Come
quella di tutti, anche l’anima di Marco Ercolani è fatta di tante anime che si
nutrono, rispecchiano, deformano, parassitano, imitano, parodiano, integrano e
a modo loro completano anime altrui, o frammenti di anime altrui, che a loro
volta sono fatte di altre anime o frammenti che si nutrono, rispecchiano e così
via, in rimando infinito.
Artista
è uno che queste cose le sa e adotta tutta una serie di strategie, a volte
coscienti altre meno, per nutrirsi ecc. con l’intento (la speranza) che il
risultato di tale strategia trasformi l’oggetto che gli ha fatto da nutrimento
e specchio e stimolo e sfida, più spesso celandolo che tradendolo o esibendolo,
per dar luogo a un’opera che, con il suo nome stavolta, rilanci il gioco. Quando
l’artista attua questa strategia però, il meccanismo è già iniziato da tempo
immemorabile e, in genere, ha già assunto una forma, o una serie di forme, che
egli può modificare solo in parte. Piccola o grande, a seconda dei suoi
desideri e delle sue capacità, e anche della forza e età di quelle. Spesso la
cosa migliore che gli resta da fare è accettarle, magari riconoscerne questo o
quel frammento, e assumerle fino in fondo. La sua opera non sarà che la
diversa, e se possibile in diversa misura nuova, riformulazione o articolazione
di queste forme, che vengono rimodellate, ridisposte e riaggregate, dalle
esperienze del soggetto nella stessa misura in cui esse contribuiscono a fare
scaturire queste esperienze e a modellarle. Così uno vive.
Da
sempre la strategia di Marco Ercolani (spesso in simbiosi con Lucetta Frisa) è
di esibire tutte queste operazioni (attività ecc.) e in qualche modo
capovolgerle, ribaltarne o piegarne il senso e i modi, espropriandosi. Mi
spiego: ogni volta che qualche forma o esperienza che egli sa benissimo di non
poter definire come propriamente sua (anche se poi è lui che ne gioisce e
soffre) ne incrocia una simile in qualche anima o opera altrui, ne sorge una
nuova che però assume voce, tono e timbro di quest’ultima, e non i suoi. (Non
la sua presunta voce, perlomeno: perché a volte, un tono, un'inflessione, il
residuo di un timbro che venga fatto di attribuire a lui, sembra di
riconoscerli. Ma è un attimo, un punto d'attrito, un bagliore, un apice puntuto
il cui segno, sulla pelle, si vede solo dopo, senza che si possa risalire alla
sua origine.)
Non
si tratta di una proiezione o di un mascheramento che fa dire all’altro ciò che
non ritiene possibile o opportuno o legittimo dire a nome proprio da sé (un sé
che peraltro non c’è: cioè non si dà al
di fuori di questo dire già impuro, meticciato e multiplo) – anche se questo
rischio sussiste, ed è il filo del discrimine e la misura della posta in gioco
–; né di far dire a qualcuno qualcosa
che la sua opera (o anima) già conterrebbe, implicitamente o disseminata; e
nemmeno di portare alle estreme conseguenze presupposti o indizi appena
accennati e/o espressi ma non sviluppati in tutte le loro implicazioni; quanto
piuttosto di condurre queste voci fuori da se stesse pur lasciandone intatti
tutti i caratteri, di traslocarle, sfoderarle, e insieme, da parte dello
scrivente, di uscire da sé cancellandosi in esse, assumendole tuttavia quasi
senza residui. Quasi.

Per
esempio: il Discorso contro la morte
che dà il titolo a un notevole libretto del 2008 (ed. Joker) non è solo attribuito
apocrifamente a John Donne: è di John
Donne, ma il suo autore è Marco Ercolani. Ma Marco Ercolani ne è l’autore solo
nella misura in cui quel sermone non
gli appartiene; e solo nell’assunzione di questa non appartenenza egli da una
parte può farne esperienza e viverne come propri i contenuti. Viverli di
ritorno perché erano già all’origine. Tutto intrecciato in nodi, che sono la
forma e la danno a ciò che annodano. (Nodi
del cuore, Greco&Greco, 2000, è il titolo di una raccolta di scambi
epistolari apocrifi scritta con la moglie Lucetta.)
Scrivere,
in questo senso, è riconoscersi nell’altro e attraverso l’altro, e adottarne la
voce, assumerla per poter essere in qualche modo se stesso, o per poter dire,
in ciò che l’altro non ha detto pur aprendo la possibilità di dirlo, ciò che la
propria voce non può dire perché non le appartiene nonostante sia ciò che le è
più prossimo e più proprio. (O per non dire in prima persona, e tuttavia dirlo senza farsi Medusa di se stessi: per
non bloccarsi in un io che sarebbe fisso, univoco e proprio, identico a se
stesso una volta per tutte; cosa esecrabile, certo, ma anche impossibile,
aggiungo: perché c’è il linguaggio che comunque, non appartenendo – cioè
includendo sia il detto che i dicitori –, lo impedisce.) Estrarre, o modellare,
nella voce altrui, una modalità della propria che altrimenti non potrebbe
venire ad essere; forzarla, per partorire la propria attraverso, o nel
simulacro di quella.
