Mi bruciava ancora
gli occhi la luce blu che avevo fissato per tutta la sera per non guardare la
fila delle bottiglie sottostante e, dietro, fatta a pezzi nello specchio, la
mia faccia. All’uscita dal locale la luce, che sfumava al rosa verso i margini,
si era ristretta a una lama che mi tagliava le pupille, dividendo il mondo in
due piani sovrapposti, che a causa sua non riuscivano a coincidere esattamente
come avrebbero dovuto. Le due metà vivevano ciascuna per conto proprio, come se
non avessero mai avuto niente in comune, e io spostavo l’attenzione dall’una
all’altra senza nemmeno pensare alla possibilità di fare qualcosa per colmare
lo spazio che le separava e ricostruire in modo plausibile la striscia
slabbrata che la lama aveva inciso e rimosso; per suturare la ferita, che
peraltro non percepivo come tale.
Mi muovevo
spostando l’attenzione dall’universo di sopra, che mi sembrava più
interessante, a quello di sotto solo quando un piede incontrava un ostacolo o
poggiava male sul selciato sconnesso. Vedevo le persone senza testa, al
contrario di ciò che accade di solito quando, a causa della mia altezza e dato
che cammino guardando sempre fisso davanti a me, senza chinare il capo o
prestare attenzione a ciò che mi sfila accanto, scorgo solo frammenti di teste:
capelli, una fronte, a volte due occhi e solo raramente il cranio intero. Ieri
sera, invece, non vedevo niente: le teste erano tutte scomparse, la luce blu le
aveva ghigliottinate, inghiottite nel suo buio.
Ogni tanto
incocciavo in qualche corpo che non riusciva a evitarmi, ingannato dai miei
movimenti incerti, persi più in alto, forse ondeggianti per l’alcol. Allora
allungavo le mani alla cieca e spingevo violentemente da parte, contro il muro
o un’auto parcheggiata sul marciapiede, il malcapitato, che non reagiva e,
presumo, se la filava velocemente imprecando dentro di sé. Di solito mi muovo
lentamente, in linea retta, e ci pensa la gente a scansarsi, anche nei luoghi
più affollati e a costo di urtare qualcun altro. Sono grosso e non ho l’aria
conciliante, come ha provato a dirmi una volta, con parole sue, un tizio, prima
che un ceffone lo facesse volare di traverso. Ho la faccia spigolosa, scura
anche di pelle. Vesto come vesto, con quello che ho raccattato o che mi è
rimasto dai tempi passati, e non mi lavo spesso. Dove dormo da qualche tempo,
non c’è acqua corrente e non sempre ho i soldi per un bagno. E quando ne ho
preferisco usarli per altro, più urgente o importante.
Vedevo la strada
poco trafficata allungarsi verso una piccola nube gialla in fondo e, ai lati,
file di auto parcheggiate e alcune chiome di alberi senza tronco. Ho camminato
così per un’ora, con lo sguardo concentrato sulla nube come in attesa che si
diradasse rivelando che cosa nascondeva, ma la strada non sembrava finire né la
nube diradarsi o avvicinarsi. Sentivo le gambe stanche e la bocca secca, la
laringe insabbiata su fino all’attaccatura del naso, quasi che una piccola
galleria le collegasse, una galleria appena scavata, con i bordi ancora
arroventati dall’attrito della trivella. Quando, qualche metro più avanti, ho
scorto una figura uscire da un’auto lasciata accesa in seconda fila per entrare
in una tabaccheria sulla destra, senza pensarci ho raggiunto di corsa la
portiera, l’ho aperta, ho ingranato la marcia e sono filato via.
Della donna mi
sono accorto dopo, quando doveva gridare già da un bel po’, concentrato com’ero
a lanciare la vettura a tutta velocità e con la musica dello stereo a pieno
volume, robaccia americana con un tizio incazzato che, lui pure, urlava
piuttosto convinto la sua, non so cosa: certamente una di quelle che i neri
americani si fanno un punto d’onore di non sopportare e che a me non
interessano affatto. Neri e americani sono e neri e americani restano.
