (più loro delle epidermidi). Ma restano comunque abiti a volte un po’ elaborati da indossare, tanto da indurre a immaginare la vestizione come un breve cerimoniale celebrato con l’ausilio di un servo o di una cameriera da camera, ma abbastanza comode da portare, calde in quelle loro case dagli ampi locali e dagli alti soffitti, difficili da riscaldare, con i venti gelidi che percorrono le valli bergamasche da ottobre a maggio.  Anche certi ingombranti pantaloni rigonfi e elaborati, aperti su braghette in genere discrete, che l’uniformità del colore in parte smorza, tranne alcuni casi di esibizionismo un po’ ridicolo (ma sono perlopiù nobili cittadini, podestà, funzionari veneziani, paciosi ma un po’ vanesi).

A partire dagli anni ’60 comincia ad affermarsi il nero integrale, sul modello della monarchia asburgica, colore sobrio, ascetico, che allude a umiltà e penitenza, a onestà e lealtà, ma anche a potenza e autorità, “fusione perfetta tra fede e austerità, da un lato, e norme cortigiane dall’altro” (Simone Facchinetti)


Anche l’ambientazione si spoglia sempre di più, i locali e le pareti si fanno disadorni, quando non spariscono del tutto, anche in relazione al taglio del ritratto, ovviamente: ravvicinato, di tre quarti, “al naturale” a figura intera. L’aspetto celebrativo, se mai c’è stato (e comunque mai disgiunto da un inflessibile rigore realistico, pur senza indulgere al dettaglio sgradevole, sempre tenuto al livello di annotazione oggettiva, cioè di attenzione e di rispetto per la realtà: e quindi di cura), sparisce del tutto: restano le teste, i busti, i corpi di ogni persona rappresentata nella sua singolarità, con i suoi caratteri individuali e mai tipici o simbolici, la sua personalità senza orpelli, il suo sguardo, ciascuna bastevole a se stessa, inconfondibile, e perciò indimenticabile.

Spesso la persona ritratta sembra colta mentre attende a qualche normale attività (leggere, tagliare una stoffa, scrivere, pregare, redigere o studiare atti notarili…), ma nessuna ti guarda infastidita per l’interruzione, e sempre ti accoglie tranquilla, con una pazienza connaturata, al massimo con un po’ di curiosità, per vedere chi sei, cosa vuoi, cosa può fare per te, cortese, mai sopra le righe né con familiarità ostentata, piuttosto con pacato distacco, distesa e misurata, quasi che fosse lei ad attestare la nostra esistenza e non noi a contemplare la sua.

È tutta gente a cui non viene difficile vivere, che sta confortevolmente in se stessa, o così sembra, che sa chi è e cosa fa e deve fare e non si spinge molto oltre, e che accetta ciò che le tocca e lo affronta serenamente; e anche se sono incorsi in malattie e sventure, e c’è chi è solo con due bambini piccoli che hanno fatto pensare che fosse un vedovo (cosa non certa, nonostante il gesto protettivo del padre e la tristezza negli occhi della bimba e lo sguardo un po’ perso del bimbo: entrambi bellissimi, che possono stare alla pari della meravigliosa “Bambina di casa Redetti” della Carrara di Bergamo, purtroppo assente a Milano), o chi porta i segni della vecchiaia o di qualche imperfezione o malattia, non lo danno a vedere come un triste trofeo, non lasciano trasparire, se non in forme pudiche, lievi, le devastazioni e le ansie, così come non si fregiano esteriormente delle cariche e dei ruoli o delle professioni, o solo di quel tanto di valore sovrapersonale che esse comportano, per non sminuirle. Gli basta il decoro, la dignità a cui ciascuno ha diritto per il semplice fatto di stare al mondo. Il resto è benvenuto, quando c’è; e non rimpianto, se non è arrivato o si è eclissato.


Nessuno ha l’inquietudine e il mistero di certi ritratti del Lotto, o l’imponenza, l’eroica monumentalità, non solo per ragioni ufficiali di rappresentanza o di carica, di quelli di Tiziano, eppure a volte vien da pensare che proprio lì risiede il loro mistero. Che proprio in quello consista la loro importanza. Possibile che nemmeno un’ombra di turbamento o di trepidazione, la traccia di un dolore, di un’angoscia, di una disillusione per un’ambizione mancata o dell’ansia per una agognata e da raggiungere, li sfiori o abbia lasciato un segno, una ruga, una piega amara o sprezzante sulle labbra o una pesantezza nelle palpebre? Hanno una naturalezza compiuta e spontanea, non “soddisfatta” o ricercata o orgogliosa, come se non potesse essere altrimenti: una naturalezza animale.