Ma
per fare questo bisogna cancellarsi nell’altro: essere l’altro per poter
essere, in qualche modo, se stesso. (Non è l’amore; eppure, in qualche modo, in
qualche senso – in sensi diversi – lo è.)
Per
questo, come prima cosa bisognerebbe “liberarsi dal proprio stile” (Discorso contro la morte, p. 23). C’è un
mezzo per farlo? Niente di più facile, verrebbe da rispondere: basta non
averne. Come se fosse possibile. Oppure, meno banalmente, basta non averne uno
solo. Ma anche averne molti non sarebbe a sua volta uno stile? Si potrebbe
allora provare a liquefarsi, a dissolversi in quello di ogni altro. Adottarne
ogni volta uno, non come una maschera, ma come una pelle...
Non:
essere nessuno; semmai: essere tutti senza essere mai uno. “Usare materiali”,
essere “la Lingua che (...) diventa lingue, il Fiume che (...) si manifesta in
fiumi” (Il tempo di Perseo, Joker,
2004, p.12).

Eppure
questo venir meno dell’identità, anche provvisoria, strategica, fittizia, del
parlante/scrivente rischia di portare l’attenzione a focalizzarsi
prevalentemente sulla domanda “chi parla?”, invece che su quella, altrettanto
se non più importante, su “cosa dice e come”. E’ possibile trovare qualche filo
conduttore, ricorrenza di tono, costellazione di senso? Alla lunga, come
accennavo più sopra, credo proprio di sì, per quanto intrecciato nella varietà,
a volte persino sommerso, incriptato, fatto silenzio o enigma, incandescenza
lontana, che smuore nella distanza ma non cessa di mandare bagliori minimi e
insistenti. E allora, per dipanare e organizzare, per estrarre e assemblare,
diventa necessario fare un’operazione analoga, ma non uguale, simile ma
deviata, con differente inclinazione, a quella che Ercolani fa con i suoi
autori: aggiungere una voce, senza però l’appoggio di una precisa e già
definita, in questo caso proprio quella vera o presunta di Ercolani, da cui
partire. Una voce congetturale che mima, echeggia e/o costruisce/inventa
un’altra voce congetturale, che poi però abbandona il gioco dei rimandi, che ne
esce, fatta altra ancora, e da lì comincia a guardare.
Bisogna
cercare di dimenticare i nomi degli scrittori, filosofi, pittori, musicisti,
studiosi, politici in cima a ogni testo, e provare, da lì, a rileggere tutto
come se fosse una voce: una sola voce nelle sue varie inflessioni e tonalità e
modulazioni, come se le diversità di stili e rimandi fossero solo effetto di
differenze di esperienze e umori. In fondo è legittimo pensare (con Borges, per
esempio) che ci sia una sola voce, o nessuna; che la letteratura sia senza
autori, che passi attraverso ciò che si è convenuto chiamare con un nome
(identificando poi questo nome con un autore) come un unico flusso, composito
ma in fondo continuo e unitario, di un’unitarietà sempre mutevole e che si
riforma diversa ad ogni istante, pur essendo ogni istante conclusa e omogenea.
Ogni nuova parola suggella il già detto e ne inaugura un altro.
Ma
si può anche vedere, immaginare, in questo flusso, momenti in cui si addensa e
poi si coagula e fissa in una unitarietà (in una unità) solida, per quanto
provvisoria; fittizia, eppure che agisce realmente e necessita di essere
assunta di volta in volta come propria: come qualcosa di cui si è, come per
un’azione, responsabile, per quanto non si sappia a partire da che punto e
ancor più da che punto in poi non lo si è più dei suoi effetti, che a loro
volta, con effetto a posteriori, disappropriano la loro stessa scaturigine.
Eppure questo punto va di volta in volta marcato e assunto: non per ciò che è
scritto, ma per chi scrive, come qualcosa che riguarda solo lui, ma senza il
quale, senza cioè che questo sguardo venga accolto e ricambiato, alla lettera
non si scrive niente.

