In un intervento dal titolo Popolo di scriventi, pronunciato al
convegno Testo e prodotto organizzato
a Venezia dall’Istituto Gramsci e ora pubblicato sul n. 7 di "L'ozio letterario", il poeta Maurizio
Cucchi, riprendendo un’opinione diffusa anche presso coloro che intende
colpire, scaglia l’ennesimo anatema contro l’orrenda metastasi della scrittura
scatenatasi a suo avviso nell’ultimo decennio e col tono apocalittico di rigore
ne fa un’analisi tanto spietata da provocare l’immediata reazione del lettore,
fastidio, approvazione o sospetto che sia.
Cosa non riesce a digerire, Cucchi?
Non solo che ci sia tanta gente che scrive (soprattutto poesie): è un vizio
nazionale ben più antico dei primi anni Settanta, ma che le vecchie talpe ora
escano allo scoperto e vogliano tutte pubblicare, che moltissime addirittura lo
facciano per davvero, non è ben chiaro su quale tipo di carta e col permesso di
chi, e che i poveri poeti veri, o non sia facile riconoscerli o vengano poco o
niente letti una volta riconosciuti (perché è evidente che chi scrive non ha
tempo di leggere, o legge male: solo amici o parenti cioè, trascurando
colpevolmente le vie regie).
Per di più in questa miriade tutti,
dal primo all’ultimo, dimostrano una sfacciataggine inaudita: sommergono gli
spauriti redattori delle case editrici, come Cucchi, con le proverbiali
montagne di manoscritti; esigono risposte entusiastiche e pubblicazione
immediata e prestigiosa, non risparmiando la vita privata di nessuno oltre,
sempre in questua di favori, recensioni, raccomandazioni, e sempre pronti, nel
caso di una risposta pur cortese o incoraggiante ma negativa, ad accusare le
solite fantomatiche cricche che ovviamente esistono solo nelle loro teste
paranoiche. (Del resto, se anche esistessero, che interessi avrebbero da
difendere, quali inesistenti tirature o industrie culturali? Quale potere?)
Quand’anche poi qualcuno fosse
talentuoso e meritevole, come individuarlo nel frastuono generale? Tanto più
che schifezze vere e proprie non ce ne sono moltissime: un minimo di
professionalità e di malizia, qualche trucchetto ormai li hanno imparati tutti.
Beati gli antichi, in pochi a scrivere e con relativamente poco, ma tutto buono,
da leggere e da approfondire.
La condanna è il numero: “Ogni anno
tra le riviste, antologie, almanacchi, collettivi, buone collane medie, escono
centinaia di autori”! E’ impossibile starci dietro, anche animati dalla
migliore volontà! Figuriamoci lo strazio per chi vi è costretto per guadagnarsi
il pane. (Senza contare che, coscienza impone, qualche voce valida potrebbe
nascondersi anche nelle cattive collane inferiori o nei fogli disseminati per
l’orbe terracqueo). La sorte è comunque segnata per tutti: sparire. Gocce
d’acqua nel mare dell’omogeneità, sono condannati a scrivere “con una penna
caricata ad acqua”, diluiti proprio in quell’anonimato universale dal quale
tutti, scrivendo, intendevano emergere, molti addirittura senza soffrire,
nemmeno, tracotanti, “di un’identità perduta in un rapporto col reale sempre
più precario, aleatorio, frustrato da infiniti strati di intermediazione”.