Sono facce che si possono vedere in giro nella bergamasca anche oggi, Roberto Longhi aveva ragione a farlo notare, persone che conosciamo, che hanno l’aria di famiglia. Non c’è nessuna idealizzazione, non sono belle, ma neanche particolarmente brutte; alcune hanno la pelle arrossata dall’aria fresca delle valli, segnata dal tempo cronologico e meteorologico, le rughe o viceversa le guance pienotte, tese, più che cadenti, eccetto alcuni preti e funzionari. Le donne sono bellezze provinciali, come le chiamava Jacob Burckhardt, di raffinatezza più ambita che incarnata, anche quando stracariche di abiti e di gioielli preziosissimi; nessuna è estenuata, pallida o languida, o solo esile, piuttosto il contrario: floride le giovani, matronali quelle più mature, in salute, che non indulgono a stravizi ma certo non si negano niente, tranne quando il calendario liturgico lo esige.


 Gli stessi lineamenti li troviamo anche nei fedeli che ci indicano le scene della passione o gloriose che visualizzano mentalmente per favorire le loro preghiere, secondo i dettami dei libri di esercizio spirituali già in voga prima di quelli di Ignazio di Loyola e raccomandato dalla dottrina post-tridentina, come pure nei santi e nelle sante che si differenziano da loro solo per la postura (e neanche sempre) e per gli attributi iconologici: niente a che vedere con le sante rapinose del Veronese e di altri veneziani o con quelle raffinate, dal gesto raffinato e lo sguardo spesso velato di malinconia che il Lotto ha disseminato per le valli bergamasche e che certo Moroni aveva presenti.

Il fatto è che, quand’anche si ispirava e prendeva a prestito, o addirittura copiava (in particolare dall’antico maestro Moretto), motivi e figure dei suoi quadri religiosi, sempre il pittore albinese li declinava a modo suo, scostandosi in apparenza lievemente (soprattutto nei primi decenni) e poi sempre più, ma in nessun caso vistosamente. Non era interessato, o forse non era versato, a ricercare clamorose innovazioni formali, e tuttavia è difficile non riconoscerli come di sua mano una volta che li si incontra. La sua spiritualità non ha faticato ad aderire ai dettami del Concilio di Trento, che prescrivevano rappresentazioni semplici dirette, di facile lettura e immediata adesione, più riflessiva che scomposta e commossa, o alle richieste di committenze dal gusto tradizionale e desideroso di impianti a volte arcaici, come i polittici, ma non mancano, accanto alla maestria dell’esecuzione fin nei minimi dettagli, soluzioni originali e innovative che si fondono senza attrito con essi, come nell’“Ultima cena” di Romano di Lombardia o nelle “Crocifissioni”, in particolare quella di Albino.

 



Si prenda ad esempio il “Cristo portacroce” (1575-77), tutto concentrato in se stesso, preso dalla propria pena, dal peso non solo fisico che sta sopportando in perfetta solitudine, in un paesaggio spoglio, vuoto, senza fedeli o spettatori, senza nemmeno rivolgere a chi osserva quello sguardo straziante, venato di sangue, che caratterizza altri Portacroce dal taglio ravvicinato, con quasi la sola corona di spine e un frammento della croce, come quello giorgionesco della Scuola di San Rocco o quello tizianesco dell’Ermitage, struggente al limite del sopportabile.

Ma a caratterizzare queste opere è il ruolo che vengono ad assumere i cieli e le atmosfere e in genere l’importanza assegnata al paesaggio, spesso stupendo, che richiama anche solo in alcuni dettagli quello reale dei luoghi dove erano esposte.

In particolare a colpire è la presenza quasi ubiqua del massiccio roccioso della Cornagera rappresentato da varie angolazioni in molti scorci paesaggistici o negli sfondi delle opere religiose e delle pale d’altare, anche se può essere letta (e in un certo senso forse  è) come una firma indiretta, un emblema geologico, crea nel fedele un effetto di appaesamento, che si traduce nella cifra di una comunanza di luogo e di identità, e di comunità, di partecipazione allo stesso credere e sentire, tra autore, committenti e fedeli valligiani, che uscendo dal luogo sacro dove hanno pregato davanti all’immagine si ritrovano nello stesso spazio che vi avevano visto rappresentato, e come in quello avevano riconosciuto lo spazio fisico della propria vita, in questo ritrovavano la stessa sacralità che elevava e benediceva la loro (modesta, spesso povera, quasi sempre tribolata) quotidianità.

Nelle Crocifissioni, specie quella di Albino, il cielo è spesso cupo, l’atmosfera satura di umidità, il temporale imminente, rappresentato con sublime maestria, mai vista prima (neanche in Giorgione, vien da dire), ma se il cielo sta per scatenarsi, se il buio  è a un passo dal coprire ogni cosa, pensa il fedele che conosce il racconto evangelico della Passione, è perché il sacrificio del Redentore sta per compiersi, e che quindi non deve avere timore, e anzi rallegrarsi, ringraziare con la preghiera, perché allora anche la sua salvezza diventa possibile.

