Uno ha l’umore
di traverso, tra lo stordito e l’abbattuto, perso da qualche parte su questo
sentiero oggi affollatissimo, o con entrambe le magagne, nella pienezza al
contempo dello stordimento e dell’abbattimento, e non ha voglia di fare nient’altro
se non abbandonarsi alla sua virtù discenditiva, e meno di tutto leggere, e
però, come ultima consuetudinaria forma di resistenza, legge lo stesso, e va avanti per qualche
pagina senza capirci un’acca, cioè ancora meno del solito, risicato, miserello,
ma poi, per puro caso, si imbatte in una frase di Gadda capitata su una pagina
imprevista, e tutto cambia, il peso sparisce, si vaporizza e sparisce, una
lucina si accende e lui, sorpreso, ride. E si accorge, a ritroso, che
qualcosina capito senza saperlo l’aveva. E “la c’è la provvidenza”, si dice, “lo
vedi?”. Sì, sì, la c’è… Nella lingua.
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
30/09/18
29/09/18
Italofonocentrico (appunti per niente 2)
Giusto per non essere italofonocentrico
Non so voi, ma io quando sento le parole polisillabiche inglesi, rispetto al
ritmo medio di quella lingua, ho l'impressione che siano stonate, fuori
registro, un po' ridicole. Quelle tedesche invece, specie quelle composte come
tante costruzioni Lego, le avverto, chiedo venia al grande popolo e
all'infinita cultura germanica, come altrettanti sforzi di uno stitico sulla
tazza. Inutili peraltro. Non azzardo paragoni con quelle polacche e slave, i
cui agglomerati e picchi consonantici mi suscitano a volte fitte intercostali.
Altre invece svenimenti per asfissia. Invece adoro quelle finlandesi
(praticamente tutte, credo) perché mi danno l'idea di gente che se ne sta in
silenzio, da sola, a rimuginare in un paesaggio sconfinato di laghi e boschi e neve, per
alcuni mesi, mentre per il resto se ne sta al chiuso, in compagnia, ma con
poche cose da dire, e sempre quelle, e allora se la prende comoda, e per
variare, introdurre sfumature, fare battute, infilza catene interminabili di
sillabe e suoni elementari, molto limitati, come lallazioni in cui tutto cambia
se raddoppi o triplichi o cambi di posto a una delle sillabe basiche, e per gli
ascoltatori è un gran divertimento starle a contare o badare a dove è una e
dove e quante volte torna e così per le altre, oppure fingere di seguire e
ascoltarle come se fosse una ninnananna, che tanto è lo stesso, e addormentarsi
sereni accanto al fuoco, ronfando come gatti.
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L'immagine non c'entra molto, ma mi piaceva metterla. Del resto anche certe lingue del becco d'anatra e dintorni non lesinano sulle sillabe...
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L'immagine non c'entra molto, ma mi piaceva metterla. Del resto anche certe lingue del becco d'anatra e dintorni non lesinano sulle sillabe...
25/09/18
Lo scoiattolo e i curiosi
C'è uno scoiattolo morto in mezzo alla strada. Due pensionati, uno con cappello floscio bianco da pescatore, l'altro con la pancia, si fermano a guardarlo. Uno si avvicina, con le mani dietro la schiena. Non è un topo, fa. È uno scoiattolo. E si china, sempre con le mani dietro la schiena, a scrutarlo meglio. Il pelo mosso dal vento, la testolina schiacciata... Bisognerebbe tagliargli la coda, dice l'altro prudentemente rimasto sulla ciclabile.
Accelero il passo.