“Qualcuno dovrà ricominciare
altrove”, termina Cucchi. Sospetto che, giusto per cominciare a ricominciare,
Cucchi auspicherebbe una buona purga (sorvolo sulla marca). O forse
bisognerebbe smetterla con l’alfabetizzazione, o magari insegnare solo a leggere
e non a scrivere, ai comuni mortali. O ancora distinguere con rigore linguaggi
e usi specifici: il salumiere confinato al suo, l’operaio e la maestra pure,
mantenendo una koinè superiore, a sua volta rigorosamente delimitata, per gli
scambi interpersonali. Magari fosse possibile intendersi solo a gesti! O ancora
si potrebbe riservare agli scrittori veri un tipo di inchiostro speciale, così
gli altri potrebbero addirittura continuare a scrivere ma senza creare indebite
confusioni. Altrimenti c’è il rischio che ritornino nell’anonimato, dal quale
peraltro non intendevano certo uscire scrivendo, anche i poeti laureati. O
forse Cucchi auspica l’avvento di élites patentate, sorta di ingegneri del
traffico a smistare, dirigere, deviare ciascuno verso la strada che gli attiene
per natura? In base a quale metro scegliere? L’esperienza? La notorietà?
(sempre presso amici e parenti, dato che nessuno legge)? Quelli che ci sono
già?
Intanto però, sia detto senza
animosità, anche lui è incapace di negare ad amici e conoscenti, che magari
rientrano nella categoria che deplora, prefazioni o risvolti di copertina,
promuovendoli con la sua indubbia competenza. Questione di buona educazione e
di gentilezza innata. E’ capitato un paio di volte anche a me, nel mio piccolo
s’ intende.
Però io non me la sentirei di
prostrarmi, né di lanciare appelli camuffati di analisi oggettive, per la
troppa gente che scrive.
In fondo scrivere è innocuo. Meglio
scrivere che sparare a uccelli o a altri bersagli animati. Meglio scrivere che
sentire la radio a tutto volume: scrivere non disturba nemmeno i vicini. Non
aumenta la disoccupazione (chiedere ai tipografi); non è più inutile di una
partita a scacchi, ed è almeno altrettanto intelligente (o stupido, a seconda
delle opinioni).
Inoltre, come inseguire le farfalle
non ha certo impedito a Nabokov di scrivere buoni libri (anzi), così,
viceversa, scrivere libri mediocri non credo impedisca di far bene il proprio
mestiere. Nemmeno pubblicare fa male a nessuno: visto che nessuno legge, come potrebbe?
Per chi ama il catastrofismo si potrebbe aggiungere che l’idiozia del mondo,
specie della nostra industria culturale compresa, ha ormai raggiunto il
pleroma, e che non c’è ulteriore scritto che possa aggiungere niente.
Nessuno ha più niente da dire ormai
contro nessun tipo di masturbazione, e c’è anzi chi, preoccupato delle sorti
del pianeta e delle varici della moglie, la consiglia vivamente, tanto più se
talvolta si traduce in quella forma altamente casta e civile che è la
scrittura.
Non che la scrittura lo sia sempre,
per carità, ma se qualche volta, o anche spesso, lo è, accompagnata dalle
fantasie tipiche di ogni masturbazione, perché scandalizzarsi? Si fantastica di
essere famosi, o di non morire del tutto (come si proponeva Orazio), così come
nessuno sogna la compagnia della donna cannone in preda al colera.
Ma forse anche Orazio, a dispetto
delle apparenze, si illudeva; forse la scrittura è segnata dall’effimero già
nel suo sorgere, proprio mentre instaura la nozione e l’illusione della durata,
così che sempre si scrive “con una penna caricata ad acqua”. Forse l’unica
vittoria sul tempo concessa dalla scrittura è quella, vera o falsa, compiuta o
frutto di autosuggestione, del momento in cui essa si fa. Che poi delle sue
sedimentazioni sopravvivano un po’ o si sciolgano immediatamente nell’oblio,
importa più o meno, a seconda delle opinioni, ma certo non dovrebbe importare a
chi scrive. Se invece si scrive per il presente solo, consapevoli dell’effimero
(ma vorrei conoscere anche un solo scrittore che lo pensi veramente), inutile
lamentarsi. Quanto infine all’industria culturale, tanto di guadagnato se
continua a rotolare per la sua china. Inutile rifondarla. O altrimenti fare
direttamente il discorso del potere. Qualsiasi cosa nasconda questo progetto,
tanto vale dirlo chiaramente, senza vergogna. Siamo gente smaliziata, sappiamo
stare al gioco.
16 ottobre 1983