Ho rallentato, ho
spento lo stereo e ho guardato la donna, che di colpo ha smesso di starnazzare
e si è convertita a un lamento sommesso, farfugliando solo « Per pietà… per pietà…» ogni volta che piegavo il capo verso di
lei. Allora ho frenato e le ho fatto segno di scendere, ma lei ha ripreso ad
agitarsi, a chiamare aiuto, e quando mi sono chinato per aprire la portiera
dalla sua parte ha pure accennato a graffiarmi, ragion per cui non mi sono
fatto scrupoli a afferrarle un braccio e a scaraventarla fuori, con la sua
borsetta stretta al ventre per proteggerlo. O per proteggere la borsetta.
Nessuno dei due mi interessava.
Avevo già i miei
problemi a districarmi nel traffico, anche se rado, per via della lama negli
occhi che mi obbligava a guardare lontano o troppo vicino. Dovevo alzare il
capo, con la testa schiacciata contro il soffitto, e concentrarmi sullo spazio
di sotto se volevo vedere per intero almeno l’auto davanti a me, ma così
perdevo di vista la strada. Per un po’ mi sono limitato a seguire l’auto,
andando dritto quando andava dritto, curvando se curvava. Poi ho tastato a
fianco del sedile in cerca della leva per spostarlo, in modo da allungarmi e
assumere una posizione più comoda, ed è stato proprio allora che l’auto davanti
a me ha rallentato all’improvviso e io le sono finito addosso.
L’auto, grossa e
robusta, ha sbandato per qualche metro ma l’uomo alla guida è riuscito a
frenare mettendola un po’ di traverso senza urtare nessun’altra vettura, quindi
è sceso scagliandosi come una furia verso la mia, che per la botta si era
fermata. Ha aperto la mia portiera e ha preso a insultarmi ancor prima di
vedermi. E io, prima ancora di capire una sola parola, gli ho dato un pugno che
l’ha steso sull’asfalto. Un fuoristrada che sopraggiungeva e aveva rallentato
per quanto era successo, ma guardandosi bene dall’arrestarsi, ha sterzato con
un’accelerata e è schizzato via evitando il corpo di pochi centimetri. Io sono
sceso, ho dato qualche calcio al sacco di carne per terra, ho raggiunto la sua
auto e sono ripartito con quella.
Lo sfogo dopo lo
spavento mi aveva messo di buon umore. Alla prima curva ho svoltato e mi sono
fermato per accomodarmi il sedile. Ho
guardato nel cassetto sulla destra e ho trovato una bottiglietta di cognac
ancora sigillata, l’ho aperta e ne ho scolato d’un fiato quasi metà. Sia
ringraziato il Signore onnipotente.
Quando ero ancora
a casa mia, da ragazzo, ho massacrato di botte un pio pancione che aveva messo
gli occhi su mia sorella: lei però non lo voleva perché era innamorata di un
mio amico. Io non capivo questa storia che era innamorata, ma non capivo
nemmeno che i nostri genitori le volessero far sposare il pancione, anzi
contentissimi che l’avesse chiesta in moglie; così cui una sera gli ho dato il
fatto suo, gli ho preso il portafogli gonfio e sono scappato. Mai sentito così
bene. Non l’ho ucciso, ma ho dovuto lasciare il paese lo stesso: con il mio
fisico non era facile nascondermi e quello mi faceva cercare. Forse se
l’ammazzavo era meglio. Prima di approdare qui ho fatto un giro lungo e molte
cose, che non mi sono tutte piaciute. Sono venuto qui perché c’era un mio
cugino, ma quando sono arrivato lui era sparito senza lasciare tracce. O almeno
nessuno me le ha indicate, né io le ho cercate. Affanculo anche mio cugino,
come dicono qui.
Adesso stavo
guidando questo macchinone, che si muoveva bene nonostante il baule sfondato.
Mi sono diretto verso la periferia, ho preso la tangenziale e ho girato in
lungo e in largo fino a che non ho terminato la benzina e il cognac. Il cognac
molto prima. Dire che lo bevevo per far sparire la luce blu sarebbe falso, però
lo speravo. E comunque, se la luce non si decideva a sparire, perlomeno mandavo
giù l’alcol, e questo mi piaceva.