 

 Moroni 1521-1580, Il ritratto del suo tempo, a cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino, Gallerie d’Italia – Piazza della Scala, Milano

6 dicembre 2023 – 1 aprile 2024

 

Catalogo, Edizioni Gallerie d’Italia | Skira, 24 × 28 cm, 344 pagine, 200 colori, € 38,00

 

 

Didascalie

1 – Giovanni Battista Moroni - Il cavaliere in nero, Museo Poldi Pezzoli, Milano 2 - Giovan Battista Moroni, Il sarto, 1572-75, National Gallery, Londra

2. Tiziano, ritratto del Cardinale Filippo Archinto 1558

3 - Giovan Battista Moroni, Ritratto di Isotta Brembati, 1555-57, Collezione Lucretia Moroni in concessione al FAI

4 – Allestimento mostra Giovan Battista Moroni, sala con ritratti, © Ph. Roberto Serra Giovan Battista Moroni, Il

5 - Moroni - Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (il cavaliere in rosa) 1560, Collezione Lucretia Moroni in concessione al FAI

6- Allestimento mostra Giovan Battista Moroni, Sala con Ritratto di uomo con e figli e Ritratto di giovane donna- © Ph. Roberto Serra

7 - Giovan Battista Moroni- Devoto in contemplazione

8 – Giovan Battista Moroni, Cristo portacroce, Chiesa della Madonna del Pianto, Albino

9 - Giovan Battista Moroni, Crocefisso adorato dai santi Bernardino e Antonio da Padova. Albino, Parrocchiale di San Giuliano 


 


14/05/24

Monet in barca





Quando si parla di Impression, lever du soleil (1872), il quadro di Claude Monet da cui per tradizione si fa iniziare l’Impressionismo, o quantomeno il nome, a essere presi in considerazione sono principalmente la luce, l’acqua, l’aria, i riflessi, i colori. Un’attenzione meno approfondita viene invece prestata al porto con i suoi edifici e macchinari e soprattutto alle numerose imbarcazioni, a che tipo sono, alla loro grandezza, forma e funzione, se non come termini di riferimento spaziali e per creare profondità in un contesto in cui la prospettiva classica è assente, sostituita da quella tripartita, dall’alto in basso, sul modello giapponese. Eppure sono lì, elemento non minore della composizione, a riempire lo spazio con la loro presenza, a dargli corpo, articolazione e linee di forza, suddivisioni, a intercettare lo sguardo, a farlo inciampare. Anche lo spettatore comune tende a trascurarle.


Poi un giorno, magari dopo aver osservato e analizzato tutto il resto, ancora in preda all’emozione dell’insieme, uno le vede e come colto da un improvviso stupore (illuminazione sarebbe troppo) si chiede che razza di imbarcazioni saranno mai, che cosa ci fanno lì di preciso, a parte il fatto ovvio che in un porto ci stanno di casa. Ma se non è uno specialista o del mestiere, gli vengono in mente solo parole generiche e un piccolo mazzetto dei sinonimi più diffusi che dicono tutti la stessa cosa. Variazioni, sfumature: non vere e proprie differenze che segnalano specifiche identità. Certo, in questo quadro, sono quasi solo sagome incerte, fantasmi. Ma una volta formulata la domanda, non è poi facile eliminarla, e dal momento che le imbarcazioni sono presenti in molte altre opere, si comincia a cercarle e a provare a riconoscerle.

Già i quadri realizzati nel 1869 a “La grenouillère”, quelli che veramente inaugurano l’impressionismo, quando Monet va a dipingere sul fiume in compagnia di Renoir avviando una consuetudine che resterà viva fino ai tempi di Van Gogh, Seurat, Bernard e oltre (vedi Guzzoni qui), ne sono zeppi.

  

E altre ne seguiranno, nei numerosissimi quadri fluviali e marini della sua opera, dipinte spesso con attenzione e grande cura, talvolta anche in primo piano, e non solo perché l’acqua e il mare sono tra i soggetti da lui preferiti. E così vediamo ogni sorta di pescherecci, barche tirate in secco per l’inverno, chiatte, rimorchiatori, cabinati di vario tipo, case galleggianti, carghi, bastimenti a vapore e velieri.