20/09/18
La TV dei morti
Mi è venuta un'idea per un network
televisivo monotematico, oggettivo, aperto a tutto e a tutti, interattivo,
senza pubblicità di alcun tipo e di pura informazione. Si potrebbe cominciare
da un teletext che trasmette, in tempo reale (o in leggerissima differita, per
ragioni tecniche), i dati essenziali di tutti coloro che muoiono, per qualsiasi
causa, a partire da quelle naturali, in qualsiasi parte del mondo, ma senza
separazioni per luogo o lingua: tutti in fila, uno dietro l'altro, nella
sequenza esatta, se non della morte, della sua segnalazione, secondo regole
standard assolutamente non modificabili, in perfetta orizzontalità (chiedo
scusa) e democrazia; teletext a cui andrebbe affiancato quanto prima un altro
dedicato a tutti gli animali domestici o addomesticati, inclusi quelli
soppressi o macellati, di cui specificare nome, se ce l'hanno, età e luogo e
modo del decesso, come per i loro amici o padroni o esecutori o sfruttatori
umani; a cui seguirà poi, con il tempo, tutta una serie di pagine con l'elenco
di tutti gli esseri viventi che via via scompaiono, magari suddivisi per specie
o classi, loro, che scorrono a velocità supersonica, essi pure comunque corredati
di dati personali essenziali, ai quali aggiungere, avendo sufficiente personale
adeguatamente addestrato e un minimo di capitali, che però non verrebbero da
pubblicità o altro, anche se il concorso di imprese funebri per la segnalazione
istantanea dei dati almeno all'inizio credo che sarebbe indispensabile e allora
non si potrebbe evitare che almeno il nome dei fornitori possa comparire,
un'altra serie di pagine dedicate ai vegetali, a loro volta suddivisi per
categorie fondamentali, anche se dare un nome a ogni filo d'erba o microbo
potrebbe essere piuttosto complicato, a meno che non si adotti qualche modello
di classificazione astratta, con lettere di vari alfabeti in tutte le loro
combinazioni, purché impronunciabili e non confondibili con parole compiute di
nessuna lingua, seguito da un numero che si creerebbe autonomamente al momento
dell'inserimento del nuovo dato, fino a coprire ogni essere di ogni specie
vivente, anche se a molti non ci sarebbe nemmeno il tempo di insegnargli le
procedure più semplici perché hanno una vita così breve, ma così breve, che
morirebbero prima di apprendere alcunché; dopo di che, ma anche a opera in
corso, si potrebbe affiancare a queste pagine scritte, ciascuna con un suo
canale consultabile anche a ritroso con semplici comandi, per esempio da uno
che volesse sapere quando è morto un suo zio, o il criceto di un amico
australiano, o un cardo visto di passaggio in un prato ai margini
dell'autostrada o la zanzara che aveva magnanimamente allontanato dal suo
braccio senza schiacciarla o un raro moscerino della Patagonia, si potrebbe
affiancare, dicevo, tutta una serie di canali, satellitari come gli altri, mi
scuso per non averlo detto prima, tutti in chiaro e visibili in ogni parte del
mondo, quindi che rimbalzano da un satellite all'altro per coprire tutta la
superficie terrestre, in cui chiunque lo desideri possa dire, a caldo o in
forma più meditata dopo riflessione conforme alla tempistica del suo lutto e
della sua mente, qualcosa del suo o dei suoi morti o di quelli di ogni ordine e
tipo che in qualche modo lo hanno toccato, anzi questo no, questo dopo, se no
si fa confusione, in moduli commemorativi abbastanza elastici da permettergli
di esprimersi nei modi più consoni ai suoi sentimenti e pensieri e valori,
ovvero, per chi, per timidezza o altri deficit espressivi e cognitivi, trovasse
difficoltà a escogitare forme soddisfacenti di comunicazione personale, una
serie di gabbie preconfezionate dove inserire i dati del caso e l'opportunità,
se lo desidera o si sente in grado, di variare o aggiungere ciò che più gli
preme in questo o quel campo, con foto, disegni, registrazioni sonore, o
qualunque altra cosa possa a suo avviso meglio illustrare la personalità del
defunto e favorirne il ricordo, per qualità, intensità e durata; anche questo,
naturalmente, consultabile ogni momento, on demand, ma gratuito, come un
normale database, per rinfrescare la memoria, o semplice curiosità, ma anche
per qualche forma innocua di morbosità, innocua per la materia e per l'oggetto
o soggetto mi sembra chiaro, o per lavoro o come forma, quotidiana o periodica
o occasionale, di preghiera o commemorazione o rito, per chiunque e da chiunque
e in ogni modo e forma e tempo.