Quando ho sentito
che il motore si spegneva, ho accostato sulla corsia di sicurezza, ho
perlustrato l’interno alla ricerca di qualcosa che potesse servirmi (un
pacchetto appena aperto di sigarette, un accendino di plastica, una confezione
di fazzoletti di carta e qualche spicciolo; una miseria in rapporto al lusso
del macchinone, ma qui sono così: prima l’auto, poi tutto il resto; scommetto
che l’ometto la stava ancora pagando) e
mi sono incamminato nella direzione di marcia, con le macchine che mi sfrecciavano
accanto strombazzando ogni volta che la mia andatura, non so perché, mi faceva
deviare verso sinistra senza che me ne accorgessi.
La
tangenziale faceva un’ampia curva, quasi impercettibile, e io fissavo, nel
mondo di sopra, delle luci che mi sembravano quelle di un distributore con
annesso autogrill o bar. Arrivato nel piazzale ho atteso appoggiato al muro
dietro il bar, fumando una sigaretta dopo l’altra, che qualcuno si fermasse.
Quando una monovolume ha parcheggiato, ho finto di dirigermi verso la porta
avvicinandomi piano all’autista, l’ho preso per il collo della camicia, gli ho
mollato due pugni, uno in pancia e uno in faccia, e l’ho trascinato, svenuto,
al buio. Ho frugato le sue tasche, ho preso il portafogli e le chiavi
dell’auto, l’ho raggiunta e sono partito. Al primo svincolo sono uscito dalla
tangenziale per tornare in città, ma ho imboccato la curva a velocità troppo alta,
almeno per la mia visuale e quindi per le mie capacità di controllo, e sono finito con la fiancata
contro il guardrail, che mi ha accompagnato per una ventina di metri finché non
sono riuscito a focalizzare la parte bassa della strada e a riprendere il controllo
della vettura, ammaccata ma senza danni rilevanti. Bella macchina.
La notte era calda
ma non afosa, andavo piano con i finestrini abbassati e la testa chinata in
avanti per inquadrare la strada con lo sguardo di sopra. Il traffico sempre più
scarso mi permetteva di rilassarmi senza pensare a niente e ogni tanto di distrarmi
sbirciando i rari pedoni, le puttane quando ne incontravo e soprattutto se
c’era qualche locale ancora aperto. Al primo che ho incontrato mi sono fermato
e sono entrato a bere un paio di birre gelate. Al banco era seduta una donna
che mi ha ammiccato, ma io non ho risposto, anche perché non sapevo quanti
soldi ci fossero nel portafogli. Quando l’ho preso per pagare, ho visto che
c’erano abbastanza liquidi da comprarmi una bottiglietta di whisky e che ne
avanzavano anche per la donna, volendo. Solo che in quel momento non lo volevo:
l’idea mi ha raggiunto lentamente dopo che ho ripreso a girare in auto, ma
allora non sono più riuscito a togliermela dalla testa.
Mi sono diretto
verso le strade dove avevo incrociato delle puttane, ne ho passato in rassegna
alcune con lo sguardo di sotto e alla fine ne ho scelta una bianca, slavata e
sottile, una che avrei potuto facilmente spezzare, volendo. L’ho montata
davanti e poi, non sazio, da dietro, e avrei voluto farlo ancora, se quella non
avesse insistito prima a farsi pagare. I soldi che avevo bastavano appena per
le due già fatte e quella non intendeva farmi nessuno sconto. Allora lo sconto
me lo sono fatto da solo: le ho dato meno di quanto pattuito, perché sentivo il
bisogno di un altro paio di birre, e con uno spintone l’ho scaraventata fuori
dall’auto, dicendole di ringraziare il cielo di quello che le avevo concesso.
Lei mi ha rincorso urlando maledizioni e io l’ho lasciata dire: andavo
sufficientemente piano da non distaccarla, ma non abbastanza perché mi
raggiungesse. Infine, ridendo, ho sgommato e sono andato via.