Monet non trascura nessuna delle tipologie, in un mondo che sta vivendo molti cambiamenti anche nella marina, sia mercantile che militare, e nelle differenti funzioni economiche, abitative e di loisir, lussuoso o modesto che sia. È la prima volta, tra l’altro, che si vedono nei quadri tante imbarcazioni da diporto. L’accesso al loro possesso e al loro uso è cresciuto con l’affermazione della nuova borghesia, del tempo libero, delle vacanze al mare e lungo i fiumi, e dell’aumento dei porticcioli e delle attrezzature turistiche, e anche la pittura ne prende atto, Monet tra i primi che non trascurava nessuno dei nuovi aspetti della vita moderna. Era facile raggiungere le rive più amene della Senna a pochi chilometri dalla città portandosi tutta l’attrezzatura in treno per dipingere la luce e i riflessi cangianti degli alberi e delle acque e i loro riverberi colorati sugli abiti e sull’epidermide dei borghesi in vacanza, mentre un numero sempre maggiore di barche da diporto e da regata percorreva il fiume. A partire dalla prima metà dell’800 si erano diffusi i circoli velici e ad andare in barca per piacere, prima appannaggio solo degli aristocratici come quelli dipinti da Watteau, si appassiona anche la massa crescente di borghesi grandi e piccoli che si possono spostare agevolmente per fuggire dal caos e dall’aria irrespirabile dalla città sovrappopolata, verso una natura intatta che poi però si ritrova affollata di consimili fuggitivi, come gli innamorati disperati che gremiscono le valli deserte nel Don Chisciotte.

 


Tra quelle dipinte a c’è anche la barca-atelier, una barca larga con una cabina e una tenda che poteva essere srotolata per proteggere dal sole, che il pittore aveva allestito per poter lavorare in mezzo ai riflessi e agli effetti di luce creati dal fiume, immerso nel quadro che andava dipingendo, come è stato a sua volta ritratto, con un effetto en abyme, dall’amico Manet che ogni tanto andava a trovarlo.


Chi osserva i quadri di Monet può quindi farsi un’idea anche dei cambiamenti dei natanti e della molteplicità dei loro usi e delle loro forme. In Impression, lever du soleil però, vien da pensare, non è poi così importante distinguerle e etichettarle, a meno di non essere visitati dal demone della nominazione, peraltro sempre benaccetto.

Come è noto Monet non rappresenta ciò che vede, ma la sua impressione di ciò che vede, il modo in cui ciò che c’è lo impressiona, e impressiona proprio e solo lui, persona come le altre ma come ciascuna da tutte le altre differente, dandoglisi a vedere e insegnandogli a vedere sempre meglio, sempre di più. Per questo, nei suoi primi anni di attività, molti rigettano ciò che dipinge: perché quello che vedono, non corrispondendo alle loro impressioni che essi scambiano per la visione oggettiva della realtà, per loro è solo confusione che offusca ogni cosa, e di fatto la rende invisibile: mentre per Monet è l’invisibile in ciò che lo impressiona ciò egli, e lo spettatore con lui, deve imparare a vedere standogli in mezzo, e non di fronte, da fuori (da cui la necessità, e non il vezzo, del plein air) e che di fatto egli stesso comincia a vedere solo dipingendo.

Non è quindi alle imbarcazioni che Monet pensava in primo, e forse nemmeno in secondo o in terzo luogo, mentre creava Impression. E infatti anche i tratti che le caratterizzerebbero sono in quest’opera confusi, quasi cancellati, per lasciar luogo solo a linee e macchie di colore, perlopiù scuro. Forse in questa occasione non si è nemmeno preoccupato di rappresentarle nella loro specificità, come se non le avesse viste una per una, ma affogate nell’insieme, nella vibrazione della luce che si fa strada nella foschia del mattino, tra la nebbia e i fumi dell’inquinamento industriale e portuale emanati dalle ciminiere delle fabbriche e dai battelli a vapore, e nella infinita frammentazione dei riflessi che ne derivano. Non sarebbe pertinente chiederselo, quindi. Ma chi decide cosa è pertinente e cosa no? Intanto quelle imbarcazioni, quelle navi, le loro sagome, i loro corpi, ci sono. Uno guarda il quadro e le vede. Non può fare a meno di vederle. E poi è poco probabile che l’occhio così sensibile di Monet non le abbia guardate bene, e che, una volta viste, le abbia trascurate in modo così enfatico. Se dipinge luce colore e riflessi, e non cose; se va oltre esse e le trasforma in masse e linee di colori mutevoli, deve però averle viste, deve averne fatto una qualche esperienza prima di optare di dimenticarle, o di fare a meno dei loro tratti individualizzanti: prima di decidere che stavolta non avevano tanta importanza e di astrarre da loro. Non si opera un’astrazione dal nulla. E comunque loro sono lì, e nessuno le toglierà dal quadro, nessuno le cancellerà. Sono lì, e lo spettatore, con tutte le volte che ha visto, e anzi guardato, scrutato il quadro o le sue riproduzioni, forse non subito, forse solo con una coscienza vaga, ma infine vede anche loro. Vi si sofferma con attenzione. E da quel momento non riesco a dimenticarle. Non può fare a meno di pensarci, anche se fino a poco fa non era mai andato oltre. Ma una volta formulato l’interrogativo, gli diventato impossibile evaderlo. Che razza di barche e navi sono?, si ripete. Non si raccapezza. Fa fatica a orientarsi, come se brancolasse nel buio. Accecato dalla luce, ondeggia al movimento dello scafo, si aggrappa alla ringhiera, abbraccia l’albero maestro.