Il
rischio è il parassitismo di un’autorità che si dubita di possedere in proprio,
o che non si ha il coraggio di attribuirsi, o che non si vuole assumere. Anche
nel senso di un atto volontario di rifiuto: che non si vuole assumere, e non si vuole assumere. Per negare l’io? La proprietà del discorso? E lasciare invece che sia il discorso da
solo a dire, a essere in qualche modo proprietario di se stesso? A se stesso
appropriato? Troppo facile però: una
proiezione di, o su un’autorità e autorevolezza avviene/si verifica (anche nel
senso di 'rende vera se stessa') comunque; (sempre) un altro dice quello che tu
non vuoi/sai/intendi dire: attribuzione di peso autoritario, cioè dal di fuori,
alle parole, che però le svuota dal di dentro.
"Sentiva
che avrebbe dovuto erigere limiti e steccati, proprio per descrivere
quell'istante di follia, quel brulichio ininterrotto, quell'affollarsi di
fantasmi. (...) Capì che, ancora una volta, era
questione di linguaggio. (...) Era stanco di una pazzia che fosse negazione
del mondo e dell'io, anamnesi di una malattia, cronaca di una sconfitta. Doveva
rielaborarla in forme che ne rendessero dicibile la rivolta. (...) La Lingua che non diventa lingue, il Fiume
che non si manifesta in fiumi: la cieca adesione al Sacro. No." (ibid., p. 11-12)
Sempre
questione di linguaggio. Non per il fatto che il linguaggio non mi appartiene,
io devo sottrarmi alla responsabilità, anche a quella di assumerlo, e non solo a
quella di ciò che dico io in ciò che dice lui.
"Una
costante definiva le sue visioni: la presenza di uno spazio circolare, talvolta ridotto alla
dimensione di un punto. Su questo
punto convergevano forze diverse. [Qualunque fosse la sua incarnazione, sempre]
la sensazione era la stessa: un punto pieno, una sfera compatta sta per
disarticolarsi, letteralmente frantumata dalle forze che la schiacceranno.
(...) Mille variazioni su uno stesso tema." (Il
tempo di Perseo, Joker, 2004, p. 9)
Questo
punto, per Marco Ercolani, è il discorso della follia. Il discorso che dalla
follia parte e su di essa non cessa di tornare, che insiste nel suo luogo, cioè
nel luogo dove tutto si sfalda, ovvero dove si coagula momentaneamente, con
forza lacerante, per poi diffrangersi e disperdersi: perché a lungo non si può
tenere, sopportare; né vi si può consistere senza smarrirsi. Luogo dove l'io
non è nemmeno l'istanza dell'enunciazione, ma un fantasma, un'imago già
svanita, o al contrario solo un'ipostasi, una corazza dalla rigidità
proporzionale alla sua friabilità, l'illusione di una difesa,
un'inconsistenza.
Ercolani
è psichiatra in una struttura pubblica e la sua professione non si disgiunge
dalla sua scrittura: dall'esigenza di venire in qualche modo a capo della
propria vita. Di tenere qualcuno dei capi delle proprie vite. La citazione
ligure è scontata.

In
ogni caso, che si tratti di psichiatria o di scrittura, il suo è un ascolto
delle voci. Ascolta le voci di tutti coloro che sentono le voci (e di tutti
coloro che hanno parlato/scritto). Si mette in ascolto – fa la guardia – come
una sentinella a cui non viene mai dato il turno*. Finito quello assegnato,
comincia quello assunto volontariamente, anzi: quello necessario, perché da
ogni parte la sua voce ti chiama. Non c'è pausa. Non c'è silenzio. Il riposo da
una voce è un'altra, che talvolta può prendere altre forma, o addirittura la
forma di un apparente silenzio, ma subito si mette a parlare, e invoglia a
farlo per farla tacere. Ma in realtà a Marco Ercolani il silenzio è
insopportabile, perché di troppe voci subito si rivela saturo, intrecciate,
sovrapposte e incontrollabili.
Come
con la follia, con cui in parte si identifica, l'eccesso di prossimità è non
solo insopportabile, ma alla lettera impossibile. Troppo incandescente,
irrespirabile. Per non essere annientato dal contatto diretto, per districare
le voci, sentirle (con tutti i
sensi), capirle e dare loro la parola nel loro "dis-ordine e (...)
complessità inesauribili" (L'opera
non perfetta – Note su arte e follia
1999-2009, Nicomp L.E., 2010, p. 75) si rende allora necessario frapporre –
e lo stesso tra sé, la propria scrittura e la sua scaturigine – uno schermo, un
filtro, una camera di decompressione e di raffreddamento: insieme forme di
protezione e sintomi di attrazione, vengono frapposte non per allontanarsene,
come difesa, ma perché, pur intendendone l'estremo pericolo, se ne è
irresistibilmente calamitati e non si intende rinunciarvi, se non si vuole
rinunciare a se stessi. Poiché l'accesso diretto, come al volto di Medusa, è
ferale, vi si torna mediante una deviazione, un détour (ci si volta e si fa un
giro).