Quando montavo la
puttana, per via della lama e della mia statura, era come se lei non ci fosse:
o non la vedevo o focalizzavo solo dei frammenti dell’abito o delle braccia,
poco interessanti; sentivo il rumore dell’auto provocato dai miei movimenti e
quelli, professionali, emessi dalla ragazza, incluse alcune mezze frasi che non
capivo, e in certi momenti percepivo vagamente lo straccetto di carne e ossa
del suo corpo che, mentre pompavo, mi veniva l’impulso di accartocciare e
gettare via. Dopo ero tutto accaldato, anche per l’alcol che avevo in corpo, e
ho continuato a sudare nonostante i finestrini abbassati. Mi era tornata la
sete e quando ho trovato un chiosco aperto dalle parti dello stadio, ho speso i
soldi che mi erano rimasti per tre lattine di birra ghiacciata, che ho scolato
una di seguito all’altra stando seduto in auto.
Vedevo con lo
sguardo di sopra il piazzale dello stadio illuminato, enorme e vuoto,
punteggiato da alberi che in proporzione mi sembravano minuscoli. Mi sentivo
bene e mi è venuta voglia di urinare. Sul lato destro, lungo un viale
costeggiato da una linea del tram, gli alberi erano più grandi e più invitanti,
li ho raggiunti in auto, sono sceso lasciando il motore acceso e ho aggirato un
albero in modo da poter sbirciare il piazzale mentre mi svuotavo. Quello spazio
aperto mi affascinava, mi ricordava qualcosa, ma avevo la mente troppo confusa
per ricordare esattamente che cosa. Non importa: averlo davanti mi bastava.
Stavo per finire
quando ho sentito la voce di una donna che diceva: «si vergogni!». Non le
ho badato e ho scrollato il pene per farlo sgocciolare prima di rimetterlo nei
pantaloni. Allora la donna, che nel frattempo si era avvicinata, si è rivolta
all’uomo che la accompagnava invitandolo a fare qualcosa. Cosa ci facevano in
giro quei due in un posto come quello, a piedi, a un’ora così tarda? L’uomo ha
sussurrato di lasciar perdere, che non ne valeva la pena. «Sei sempre il solito», ha ribattuto lei isterica. «Per te va sempre bene tutto, lasci
correre, lasci correre… sei diventato una mezza calzetta, un mezzo uomo, ecco
quello che sei diventato. E lei si vergogni!»
ha ribadito proprio nel passarmi accanto. Io vedevo solo i suoi piedi, ma la
voce è bastata a orientarmi e le ho rifilato un ceffone che l’ha fatta volare a
tre metri di distanza. L’uomo ha abbozzato una protesta: in un primo momento,
non so se per disprezzo o solidarietà, avevo pensato di risparmiarlo
limitandomi a uno spintone per salvargli la faccia, ma quando, chinata la
testa, mi è parso di vedere nei suoi occhi come un’espressione di gratitudine,
ho pestato anche lui.
Gliele ho date di
santa ragione, con una rabbia improvvisa uscita fuori da chissà dove, senza
riuscire a fermarmi, finché non ho sentito la donna che mi supplicava di
smetterla, di avere pietà, a qualche metro di distanza. Mi sono voltato dalla
sua parte senza vederla, sono rimasto lì, immobile e in silenzio, per qualche
attimo, e me ne sono andato. Non so perché, ma mi è tornato in mente quando
facevo il muratore. Lavoravo in nero, guadagnavo bene e non sentivo la fatica.
L’unico problema era rispettare gli orari, ma una volta in cantiere continuavo
tutto il giorno e mi divertivo anche, con i compagni che passavano a prendermi
sulla strada ogni mattina con il loro pullmino. Me la passavo bene, abitavo con
altri compaesani, i soldi non mi mancavano, tanto che ne potevo spedire una
parte a casa, e nemmeno le donne.
Non fosse stato
per il capocantiere sarei andato avanti così anche per sempre, volendo. Il
capocantiere aveva l’abitudine di sfogare certi suoi problemi famigliari
trattando con i piedi il primo che gli capitava sotto tiro, cioè tutti, a
turno, escluso il sottoscritto, che evitava accuratamente. Finché un giorno,
forse sovrappensiero, se l’è presa anche con me, andandoci pesante, tra i
risolini dei miei compagni, non so se diretti a lui o a me. Io guardavo sopra
la sua testa e facevo finta di non sentire, ma più restavo fermo, più quello mi
urlava di lavorare, aggiungendo altre considerazioni personali. Se ho ben
capito, non trovava il mio livello intellettuale adeguato alla professione e
credo abbia espresso anche qualche apprezzamento sulla mia terra d’origine e su
tutto il mio parentado, che pure è piuttosto ampio.