Tutte le cose che sono rappresentate nel quadro, sono meno cose avvolte dalla luce (fossero pure le luci della notte), che occasioni per vedere la luce che si materializza grazie ad esse mentre insieme le dà a vedere e le sgretola, le disarticola fino quasi a dissolverle, come dissolto è lo spazio, inteso come ambiente, come ‘contenitore’, scatola prospettica.

Barche, battelli e navi si confondono con le acque e l’aria, affogano nel colore, quasi smaterializzate, eppure restano lì, presenti, ancorate nell’immagine, necessarie, che affiorano come sono, che vengono all’esistenza attraverso l’azione del loro in un secondo tempo, in un tempo sempre successivo, ri-apparire, il quale però, a ben guardare (sì, proprio a ben guardare), è il loro reale manifestarsi, il loro venire ad apparire che è insieme il loro venire ad essere. Indispensabili nel loro stesso venir meno. La luce senza ostacoli è invisibile. Monet lo sa benissimo: non a caso in molte tele le imbarcazioni conservano una consistenza materica, anche se in Impression e in altre opere ancora tutto sembra disfarsi e diventare ombra, apparizione incerta, larvale.

Infine però qualcosa si comincia a distinguere e a riconoscere: ci sono due o forse tre velieri, un peschereccio, una sagoma che sembra una chiatta sulla sinistra, tre barche da pescatori, una che forse fa da guida alle grosse navi che escono dal porto quando la marea lo permette, altre piccole sagome che sembrano vele di imbarcazioni da diporto o da regata, come quelle presenti in altri quadri, che pullulano di barche da pescatori, chiatte e imbarcazioni da canale a fondo piatto con randa per il trasporto del carbone e di altre merci, e poi bastimenti, rimorchiatori, barconi da abitazione, dinghi, flying dutchman, yacht a 2 vele, cutter, feluche, mercantili a vela e a vapore, barchette e canoe con graziose signore ai remi… Una volta iniziata a passare in rassegna la vasta produzione del pittore, si scoprono decine, se non centinaia di quadri con questo soggetto, e lentamente qualcosa si viene a sapere. Si vedono le loro peculiarità. Si riconoscono forme e grandezze e funzioni. Si cercano e trovano nomi. E alla fine, le cose vanno a posto. E per un momento è tutto in ordine.





12/05/24

La vecchia storia di Dio e dei dettagli (appunti per niente 37)

 

Dio è nei dettagli (Mies van der Rohe); oppure “Dio si nasconde nei dettagli” che si raddoppia (o divide) in “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Questo ha più senso, perché nei dettagli stanno le insidie e perché il diavolo deve nascondersi. Altrimenti sarebbe Dio: ipotesi tutt’altro che da trascurare. Ma se così fosse niente distinguerebbe l’espressione dalle altre due. Che sono due espressioni a effetto, e quindi in fondo sciocchezze, anche se qualche verità la contengono, come tutte le sciocchezze.

Dio, se c’è, è nei dettagli come è in tutto: perché dovrebbe nascondersi? E’ nascosto solo per l’occhio che non vede, e che solo quando si apre a vederlo, non lo trova che nel dettaglio, per il semplice motivo che il tutto gli sfugge. Non è necessario che il dettaglio sia minuscolo o addirittura infinitesimo (se uno dice di trovarlo lì è per magnificare le sue diottrie). Il dettaglio è sempre in relazione a qualcosa di più grande, per cui anche la Terra può essere un dettaglio, come difatti è in relazione alla galassia e all’universo: infinitesimale, appunto, mentre per noi è tutto o quasi. Quando qualcuno trova Dio da qualche parte, è così contento da pensare di aver trovato tutto, e invece ha trovato solo ciò che ci ha messo lui, che può essere, per lui, immenso, certo, e allora lo chiama Dio, lo chiama tutto. Quello che ci ha messo è la misura di ciò che non vedeva, e al contempo di ciò che ancora non vede: chiamandolo Dio crede di aver trovato tutto, in modo piuttosto economico anche. Niente di male. Anzi: tutto bene. Una scoperta, una gioia, una piccola estasi. Tutto meraviglioso, lo dico senza ironia; finché non pensa di dargli un nome che lo riscatti dalla sua limitatezza e pensa che quella viene cancellata e si unisce al senza limite, che in quanto tale è confuso. Illuminazione, estasi, satori, dio, spirito. Tutte cose eccellenti, finché non coprono e non si mangiano tutto il resto. Che poi digeriscono, forse, e evacuano, di sicuro, da qualche parte, come tanti piccoli, o giganteschi, resti. Dettagli.