Ma non troppo elastico il modulo, perché
altrimenti uno comincia a parlare dei piatti preferiti del defunto, per
esempio, e già che c'è aggiunge la ricetta, poi mostra come realizzarla e apre
un rubrica di cucina, o di moda se le preferenze andavano a quel settore, e un
altro parla dei libri o dei film o delle canzoni per cui il morto andava matto,
e li mostra o legge o canta, e alla fine, senza contare che sarebbe facile
inventare passioni ad hoc e fare pubblicità a tutto vapore tanto per sfruttare
anche le potenzialità di questo settore, si tornerebbe a parlare dei vivi, e
solo dei vivi, e dei morti, semmai, solo in relazione ai vivi: in subordine; e
allora tutto va a farsi benedire, e i morti tornano a essere solo morti, con
storie sempre più brevi e dati sempre più striminziti, e alla fine più nemmeno
quelli, se non in casi eccezionali, come nelle tv normali, e poi diminuiscono
pure i nomi e spariscono vieppiù, come le pagine e i canali dedicati, sempre
più rari, con uno solo che sopravvive, o due o al massimo tre, per i patiti, i
malati, gli ossessi della morte, i fanatici della scomparsa e della
dissoluzione, o giusto per documentazione, per gli storici del presente e gli
etnologi del futuro: archivi di archivi di pratiche del tempo che fu, del morto
tempo andato, come al tempo andato appartengono i morti, escluso i nostri, e presto
anche quelli, e prima o poi, ma abbastanza presto comunque, comunque sempre
presto, anche noi. Sì, noi, io, sì; e non poi così male neppure così.
1- Fabrizio Plessi - Fenix DNA
2 - Nam June Paik- Neon-tv-sculpture
08/09/18
Scartare quasi tutto (appunti per niente 1)
La
prima cosa che si fa, praticamente, sempre, è scartare quasi tutto;
dichiararlo, più spesso in modo implicito che esplicitamente, insignificante;
cancellarlo, eliminarlo o, se proprio, lasciarlo sullo sfondo, indistinto, da
cui estrarlo quando serve, relegando qualcos’altro, al suo posto, nell’universo
del quasi nulla, salvo poi trovarsi, magari, senza parole o altre forme o
strumenti per nominarlo, usarlo, forgiarlo.
Lo
si riconosce, allora, come non conosciuto; lo si contraddistingue come non
distinto, non adeguatamente quanto meno, e però presente qui, ora, che reclama,
poiché l’hai estratto da dove stava, un nome, un uso o una forma in qualche
modo definiti, precisi. Almeno come tentativo, come esistenza provvisoria,
precaria, e però in quel momento e modo certa, solida, indubitabile, e quindi,
finché è lì e così, fuori dal tempo; o forse, meglio, come tempo incarnato,
solidificato, consolidato, inscalfibile.
03/09/18
Manganellate tramviarie (con piccola cinese e due mostre) - 2013
Sale
sul tram un signore sui settant'anni, se non più. Ha una faccia da topastro
manganelliana, la corporatura robusta anche se non debordante come l'originale,
le guance un po' meno gonfie, lo sguardo appena appena meno vivace: per il
resto ci siamo. Si avvicina al sedile dove sono accomodato un po' di traverso,
le gambe accavallate, e sto leggendo. Postura da gran signore. Ma c'è spazio.
Lui si installa di fronte senza guardarmi. Con la destra si regge al corrimano del
sedile davanti a me, mentre la sinistra impugna un bastone verso cui inclina
impercettibilmente il corpaccione. Alzo lo sguardo per vedere se qualcuno ha
intenzione di cedergli il posto, ma poiché nessuno si muove, mi offro io, che
sono il più anziano tra tutte le persone sedute nello scompartimento. Lui mi
ringrazia, ma rifiuta. Sedersi e poi alzarsi gli creerebbe più difficoltà che
stare in piedi. Le parole sono cortesi; il tono e lo sguardo tradiscono un
remoto fastidio. Mi pare. Fatto sta che quasi subito si sposta sul lato opposto
del tram, accanto a un tizio dai capelli grigiastri, lunghi e sporchi, con il
quale scambia un paio di parole prima di aggrapparsi all'asta verticale accanto
alla porta e guardare fuori per tutto il tragitto. Mi volta la schiena. Non mi
guarda più. Non vuole più vedermi. Immagino. Immagina la mia lieve paranoia. La
mia lieve tendenza a divagare, a costruir castelli, no: ostelli, no: baracche
in aria.
Lo
dimentico subito però. Perché leggo. Perché subito, con la coda dell'occhio,
vedo che sul corrimano, al posto della sua zampona, c'è ora una manina.