Quando si è
accorto che il bersaglio odierno ero io e che avevo deposto il badile per
avvicinarmi a lui, le parole gli si sono strozzate in gola e s’è messo a
tossicchiare, che era il suo modo per chiedere scusa, forse; se non che io
avevo già iniziato a muovermi e non potevo più fermarmi: così l’ho pestato per
bene, con calma e metodo, tra gli applausi silenziosi dei miei amici. Sono
stati loro, in quattro, a fermarmi e spingermi via, consigliandomi di non farmi
più vedere. Il capocantiere non mi ha denunciato, per paura di ispezioni, ma io
ho perso il lavoro e non sono riuscito a trovarne un altro in zona, perché si
era sparsa la voce. Del resto, mi era piombata addosso una stanchezza
improvvisa e qualche soldo l’avevo messo da parte. Allora ho cambiato città.
Sono venuto in
questa città, più grande, per nascondermi meglio e convinto che avrei trovato
più facilmente da sopravvivere. Ho trovato da dormire qualche giorno dopo, su
indicazione di un compaesano che abitava in un caseggiato abbandonato, occupato
da decine come me che resistevano da mesi a ogni tentativo di farli sloggiare,
appoggiati da giovinastri del posto che offrivano una solidarietà di cui
nessuno sentiva il bisogno. Ma già che c’erano, ogni tanto qualcuno ne
approfittava, anche se spesso a provocare le incursioni della polizia erano
proprio loro. Soprattutto qualche femmina era particolarmente generosa, a
volte: non erano granché, ma a caval donato non si guarda in bocca. Troppo
magre e, secondo alcuni, non del tutto sane, ma quanto a questo ci pensavano
loro a prendere le dovute precauzioni (forse pensavano che anche qualcuno di
noi non era del tutto sano).
Un giorno la
polizia è arrivata in forze e abbiamo dovuto sloggiare. Prima c’è stata una
mezza battaglia, alla quale io non ho partecipato, perché quel mattino sono
tornato tardi; quando ho visto lo schieramento, non ho nemmeno cercato di
entrare. Avevo fatto tardi per via di uno di quei lavori ai quali avevo dovuto
adattarmi anche se non mi piacevano. Me lo aveva trovato uno che non abitava
lì, ma che uno che abitava lì conosceva. Non mi piaceva nessuno dei due, però
guadagnavo bene. Tanto più che spendevo poco.
Mi ero rivestito
da capo a piedi e così conciato non mi è stato difficile trovare un nuovo
lavoro, all’ortomercato. Siccome si cominciava a lavorare presto e c’era molto
spazio, con la scusa di fare un po’ da sorvegliante e visto che sono grande e
grosso, dopo qualche tempo sono riuscito a convincere il mio capo a lasciarmi
lì a dormire la notte, in un sacco a pelo da cui sporgevo a metà, su una
brandina pieghevole che di giorno nascondevo in un ripostiglio. Non so come, ma
quelli per cui lavoravo prima mi hanno trovato quasi subito e hanno cominciato
a chiedermi dei favori: roba semplice, tipo dare dei pacchi ai camionisti o
ritirarli in attesa che loro passassero a prenderli, di notte o anche in pieno
giorno, confusi nel viavai di mezzi e facce di ogni tipo. Posso sospettare cosa
contenessero, ma non mi sono mai preso la briga né di chiedere né di
controllare. In cambio mi hanno procurato dei documenti appena un po’
modificati di uno regolare che era sparito tempo prima, più qualche guadagno
supplementare. In seguito, grazie ai documenti, ho aperto perfino un conto
corrente. Poi, come se niente fosse, da un giorno all’altro, sono spariti tutti
anche loro.