 

Naturalmente quella di Mies van der Rohe è solo un’immagine. E il mio è il commento pedante di uno stupido che si crede più intelligente e la legge alla lettera. Tipico degli stupidi. Il dettaglio è il dettaglio, lui sì alla lettera, anche se sta per tutte le cose piccole, che passano inosservate ecc.; mentre Dio è una metafora, una metafora paradossale dove l’incommensurabile sta per il commensurabilissimo, la bravura, l’abilità, l’arte e altre piccole miserie, o una sineddoche, del Tutto per una parte, cioè per un dettaglio (il Creatore per una creatura, o per il creatore dell’oggetto in questione). Ma l’immagine non è innocente. Non è semplicemente un’immagine, qualcosa che sta per un’altra, senza una lettera. E’ efficace perché c’è una lettera. Una lettera che, in questo caso, sembra venire dopo l’immagine che la usa, anche se questa lettera si riferisce a un prima, il Prima assoluto, o forse a un significante con un significato fortissimo, ma senza referente, che aspetta di essere costruito, edificato, designato proprio dall’immagine che così lo fonda… ecc. E lo stupido che commenta il commento, denunciando la propria stupidità per cercare di ovviarvi e sembrare, o forse essere, intelligente, continua invece a esserlo, al quadrato. E poi al cubo, e così via. E così via…

Resta sempre molto superficiale, si ferma (mi fermo) sempre troppo presto invece di andare avanti, come chi teme di non farcela e ha paura di smarrirsi, e proprio lì, di ritrovarsi di fronte, ma veramente!, ai propri limiti, alla propria limitatezza, e di vederla allora tutta, com’è davvero, senza consolazione, come è quella invece che promana dal suo vago senso, che evapora subito, lasciando nella propria scia un’altrettanto vaga e effimera soddisfazione. Quella che c’è ogni volta che si mette un punto. E si chiude senza ascoltare il richiamo che viene, insistente, dopo ciascuno di essi. Spunta sempre la paura.

 

06/05/24

Sull’invidia degli dei


Cosa avrò mai fatto per meritarmi tutto questo? Tutti ce lo siamo chiesto una volta o l’altra. Anche se sappiamo benissimo che per il dolore non c’è bisogno di nessuna colpa. Basta esistere.

A volte però, quando ci accade qualcosa di enorme e inspiegabile siamo noi a cercare un responsabile, accusando di preferenza qualche dio maligno, o anche benigno nel complesso ma non in quella occasione, che ci ha bersagliato per disegni suoi che ci sfuggono, o di cui vediamo solo il frammento limitato in cui si dibatte la nostra miserabile persona, la nostra povera anima.

O se non un essere divino, incolpiamo qualche stella o pianeta, di cui peraltro gli dei in origine erano stati incarnazioni secondo Giorgio de Santillana (Fato antico e Fato Moderno, Adelphi, 1985), credenza che condividiamo anche noi ogni volta che leggiamo un oroscopo, salvo poi dire che è solo superstizione. Ma la sequela di crudeltà che ci investe fa vacillare la fede nella nostra incredulità.

D’altra parte niente di minor levatura di un qualche abitante dei cieli può prendersi cura in modo così minuzioso, ferocemente mirato, di noi, del nostro corpo e delle nostre faccende sentimentali e finanziarie, che una certa importanza ce l’hanno, quanto meno ai nostri occhi. A volte è davvero troppo per andare a cercare altri responsabili più peregrini. Al massimo sono solo stupidissimi strumenti.

Tutte le civiltà concordano: se le cose vanno male, se ci sono la morte, il dolore, le ingiustizie, le guerre, è solo colpa di qualche dio. È così ovvio! Possono essere stati solo loro a mettere il mondo fuori sesto, a scombussolare l’armonia dei cieli, a portare il disordine sulla terra e tutte le magagne tra gli uomini. Prima non era così. Uomini e dei vivevano insieme, poi qualcosa si è guastato, e a guastarlo sono stati i più potenti, che ne avevano le forze, anche se a subirne i danni sono stati gli uomini, che quindi (l’equazione a posteriori è facile), qualche colpa l’avranno pure loro. Anzi ce l’hanno tutta loro, a sentire i piani alti. E quando, a dispetto di tutto, qualcuno vive felice, ha ricchezze, forza, salute, gloria e una grande discendenza, ai superni gli prende l’invidia, gli va di traverso l’ambrosia, e gliela fanno pagare.