Appartiene a una ragazza cinese alta non più di un metro e mezzo, inclusi i
tacchi, in proporzione smisurati. A occhio, dovrebbe avere tra i sedici e i
venti anni. Hai i denti un po' storti e la pelle butterata, a differenza dell'amica
che le sta vicina, che l'ha translucida, di porcellana, come non è raro vederne
alle orientali. Un po' meno, ma allora splendida, alle centroeuropee e alle
slave. Quasi assente alle italiane. La pelle dei maschi non saprei. Non mi
interessa, chiedo scusa. Porta, la ragazza cinese (non dico cinesina perché è
un cliché, anche se stavolta sarebbe appropriato), dei succintissimi pants di
raso nero, con calze dello stesso colore, ma di pochi den (non coprenti e
spesse come se ne vedono tante ora che questi pants inguinali vanno di moda), un
giacchino bianco con intarsi di pelle e un collo di pelliccia sintetica, a
ciocche sfilacciate. Le dita sul corrimano hanno unghie french manicure a
motivi e ideogrammi chiari su fondo pure bianco, e non misurano più di
quattro-cinque centimetri; il che non le impedisce di tenere nell'altra mano uno
smartphone gigantesco nel quale parla senza pausa. Ma senza sbraitare. Con tono
mellifluo piuttosto. L'insieme è quasi attraente però. Sto leggendo un russo
che, proprio ora, parla delle donne di qualche paese che finisce in -stan.
Magari dipende da questo. (O solo da me: sto bene.)
Quando
mi alzo per scendere mi imbatto in Giuseppe D. N., il bravissimo studioso di
linee e colori, e moglie, sempre giovane. "Pensavo giusto a te poco fa;
che ti dovevo scrivere", mi dice. Io no. Però sono contento di vederli,
non solo perché Giuseppe mi fa i complimenti per il libro che mi ha chiesto di
inviargli qualche giorno fa. Mi stanno simpatici e è bello vedere come il tempo
passa bene, per loro.
Scendiamo
insieme. Due commenti sui rispettivi lavori e ci salutiamo. Mi dirigo verso
Palazzo Reale. C'è un sole tiepido, senza aria. Il cielo limpido. La gente
seduta sui gradini del Duomo è rilassata, gli altri camminano leggeri.
Alla mostra su Costantino (sì quello in trono:
l'imperatore) siamo dentro in 4 gatti. Pensare che ci sono cose splendide, che
vengono da posti che giammai uno ci va!
In quella di Picasso (che peraltro sono contento di aver visto, anche se dapprima pensavo di svicolarla) pascolano scolaresche di ogni genere e specie e età: ma tutti belli; e frotte di pensionati dall'aria smarrita, ma anche allegra, e attenta, e infine sfinita, ma insomma, ancora viva, per quanto ogni tanto ci fosse un sentore di pellegrinaggio, di atto dovuto, recupero tardivo di una giovinezza mancata. Almeno non si manca la vecchiaia! (Io ero uno di loro.)
Vedo, qui, in alcuni quadretti, colori che non
avevo mai conosciuto in Picasso. Chissà perché solo in opere di piccola taglia.
Lucidi, violenti, acidi. Invece di vedere nelle sue opere, come al solito, solo
le opere dei secoli precedenti, ora vedo anche quelle del secolo che è seguito.
Alla tredicesima sala raggiungo la soglia di saturazione percettiva per
quest'oggi. Mi siedo da qualche parte e chiudo gli occhi per un po'. Poi me ne
vado senza guadare più niente e nessuno.
Nell'ultima sala della mostra su Costantino mi ero
seduto su un divano e guardavo da lontano un quadretto con due santi e quattro
piccole formelle. Nel metterlo a fuoco: è un veneto, pensavo. Non granché, ma
neanche male, le due figure sopra. Direi che è un Cima da Conegliano. Appena
formulata l'attribuzione, mi sono fermato, stupito. Mi sono guardato da fuori e
dall'alto, sorridendo di questa vis attributoria, e più ancora della
spontaneità con cui si è manifestata, come un gioco, senza la minima spocchia.
Mi sono alzato per vedere da vicino: la targhetta diceva: bottega di Cima da
Conegliano!
Può essere che in qualche modo sia riuscito a
leggerla da lontano? (Non per sminuire le mie conoscenze, che sono discrete in
materia, ma non tali da farmi riconoscere autori "minori" da lontano.)
Può essere che Giuseppe D. N. avesse pensato a me proprio per avermi visto con
la coda dell'occhio senza aver registrato coscientemente il riconoscimento? Può
essere che la ragazza cinese sia entrata nella catena visiva dei pants neri con
calze nere di den diversi e che proprio questo l'abbia resa indirettamente attraente?
Sul treno, al ritorno, chiudo ancora gli occhi per
tutto il tragitto. All'andata avevo avuto un vistoso episodio di epistassi. Il
sangue sgorgava a fiotti. Forse questa perdita è stata all'origine della
giornata, del modo in cui ho visto le cose, del fatto che è stata buona. O
forse no. Anzi, di sicuro no. Intanto non perdo più sangue: e almeno questo è
un fatto.
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