Ogni tanto non si
trattava di pacchi ma di veri e propri contenitori in legno piuttosto pesanti
che scaricavo e ricaricavo con il muletto. Quando gli amici arrivavano, il mio
capo faceva in modo di non essere mai sul posto e nessuno mi toglie dalla testa
che per qualcosa c’entrava pure lui, oltre che, ovviamente, i camionisti che
nascondevano tutto quel po’ po’ di roba tra le casse di arance, mandarini,
mandorle, carciofi, pomodori e compagnia bella. Un giorno è arrivata
un’ispezione a sorpresa e il mio capo è stato trattenuto a lungo in questura o
non so dove altro. Il mattino dopo era sorridente ma piuttosto scosso: da
allora di pacchi e scatoloni e excompari non ne ho più visti. Comunque, dopo un
po’ me ne sono andato anch’io.
Il fatto è che mi
ero messo con una del posto e che da qualche mese non mi fermavo più a dormire
se non quando comandato. Le cose con la donna andavano bene, perché i nostri
orari non coincidevano e potevamo continuare con le nostre vite separate e lei
non faceva storie ogni volta che mi veniva voglia di montarla. Anzi, sembrava
che non aspettasse altro. Non era speciale, quanto a bellezza, ma a letto mi
lasciava fare quello che volevo senza mai lamentarsi, tutt’altro… Una vera
troia insomma. Trovarne così! Invece è stata l’unica. Finché anche con lei
qualcosa non ha tardato a guastarsi e io ho cominciato a picchiarla, senza
esagerare, ma abbastanza, secondo lei, perché un giorno mettesse in pratica la
minaccia di denunciarmi. Così son dovuto andar via anche da lì.
Nel frattempo
avevo lasciato il lavoro e di cercarne un altro mi era passato l’estro. Passavo
le giornate senza combinare niente, se non qualche cosuccia per fare un favore
a questo o quell’amico, fino a quando non ho esaurito quasi tutti i risparmi.
Mi ero anche abituato a bere roba forte e buona e non ho più smesso, a seconda
delle possibilità: sempre roba forte, ma sempre meno buona. Quello che potevo
permettermi insomma. La carità non l’ho mai chiesta.
Una notte che
camminavo ai bordi di una strada di periferia dove avevo trovato un rudere in
cui dormire, un tizio in auto prima mi ha strombazzato all’improvviso alle
spalle, facendomi sobbalzare, e poi ha sterzato come per investirmi, forse per
divertirsi, per dare un taglio alla noia con una bravata divertente. Io mi sono
gettato contro il muro e ho rivolto un segno di minaccia contro l’auto che si
allontanava. Il gesto non deve essere piaciuto al conducente, perché ha frenato
bruscamente e è tornato in retromarcia verso di me, cercando di schiacciarmi
contro la recinzione di cemento alla mia destra. Con un salto all’ultimo
momento mi sono aggrappato al colmo della recinzione e mi sono tirato su, di
modo che il paraurti è finito contro il cemento e si è ammaccato. Quando ho
mollato la presa e sono tornato a terra, il ragazzone al volante è schizzato
fuori dall’auto assieme all’amico che gli sedeva accanto. I due avevano in mano
delle catene e ridevano.
Mi sono preso dei
colpi piuttosto dolorosi, ma alla fine sono riuscito ad avere la meglio, e
allora mi sono sfogato con gli interessi, tanto da lasciarli privi di sensi ai
bordi della strada, rotti e insanguinati, forse morenti, non lo so e non mi
interessa. Prima di lasciarli, però, li ho ripuliti di tutto quanto potevo
portargli via: orologi, soldi, telefonini, sigarette, accendini, bustine di
stagnola, un coltello a serramanico che il proprietario non era stato
abbastanza furbo da usare, e le chiavi dell’auto con la quale me ne sono
andato. Ero avvilito e euforico. Sono tornato in città e mi sono messo a girare
finché non ho trovato qualcuno a cui svendere tutto quello che non mi serviva,
inclusa l’auto, e mi sono preso una stanza in un alberghetto. Vi sono rimasto
un paio di giorni, il tempo di ripulire me e gli abiti, di comprare un cambio
di biancheria al mercatino rionale e di farmi lunghe dormite e una puttana.