 

È un sentimento che, se forse non risale fino alle origini, è certo molto antico, quantomeno da quando abbiamo cominciato a chiederci che cosa ci sta succedendo, cosa possiamo attenderci e perché. Le testimonianze millenarie in merito, scritte e orali, sono numerosissime. Non c’è verso di sfuggirgli. Il sospetto della malevolenza degli dei torna sempre. Dino Baldi nel suo notevole, filologicamente e filosoficamente sapiente, È pericoloso essere felici. L’invidia degli dei in Grecia (Quodlibet, 2023, p. 259), ne ha ricostruito la storia a partire dalla Grecia arcaica, incentrandola sull’espressione phthonos theòn, che si traduce di solito con “invidia degli dei” (ma ha altre sfumature) e illustrando in parallelo anche la storia della concezione della felicità e delle sue trasformazioni anche in relazione ai mutamenti della società e delle forme politiche e di potere. Perché anche la felicità non è sempre stata la stessa.

Baldi parte da Omero e Esiodo (nei quali peraltro lo phthonos theòn non è nominato), arrivando fino a Platone e alle filosofie ellenistiche e romane con uno sguardo che si estende fino al grande cambiamento apportato dal Cristianesimo, passando per Pindaro, Eschilo e soprattutto Erodoto, attraverso una messe molto cospicua (e bella) di storie, citazioni, analisi e raffronti. Alcune di queste storie sono note, tanto da essere diventate tradizionali e da aver dato luogo a numerose varianti, in tempi, luoghi e lingue molto differenti, come quelle di Gige e di Creso e di Policrate, tiranno di Samo, che per stornare la malevolenza degli dei sacrificò in mare il suo anello più prezioso, salvo poi ritrovarlo in un pesce portatogli in omaggio da un suddito, come a dire che uno può fare quel che gli pare, ma la parola decisiva non sarà mai la sua. Ma oltre a questo Baldi, filologo classico di formazione, va a rileggere nella prospettiva evidenziata già dal titolo anche miti, passaggi di autori sommi e minori e di poesie poco note, se non agli antichisti, facendone oggetto di analisi e riflessioni approfondite sempre esposte in una scrittura di grande chiarezza e spessore. E anche brillante in certi punti, come lo sono i suoi libri precedenti, Morti favolose degli antichi e Vite efferate di papi (Quodlibet compagnia extra, rispettivamente 2010 e 2015), molto diversi per impostazione ma con un analogo ricchissimo sostrato di erudizione.

 

Phthonos non significa solo invidia ma, “a partire da un senso generico di opposizione e negazione, arriva a coprire in Grecia più o meno tutto lo spazio delle emozioni competitive. In principio ha un’accezione neutra (…) ma col tempo (…) tende ad assumere un significato interamente negativo, simile alla nostra invidia o gelosia”. La competizione, l’agonismo esasperato, era talmente presente nella Grecia arcaica, e anche classica, che si infiltrava in ogni aspetto della vita tanto da dover cercare periodicamente sfogo in conflitti di varia portata conditi da tutto un campionario di lotte intestine, che trovarono una provvisoria regolamentazione solo nell’istituzione dei giochi olimpici, che non per nulla scandivano anche il calendario, e in numerose altre occasioni civili e religiose (ammesso che in questo caso una distinzione del genere sia possibile).

Non sono stati gli uomini però ad avere sfidato gli dei (almeno in Grecia: altrove qualcuno di loro li ha messi nella condizione di provarci per poi fargliela ferocemente pagare una volta che ci fossero cascati), ma le conseguenze, oltre agli sconfitti nelle loro titaniche controversie, si sono riversate sulla povera umanità, peraltro molto concupita in alcuni suoi esemplari.

A volte è la nostra stessa esistenza a sembrargli una sfida. C’è qualcosa che li infastidisce in noi, che pure siamo loro creature: senza contare che già noi non trascuriamo nessuna occasione per volerci e farci del male. Chissà se capita anche a loro. Schopenhauer ha scritto: “Visto che si sentono infelici, gli uomini non sopportano la vista di qualcuno che ritengono felice”; se applichiamo questa osservazione all’invidia degli dei per la felicità degli uomini, dobbiamo desumere che i poveretti sono o si sentono infelici, per l’eternità in sovrappiù, visto che tale è la loro sorte. Di conseguenza, poiché più di tanto non possono farsi del male a vicenda, nella loro infingardaggine scelgono un bersaglio più comodo. Ed eccoci qui.

