08/11/22

Della gaffe (appunti per un trattatello che però risparmio a tutti, con una piccola rimostranza contro gli dei)



 

E’ ancora possibile commettere delle gaffes oggi, quando tutto sembra caduto nel minestrone dell’informalità? In realtà probabilmente è più facile. Ogni gruppo ha i suoi codici, dalla cosiddetta alta società a quella infima, giusto per sottolineare distinzioni che in genere si finge di ignorare ma che si stanno accentuando sempre di più, e assumere comportamenti disinvolti in ogni circostanza è il modo migliore per sbagliare sempre. Naturalmente è difficile fare gaffes nella vera alta società: lì i muri sono altissimi e le porte chiuse, l’accesso è riservato a chi vi è già dentro e quando qualcuno abbozza qualche sortita la gaffe, sesquipedale, è in agguato anche per lui (sorvolo su facili esempi per delicatezza); altrove, nella sua brutta copia dello spettacolo, quella dei Vip televisivi e mediatici, l’assenza di regole di comportamento, abbigliamento e linguaggio sembra la regola effettiva, con predilezione per il laido e il volgare. Ma se si aderisce a questi standard per la presunta impossibilità di cadervi, dato che tutto è possibile, la gaffe uno la fa sempre, comunque, di fronte a se stesso, che è quella peggiore, imperdonabile. A meno, ovviamente esclusi i cinici di professione (ma anche loro…), di non essere del tutto incoscienti, condizione che la stupidità aiuta. La stupidità imperante, quella degli altri, che possiamo vedere sempre in ogni forma di schermo non riflettente. Che peraltro è la prima a rimarcare e disprezzare ogni infrazione. E’ l’ipersensibilità del cretino. Quella che, a chi cretino è convinto di non essere, appare come rozzezza e vuota suscettibilità. E che invece è prontissima a rilevare ogni infrazione alla sua, di norma: tantissime, essendo diventato per ciascuno ristrettissimo il campo della norma.

C’è anche da dire, però, che se la norma si allarga troppo, le gaffes diminuiscono, in proporzione all’ampliamento e all’insignificanza che questo comporta. “Ah, sì? E che importa?”

Se poi uno è anche un po’ sbadato, la gaffe è il suo destino. Io lei mie non le conto. Peccato che non le dimentico.

 

Leggere un libro sulle gaffes però di un altro non consola. Se possibile, anzi, le cose per il lettore esperto in materia peggiorano. Non c’è meccanismo identificativo con il goffo cretino. E il fatto di sapere di esserlo stato in mille occasioni, e che certamente lo si sarà di nuovo fino alla morte, cioè alla gaffe definitiva, non impedisce di guardare al cretino-gaffeur, mentre si comporta o parla da gaffeur, al massimo con commiserazione, ma mai con vera empatia. Tra noi che ora vediamo o leggiamo e lui si è alzato un muro che, per quanto trasparente, resta nondimeno inattraversabile. E se alcuni quanti di empatia magari riescono a passare dall’altra parte, chissà che altro bersaglio raggiungono (sono così imprevedibili, e stupidi la loro parte), e il cretino continua a restare inattingibile. Come una divinità. Che forse egli stesso è. Perché anche sull’intelligenza degli dei è lecito nutrire dubbi. Commettono tante fesserie essi pure dalla loro distanza incommensurabile che è impossibile compatirli. Si avvampa di vergogna per loro, o di rabbia, e si preferisce volgersi dall’altra parte lasciandoli nel loro brodo, sperando che non diventi il nostro. Illudendosi che loro facciano lo stesso con noi: che come gaffe non ha eguali.

E’ tutta colpa loro, del resto. Della vita che ci hanno concesso (affibbiato), che è imperfetta da capo a fondo, senza possibile eccezione. Questo dovrebbe rendere meno urticante la nostra gaffe per noi, e quella degli altri ai nostri occhi. Saperlo però non basta. C’è motivo di arrabbiarsi ancora di più, semmai. Già che c’erano, non potevano impegnarsi un po’ di più? Stupidi lazzaroni!

È la vita come imperfezione quindi (mi scuso per l’espressione altisonante: per la gaffe linguistica), non solo l'impossibilità di piacere a tutti, ma, peggio, quella di piacere anche a coloro che abbiamo scelto, coloro a cui ci importa di piacere; è la non coincidenza dei tempi e delle reciproche aspettative, l'ineliminabile ignoranza quasi totale, al di là del ristrettissimo parapetto delle convenzioni, di ciò che stanno vivendo e pensando gli altri con cui stiamo di volta in volta interagendo, e di noi stessi, ancor di più, e la presenza sempre incombente, soffocante e imperativa dell'idea, e della volontà, nonostante tutto, di perfezione, di accettazione totale e senza riserve, di assoluto, ecco cos'è.

 

Ps. Questi appunti sono nati in margine alla lettura del bel libro di Mario Fortunato “Autobiografia della gaffe”. Che è la storia di alcune gaffe della sua vita, ma anche, in un certo senso, se non proprio una riflessione sulla teoria della letteratura, l’esposizione indiretta, traslata, laterale, con la coda dell’occhio, del proprio modo di intenderla, e almeno in parte della propria poetica, applicata, o dedotta, a momenti salienti della propria biografia, amori, incontri, aneddoti e soprattutto letture. Qui soprattutto Freud, Benjamin, Heidegger, Bachman, Proust. Perché la vera autobiografia di uno scrittore passa per le sue letture (e per le scritture; e solo in un terzo, o quarto, tempo per ciò che ha fatto e gli è capitato).

Le gaffes prese a sé non sono che episodi che riguardano solo l’autore, aneddoti divertenti o curiosi (ben raccontati peraltro, con acume, e l’ironia indispensabile a chiunque voglia sopravvivere alle proprie deficienze e, peggio, narrarle), che prendono senso e illuminano la vita e le cose, anche per noi, solo grazie alle lenti dei libri letti, che lasciano poi spazio anche allo sguardo laterale che alla visione chiara aggiunge la prospettiva da cui entrano scoperte e verità impreviste e inedite.

Scrive Fortunato: “la gaffe, lungi dall’essere un limite – un errore, un abbaglio, una cantonata – è al contrario un modo in cui il linguaggio sorpassa la realtà storica per farne trasparire l’essenza extratemporale, cioè la verità, cioè la bellezza. Anche se verità e bellezza possono essere i più potenti mezzi di trasporto del dolore.”

Insomma, in quanto gaffeur mi sento in difetto, inferiore agli altri, pieno di magagne, di tare ecc., ma proprio questo può darmi accesso a qualità e capacità che agli altri sono precluse (verità e bellezza – oltre al dolore che aiuta in questo senso, e nobilita anche!) e quindi sono superiore. E’ la rivalsa dell’inetto, come insegnava già Svevo peraltro. Il ‘900 ribaltato in gloria.

Specie quando si parla in prima persona. Scriveva Blanchot: “L’impersonnalité – une manière commode de s’agrandir jusqu’à l’universel” (La condition critique, Articles 1945-1998, Gallimard, 2010). Ma la prima persona è più furba nella sua ingenuità vera o finta: sembra ridurre tutto all’aneddoto, alla miserevole vanagloria della modestia, del relativismo, e invece… E’ l’astuzia della gaffe, come diceva Hegel. Non ci si scappa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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