Di questo episodio
non ho fatto tesoro sul momento, perché con i soldi raggranellati ho potuto
permettermi di rimanere in città per un po’. Sono tornato nei vecchi posti e ho
riallacciato vecchie conoscenze, che tra l’altro mi hanno trovato un lavoro da buttafuori
in un locale, da cui però sono stato cacciato dopo qualche settimana per
eccesso di violenza. Approfittavo di ogni minima effrazione alle consegne per
lanciarmi sui ragazzotti più esuberanti o sbruffoni. Se non stavano in riga, ci
pensavo io a fare ordine, soli o in gruppo che fossero. Non ce n’era uno che mi
fosse simpatico. Anche con le vecchie conoscenze faticavo ad andare d’accordo,
mi parlavano di cose nuove, di imprese epiche, guerre e vendette che per me non
significavano niente, e questo li offendeva profondamente, a quanto sembrava.
Allora hanno cominciato a guardarmi con sospetto e io ho pensato bene di
sparire un’altra volta.
Così mi sono
trovato di nuovo per strada, ed è stato allora che mi è venuto buono il ricordo
dell’aggressione. Quando proprio non avevo altre risorse, potevo sempre
prendermele. A volte non c’era nemmeno bisogno di muovere le mani: bastava la
mia presenza e la minaccia verbale. Aspettavo un passante solitario in qualche
posto buio, lo afferravo per il bavero o per il braccio e gli intimavo di darmi
il portafogli, il cellulare e quant’altro. Qualcuno provava a protestare, ma
bastava un pugno nel ventre o una sberla, se donna, per ridurlo alla ragione.
In fondo la maggior parte della gente è vigliacca e alla sola idea di qualche
botta quasi tutti calano le braghe. Poi magari sopportano le peggiori
umiliazioni senza battere ciglio e affrontano le malattie più gravi con un
coraggio insospettato. Ma l’idea di essere picchiati a sangue, quella non la
reggono, chissà perché. E’ solo carne molle, inutile. Meglio per me, comunque.
Ma non si trattava
solo di reperire di che sopravvivere: se uno vuole e si accontenta, da queste
parti ci riesce senza troppi sforzi e senza nemmeno dover fare chissà che di
irregolare; il fatto è che a un uomo di solito sopravvivere non basta. Quando
lavoravo più o meno regolarmente avevo frequentato scuole dove insegnavano a
scrivere e altre belle cose utili, anche per sapere cosa evitare, o luoghi di
incontro messi su da gente piena di buone intenzioni, e c’erano sempre signore
molto gentili e spesso sole dalle quali non era difficile ottenere compagnia. A
una, una semibalena stordita e entusiasta, davo addirittura la mia biancheria
da lavare e lei me la riportava puntuale stirata e profumata: si vedeva che non
lo faceva proprio volentieri, ma aveva vergogna a dire di no e io facevo finta
di non accorgermene. Con altre si riusciva a ottenere anche di più, una o due
volte, ma erano di solito vecchie o sposate. Non il massimo, ma sempre meglio
di niente.
Quello che mi
faceva imbestialire, anche se mi trattenevo, era che dopo piangevano. Se facevo
la pantomima di forzarle, invece, si sentivano meglio, perché così la colpa
ricadeva su di me e potevano evitare di riversarla su se stesse. Non che per me
facesse differenza: anzi, se potevano manifestarmi il loro odio era più facile
che si concedessero ancora. Io all’odio non ci faccio caso, mi rimbalza
addosso; e poi quello era un odio annacquato, gentile a modo suo, quasi tenero.
Più tardi mi sono ricordato di queste manfrine e non mi sono fatto scrupoli a
forzare qualche giovincella reticente che intercettavo in luoghi isolati, o
raccattavo fuori dai locali notturni o con l’auto, quando riuscivo a
procurarmene una. Alcune piangevano anche mentre lo facevamo, altre prima e
dopo, altre ancora solo prima. La cosa più difficile da interpretare era quando
non dicevano niente, ammesso che interpretare il loro silenzio mi importasse.
Il pianto invece mi eccitava.