Si potrebbe pensare che la felicità nel mondo ha una quota fissa, abbastanza contenuta peraltro: per cui se a qualcuno ne tocca molta, saranno in molti ad averne poca o nessuna: il che significa che la quota di infelicità è abbondante in misura proporzionalmente inversa. Se la felicità in circolazione, o possibile, fosse molto copiosa, tutti ne godrebbero almeno un po’. A patto che fosse distribuita con una certa equità, che è palesemente assente, invece. E se anche, almeno in partenza, fosse applicata in modo corretto, si può star certi che, essendo la misura contenuta e, rispetto alle aspettative, del tutto inadeguata, ci sarebbe sempre chi farebbe di tutto per vedere la propria quota crescere a discapito di qualcun altro, che non solo vedrebbe la propria diminuire, ma sarebbe afflitto anche dall’infelicità in misura non solo proporzionale alla sottrazione ma vieppiù crescente in quanto alla sottrazione si aggiungono la sua violenza e l’umiliazione per l’ingiustizia, senza dubbio immeritata. Se poi qualcuno dovesse indurlo a credere che se gli è stata rubata è perché l’ha meritato, a questo si aggiungerebbe anche il senso di colpa e il disprezzo per se stesso, in un crescendo inflazionistico senza fine. Ma i più, con tutta la buona volontà, in certe occasioni questa colpa non la trovano proprio. E allora patiscono della gratuità del male che gli è capitato tra capo e collo e ne accusano gli dei, che avranno pure le loro colpe, ma non sempre c’entrano.

E se non è dio, che non può essere così meschino man mano che la sua essenza, agli occhi degli uomini, diventa sempre più perfetta e spirituale, sarà qualche demone, come già nella Bibbia accade a Giobbe, con la connivenza di Jahvè, che poi lo ricompensa al quadrato (come se ricchezze, mogli e figli più numerosi potessero cancellare la somma dei dolori e lutti subiti: questa sì un’idea meschina).

Per questo, anche quando abbiamo un periodo di fortuna e la sorte ci arride, il pensiero di qualche futura disgrazia arriva a guastarne il godimento, e senza aspettare che la tavola venga rovesciata da qualcun altro, ci pensiamo noi a punirci, come Policrate, a far fallire un’iniziativa o a procurarci un danno o una ferita, meglio se piccola, ma significativa. Io lo faccio. A volte eccedo. Non aspetto nemmeno di essere fortunato: mi faccio del male prima. Una forma di riparazione preventiva. Ognuno ha la sua misura. Ognuno costruisce la propria miseria.

Nelle società del passato le grandi fortune si concentravano nelle mani di pochi e tutti gli altri dovevano arrangiarsi con quel che riuscivano a raccattare. Non come oggi. Per cui la brama di accaparrarsi quanto a disposizione fomentava rivalità e complotti e tradimenti: la felicità, spiega con dovizia di esempi Baldi, in epoca arcaica consisteva nel possesso: di potere, ricchezze e forza e doti fisiche e di bellezza, in ordine decrescente.

Il desiderio di accrescerla e il timore di vedersela sottrarre erano la causa di gran parte dei dolori. E dei conflitti. A volte bastava una donna a scatenare disastri, ma sotto c’era sempre e comunque lo zampino di qualche divinità. L’abbondanza di cibo e di ricchezze, il numero dei servi, la possibilità di imporre il proprio arbitrio e l’accesso ai piaceri fisici erano il contrassegno della felicità. Altre forme non erano contemplate. Semplicità dei costumi, serenità, assenza di bisogni non indispensabili, non significavano niente. Allora. Chi scrutava nell’animo? Chi mai entrava nelle catapecchie? Poi pian piano le cose sono cambiate e Baldi ci illustra come, fino al primo grande cambiamento, che possiamo riassumere nei nomi di Socrate e Platone. Perché l’ago della bilancia della felicità si spostasse da fuori a dentro, dalla quantità (materiale) alla qualità (sempre in qualche modo spirituale) ci sono voluti secoli e secoli.

Poi le filosofie ellenistiche e infine il cristianesimo portano questo processo di interiorizzazione a compimento e tutto cambia. Ma ora anche il cristianesimo si sta eclissando, si fa un altro giro e le cose, per molti, tornano come prima. C’è un complotto malvagio, una serie di complotti architettati da uomini malvagi, ma tutti riconducibili a uno, il capitalismo, un dio crudele, il demonio. L’uomo. (Il genere umano.) E si ricomincia.

Il successo planetario della bestemmia sta a testimoniare la florida sopravvivenza della credenza. Avere qualcuno a cui attribuire anche il più piccolo incidente è molto salutare. Non c’è bisogno di un intero consesso di divinità. Anzi, dal punto di vista della bestemmia il monoteismo è molto economico. Un solo colpevole, o al massimo la ristretta cerchia famigliare, è un bel vantaggio: il responsabile è subito scovato; l’accusa diretta e immediata. Noi siamo assolti.