In
questo a Ercolani la psichiatria come professione fa senza dubbio gioco.
Potrebbe ostacolarlo, certo, proiettando l'ombra della terapia su ogni cosa, ma
siccome l'artista non se ne disgiunge mai, e anzi la sovrasta (o la erode), non
solo essa gli fornisce strumenti e distanza, ma soprattutto gli offre materia,
che però solo l'artista trova il modo di lasciar parlare da sé, aggirando (appunto)
il rischio, l'indelicatezza di volerla trasformare in poesia o racconto. Il
contatto quotidiano con la follia, l'avvicinamento che essa comanda e la
barriera, spesso ostile, che erige, lo difendono dalla tentazione di farne un oggetto, di rendere il dolore astratto e
generico, nient'altro che una parola ad effetto, o una sfumatura opaca della
compassione: anche quando parla di arte o di poesia, non perde mai di vista la comprensione
della malattia, la specificità del dolore e dell'individuo che ha di fronte,
per trovare un modo migliore per affrontarli, gestirli, lenirli, in sé oltre
che nel "paziente".
La
luce non è mai unidirezionale; è sempre (almeno) doppia (arte-follia;
scrittura-terapia; comprensione-partecipazione...) e su almeno due piani (psichiatra-folle;
psichiatra-artista; artista-artista; "malato"-malato...), con almeno
due obiettivi: la clinica e, più che la scrittura (come sarebbe più
presumibile), la quotidianità, per trovare un modo per gestire l'esistenza,
l'emergenza che è la sua normalità. Si dovrebbe poter "tenere un diario
correndo. (...) provare a non vestire più le mie follie con abiti da
cerimonia" (Turno di guardia, Il
canneto, 2011, p. 32). Ed è proprio questo che Ercolani fa sempre più spesso
nelle sue ultime opere, e soprattutto in questo Turno di guardia.
A
volte ci si nasconde meglio parlando di se stessi e delle cose che ci capitano,
e ci si rivela di più assumendo altre identità (perché sembra di poter parlare
impuniti) o creando personaggi ex-nihilo, come se fosse possibile. Il problema
non è celarsi, mimetizzarsi, mascherarsi o rivelarsi: il problema è quello che
si fa con la scrittura, quello che esce; e nemmeno quello che viene detto, ma
il tono, la capacità di convincimento e le proiezioni o assunzioni che suscita.
Il narcisismo della prima persona nelle cosiddette autofinzioni è un problema
secondario, se non falso: dipende ancora da cosa ne fai, dalla banalità o
originalità di ciò che viene detto e del modo, dalla semplicità o dalla
complessità; dal fatto che la semplicità va verso la banalità o se contiene
invece pluralità e stratificazione; e viceversa se la complessità non è per
caso confusione e abborracciatura (cioè superficiale in senso classico)... ecc.
La finzione che funziona meglio, a volte, è proprio quella della
"sincerità", che parte magari dalla propria esperienza e parla della
propria vita, e invece le usa soltanto come trampolino, o maschera
dell'invenzione, e della comprensione dell'altro. Ed è spesso quando mette
direttamente e chiaramente in campo se stesso, che Ercolani riesce anche a
parlare meglio degli altri: a parlare
degli altri come altri.
E'
sul filo di questa serie di doppie partite che sta Ercolani: in bilico,
ondeggiando sul filo teso tra voce propria e voci altrui, tra invenzione e riflessione,
filo che le unisce e separa e che appartiene a entrambe; soprattutto filo, o
più correttamente linea che percorre il bordo sfrangiato tra malattia e salute,
tra follia e presunta normalità, delirio e ragione, silenzio rumoroso e
discorsi inauditi: linea di una piega che distingue e cuce assieme la distanza,
e il distacco della terapia, e la pura umanità (l’amore), che condivide e un
po’ già guarisce da sola, e da sola già un po’ capisce.
* Sempre in guardia, di sentinella. Si potrebbe
costruire una teoria della sua teoria, combinando i titoli dei suoi libri: Sento le voci. Discorsi di "matti",
La vita felice, 2009, è il titolo di uno dei due volumi scritto con Lucetta
Frisa, - l'altro è Anime strane,
Greco&Greco, 2006 - che raccoglie i discorsi e le teorie raccolte in
trent'anni di studi e pratica; Sentinella,
Carta bianca, 2011, è quello di un recente libretto che combina poesia e
filosofia: un po' alla maniera di René Char, verrebbe da pensare; mentre Turno di guardia, Il canneto editore, 2011,
è una notevole raccolta di testi relativi alla sua esperienza come guardia
medica in una struttura pubblica.