Così, quando la
donna ha cominciato a supplicarmi di smettere di picchiare l’ometto al quale
fino a pochi istanti prima aveva ritenuto opportuno illustrare tutte le
sfumature del suo disprezzo, a supplicarmi e a piangere, mi è venuta voglia di
montarla. In un primo momento ho pensato di farlo lì, contro una pianta, con
l’uomo che rantolava ai nostri piedi, ma siccome la cosa veniva scomoda e c’era
il rischio che l’uomo si riprendesse, l’ho presa per il braccio e l’ho
trascinata verso l’auto ancora accesa.
È stato allora che ho
visto le luci di una gazzella della polizia dall’altra parte del piazzale.
Muovevo la testa velocemente e passavo da sotto a sopra, con lo sguardo, in
modo incontrollato, così che a un certo punto mi è parso di vedere non una, ma
tante gazzelle che si dirigevano verso di me. Ho spinto a malincuore la donna
in mezzo alla strada, sono balzato in auto e sono partito a tutta birra. Ma la
lama blu mi segava ancora gli occhi e non riuscivo a vedere bene la strada.
Allora ho deciso di entrare nel vuoto del piazzale e attraversarlo a tutta
velocità. Effettivamente alla prima gazzella se n’era aggiunta un’altra sbucata
da una via vicina e entrambe venivano verso di me da direzioni differenti. Io
mi sono messo a zigzagare tra gli alberi e i lampioni del piazzale, non ci
vedevo bene e correvo il rischio di sbattere contro uno di essi da un momento
all’altro. La sbornia ormai l’avevo smaltita quasi del tutto, ma la lama ancora
conficcata negli occhi, sottile, e il rumore delle sterzate che mi rimbombava
in testa mi impedivano di ragionare.
Le due gazzelle mi
erano sempre più vicine, a momenti mi seguivano in fila, in altri una mi
affiancava o mi tagliava la strada. Non sapevo cosa fare, i miei inseguitori
erano più veloci e più bravi nella guida, non sarei mai riuscito a seminarli;
così ho provato a sbarazzarmene puntando direttamente su di loro. Quando quella
che ogni tanto cercava di bloccarmi tagliandomi la strada mi si è messa
davanti, invece di frenare ho accelerato e l’ho colpita nella portiera
posteriore. Si è girata su se stessa e è andata a sbattere con la fiancata
contro un albero, ma quella era un’auto robusta e è ripartita subito. Io ho
sterzato a destra, ma il rallentamento dovuto all’urto ha permesso all’altro
inseguitore di ripiombarmi addosso e di urtarmi a sua volta. Anche la mia auto
allora ha preso a girare su se stessa finché non si è fermata lei pure contro
un tronco e il motore si è spento. Ho provato a farlo ripartire ma non
rispondeva, così sono sceso e invece di mettermi a correre mi sono appoggiato
al cofano bollente.
Le gazzelle si
sono fermate, come prescritto, una a destra e una a sinistra, in diagonale, per
precludermi la fuga, poi ne sono usciti tre poliziotti con le armi in pugno,
mentre un quarto probabilmente comunicava qualcosa alla radio. Mi hanno
ordinato di voltarmi verso il cofano con le mani alzate; io invece mi sono
scagliato contro quello isolato, un ragazzo dall’aria impaurita, e l’ho colpito
con una ginocchiata ai testicoli e con un pugno al volto in rapida successione.
È volato indietro lasciando partire
un colpo per aria prima di accasciarsi al suolo, ripiegato su se stesso come un
feto. Gli altri due sono rimasti basiti per la mia reazione e hanno avuto un
attimo di indecisione; questo mi ha consentito di raggiungerne uno e di
sferrargli un pugno che gli ha spiaccicato il muso. Soltanto allora l’altro si
è deciso a spararmi.
Ho sentito la
pallottola entrare nella mia carne e contrastare per un attimo con la sua
spinta la mia, senza riuscire a frenarla del tutto. Poi una seconda e una terza
mi hanno trapassato il fianco, sparate da terra dal compagno. Una luce nera mi
è calata di colpo sugli occhi e la vista mi si è spenta, ma è subito
ricomparsa, nitida e uniforme, e mentre crollavo, in un tempo rallentato che mi
è sembrato infinito, ho potuto girare la testa a guardare il deserto luminoso
del piazzale. Bellissimo, ho pensato, contento
della mia fine.
Invece quegli
imbecilli non sono nemmeno stati capaci di ammazzarmi.