Sale
sul tram un signore sui settant'anni, se non più. Ha una faccia da topastro
manganelliana, la corporatura robusta anche se non debordante come l'originale,
le guance un po' meno gonfie, lo sguardo appena appena meno vivace: per il
resto ci siamo. Si avvicina al sedile dove sono accomodato un po' di traverso,
le gambe accavallate, e sto leggendo. Postura da gran signore. Ma c'è spazio.
Lui si installa di fronte senza guardarmi. Con la destra si regge al corrimano del
sedile davanti a me, mentre la sinistra impugna un bastone verso cui inclina
impercettibilmente il corpaccione. Alzo lo sguardo per vedere se qualcuno ha
intenzione di cedergli il posto, ma poiché nessuno si muove, mi offro io, che
sono il più anziano tra tutte le persone sedute nello scompartimento. Lui mi
ringrazia, ma rifiuta. Sedersi e poi alzarsi gli creerebbe più difficoltà che
stare in piedi. Le parole sono cortesi; il tono e lo sguardo tradiscono un
remoto fastidio. Mi pare. Fatto sta che quasi subito si sposta sul lato opposto
del tram, accanto a un tizio dai capelli grigiastri, lunghi e sporchi, con il
quale scambia un paio di parole prima di aggrapparsi all'asta verticale accanto
alla porta e guardare fuori per tutto il tragitto. Mi volta la schiena. Non mi
guarda più. Non vuole più vedermi. Immagino. Immagina la mia lieve paranoia. La
mia lieve tendenza a divagare, a costruir castelli, no: ostelli, no: baracche
in aria.
Lo
dimentico subito però. Perché leggo. Perché subito, con la coda dell'occhio,
vedo che sul corrimano, al posto della sua zampona, c'è ora una manina.
Appartiene a una ragazza cinese alta non più di un metro e mezzo, inclusi i
tacchi, in proporzione smisurati. A occhio, dovrebbe avere tra i sedici e i
venti anni. Hai i denti un po' storti e la pelle butterata, a differenza dell'amica
che le sta vicina, che l'ha translucida, di porcellana, come non è raro vederne
alle orientali. Un po' meno, ma allora splendida, alle centroeuropee e alle
slave. Quasi assente alle italiane. La pelle dei maschi non saprei. Non mi
interessa, chiedo scusa. Porta, la ragazza cinese (non dico cinesina perché è
un cliché, anche se stavolta sarebbe appropriato), dei succintissimi pants di
raso nero, con calze dello stesso colore, ma di pochi den (non coprenti e
spesse come se ne vedono tante ora che questi pants inguinali vanno di moda), un
giacchino bianco con intarsi di pelle e un collo di pelliccia sintetica, a
ciocche sfilacciate. Le dita sul corrimano hanno unghie french manicure a
motivi e ideogrammi chiari su fondo pure bianco, e non misurano più di
quattro-cinque centimetri; il che non le impedisce di tenere nell'altra mano uno
smartphone gigantesco nel quale parla senza pausa. Ma senza sbraitare. Con tono
mellifluo piuttosto. L'insieme è quasi attraente però. Sto leggendo un russo
che, proprio ora, parla delle donne di qualche paese che finisce in -stan.
Magari dipende da questo. (O solo da me: sto bene.)
Quando
mi alzo per scendere mi imbatto in Giuseppe D. N., il bravissimo studioso di
linee e colori, e moglie, sempre giovane. "Pensavo giusto a te poco fa;
che ti dovevo scrivere", mi dice. Io no. Però sono contento di vederli,
non solo perché Giuseppe mi fa i complimenti per il libro che mi ha chiesto di
inviargli qualche giorno fa. Mi stanno simpatici e è bello vedere come il tempo
passa bene, per loro.
Scendiamo
insieme. Due commenti sui rispettivi lavori e ci salutiamo. Mi dirigo verso
Palazzo Reale. C'è un sole tiepido, senza aria. Il cielo limpido. La gente
seduta sui gradini del Duomo è rilassata, gli altri camminano leggeri.
Alla mostra su Costantino (sì quello in trono:
l'imperatore) siamo dentro in 4 gatti. Pensare che ci sono cose splendide, che
vengono da posti che giammai uno ci va!
In quella di Picasso (che peraltro sono contento di aver visto, anche se dapprima pensavo di svicolarla) pascolano scolaresche di ogni genere e specie e età: ma tutti belli; e frotte di pensionati dall'aria smarrita, ma anche allegra, e attenta, e infine sfinita, ma insomma, ancora viva, per quanto ogni tanto ci fosse un sentore di pellegrinaggio, di atto dovuto, recupero tardivo di una giovinezza mancata. Almeno non si manca la vecchiaia! (Io ero uno di loro.)
Vedo, qui, in alcuni quadretti, colori che non
avevo mai conosciuto in Picasso. Chissà perché solo in opere di piccola taglia.
Lucidi, violenti, acidi. Invece di vedere nelle sue opere, come al solito, solo
le opere dei secoli precedenti, ora vedo anche quelle del secolo che è seguito.
Alla tredicesima sala raggiungo la soglia di saturazione percettiva per
quest'oggi. Mi siedo da qualche parte e chiudo gli occhi per un po'. Poi me ne
vado senza guadare più niente e nessuno.
Nell'ultima sala della mostra su Costantino mi ero
seduto su un divano e guardavo da lontano un quadretto con due santi e quattro
piccole formelle. Nel metterlo a fuoco: è un veneto, pensavo. Non granché, ma
neanche male, le due figure sopra. Direi che è un Cima da Conegliano. Appena
formulata l'attribuzione, mi sono fermato, stupito. Mi sono guardato da fuori e
dall'alto, sorridendo di questa vis attributoria, e più ancora della
spontaneità con cui si è manifestata, come un gioco, senza la minima spocchia.
Mi sono alzato per vedere da vicino: la targhetta diceva: bottega di Cima da
Conegliano!
Può essere che in qualche modo sia riuscito a
leggerla da lontano? (Non per sminuire le mie conoscenze, che sono discrete in
materia, ma non tali da farmi riconoscere autori "minori" da lontano.)
Può essere che Giuseppe D. N. avesse pensato a me proprio per avermi visto con
la coda dell'occhio senza aver registrato coscientemente il riconoscimento? Può
essere che la ragazza cinese sia entrata nella catena visiva dei pants neri con
calze nere di den diversi e che proprio questo l'abbia resa indirettamente attraente?
Sul treno, al ritorno, chiudo ancora gli occhi per
tutto il tragitto. All'andata avevo avuto un vistoso episodio di epistassi. Il
sangue sgorgava a fiotti. Forse questa perdita è stata all'origine della
giornata, del modo in cui ho visto le cose, del fatto che è stata buona. O
forse no. Anzi, di sicuro no. Intanto non perdo più sangue: e almeno questo è
un fatto.
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