05/05/21

Intervista a Antonio Porta (8-5-82)


Ou sont les bars d’antan, dove la gente poteva incontrarsi, conversare in santa pace, e qualcuno, leggendario, addirittura scrivere? Adesso è persino difficile trovarne con sedie e tavolini, per non parlare di quella specie in via di estinzione che sono i séparés. I quali, poi, quand’anche un benemerito “conservatore”, un benemerito “fondo” per l’ecologia urbana, ne abbia protetto qualche raro esemplare, sono ormai appannaggi di fanciulli a dieta di campi sportivi, di coppiette in dolcissimi litigi e di mammine sfrattate dai condomini per prole disperata a tempo pieno. In un séparé, ad ogni modo ho avuto il piacere di incontrare A. Porta, col quale sono riuscito ad avere un colloquio che mi rammarico soltanto di non poter riprodurre in toto, e che comunque riporto nelle sue linee generali senza dilungarmi ad abborracciare qualche striminzito giudizio per presentare un’opera che ha attirato i consensi, l’attenzione e gli studi dei critici più qualificati, è già entrata nelle antologie scolastiche e ha saputo sempre rinnovarsi con sorprendente naturalezza senza scadere mai di livello.

 

La sua poesia più recente non conserva molte tracce della sperimentazione caratteristica dei suoi primi libri. Come e quando è iniziato questo cambiamento?

La fase più strettamente sperimentale del mio lavoro si è chiusa nel ’69 con Cara. A partire da Metropolis (1971) si ha un certo cambiamento ma in più direzioni: dallo studio del linguaggio comune, assurdo e banale, a quello dei personaggi infantili e di coppia, fino alla ricerca, attraverso un surrealismo tagliente ed esasperato, di una super-lirica, di una poesia assoluta, anche se con una certa ironia. In Week-end (1974), infine, tutta la prima parte è già composta di poesie piuttosto distese.

 

Mi pare che una delle differenze fondamentali risieda nel diverso ruolo affidato all’io.

Il primo periodo della mia poesia era parzialmente radicato nella poetica degli oggetti, anche se la ristrutturava completamente. Infatti non agiva solo sugli oggetti, ma anche sulle strutture, e non per niente era una poesia estremamente ritmica con molteplici ritorni di visioni e di oggetti. Era la visione oggettuale del mondo che veniva ristrutturata insomma ed è naturale che l’io fosse cancellato o venisse raccontato come semplice personaggio. Successivamente in qualche modo l’io ha tentato di recuperare immagini più consonanti. Già Utopia del nomade (in Weekend) era la possibile incarnazione di un io diverso, quale si era reso necessario a partire dal tentativo di superamento della civiltà industriale sviluppatosi attorno agli anni ’70.

 

Quale statuto ha questo io? Come ne giustifica il recupero? 

Naturalmente non si tratta di un recupero banale di ciò che con altri avevo precedentemente rifiutato: l’io che riaffiora dal ’70 in poi è un io che risulta necessario anche teoricamente per porre le basi della comunicazione. E’ un passaggio molto importante, perché negli anni 60 si privilegiava piuttosto la separatezza, la schizofrenia e si puntava sì alla comunicazione, al di là degli elementi strutturali, l’io dev’essere rimesso in campo, come convenzione evidentemente, e quindi non in modo prevaricante. E’ uno strumento che fa da ponte.

 

E’ un cambiamento che credo risulti più evidente nelle Brevi lettere incluse in Il re del magazzino e in Passi passaggi.

Infatti non a caso la prima delle Brevi lettere inizia con la parola io messa tra parentesi, appunto per indicarne la convenzionalità. Questa serie, ancora non a caso, è cominciata nel’76 come tentativo di comunicare col mio linguaggio, la poesia, coi miei figli allora adolescenti. E’ una sorta di diario poetico in pubblico che percorre alcuni anni di cronaca e storia oggettiva e personale.

 

Nonostante la leggibilità dei suoi ultimi testi, tuttavia, la sua sintassi non è semplice e i versi conservano ciascuno la sua autonomia.

Raramente, se non in caso di estrema necessità, collego in maniera stretta il verso precedente a quello successivo. Ogni verso ha la sua indipendenza, deve certo interagire con gli altri, ma in maniera più complessa. Di qui tutto un lavoro di sintesi, di eliminazione dei nessi e di una grammatica facile per arrivare all’invenzione di una grammatica della visione e della suggestione.

 

Anche quando racconta, sia nei versi che nella prosa, ho notato che lo fa sempre al presente, inteso specificatamente come tempo della scrittura.

La scrittura come tempo presente è molto importante per me e l’ho sviluppata anche nei racconti, i quali si risolvono in un passaggio subitaneo al tempo presente come sistema di attualizzazione e rifiuto del futuro e della memoria, per introdurre alla vitalità del vedere. La scrittura nasce dalla scrittura e lo sguardo nasce dallo sguardo, come specchi che producono delle immagini che poi acquistano una vita indipendente. Dallo specchio esce l’albero, e io, scrivendo, devo trovare il punto di uscita sia della scrittura che del suo oggetto.

 

Lei una volta ha affermato che si deve leggere la poesia moderna in chiave di romanzo, che essa è già romanzo. In che senso?

La dimensione narrativa non è altro, secondo me, che un sistema di concatenamento molto valido per raccontare immagini. Il romanzo mi interessa quando da un’immagine ne scatta un’altra e si sviluppa nella dimensione del racconto e della visione, e non come successione banale di fatti. Il senso più valido della narratività è la comprensione dei nessi profondi dell’esistenza e degli eventi, e la poesia moderna, proprio perché ha eliminato i nessi e le grammatiche facili, è la stessa cosa: romanzo, racconto di quello che siamo e delle immagini che ci fanno vivere. E esperienza del profondo, come già intendevano il romanzo Proust e Joyce.

 

E’ perché intende situarsi a questo livello che l’ironia ha sempre meno rilievo nella sua scrittura?

Una certa ironia credo ci sia sempre, anche se è senza dubbio diminuita. L’ironia sappiamo che è in fondo distruttiva e un po’ cinica, e forse io ho un po’ meno voglia di ridere di un tempo. Per sopraggiunta maturità? E’ molto opinabile; basti pensare che c’è gente che invecchiando ride sempre di più. Probabilmente le esperienze della mia esistenza mi hanno portato a fare affermazioni più nette, peraltro mantenendo una certa ironia di linguaggio, una certa flessibilità linguistica che è la mia forma attuale di ironia. Poi devo dire che, tra le diverse soluzioni, l’ironia in fondo è la più facile, e come tale non mi interessa.

 

 

Nota biobibliografica

Antonio Porta è nato nel 1935. Incluso nel 1961 nell’antologia I Nuovissimi, è stato uno dei protagonisti dell’avanguardia degli anni Sessanta. La sua produzione dal ’58 al ’75, che comprende vari libri, tutti pubblicati da Feltrinelli, è stata raccolta nel ’77 nel volume Quanto ho da dirvi, mentre quella più recente si trova in Passi, Passaggi (Mondadori, 1980). E’ autore anche di due romanzi, Partita (Feltrinelli 1967, rist. Garzanti 1978) e Il re del magazzino (Mondadori, 1978), del testo teatrale La presa di potere di Ivan lo sciocco (Einaudi, 1974) e curatore dell’antologia Poesia degli anni settanta (Feltrinelli 1979). E’ tradotto in numerose lingue e collabora a varie riviste. Redattore prima di il verri, Malebolge e Quindici, ora di Alfabeta e Il cavallo di Troia. Svolge da sempre una importante attività editoriale ed è critico di Il Corriere della Sera.

 

 

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