31/07/24

Selfervice di Firenze (fds antico)

 


 

Entro nel selfservice accanto alla stazione di Firenze. È presto, è quasi vuoto. Prendo il mio piatto, pago e mi scelgo un posto: un tavolo in fondo, con la panca accostata al muro a cui poter appoggiare la schiena. Mentre mangio, guardo la sala: tre giapponesi, una vecchia coppia con l’uomo seduto nella mia stessa direzione e la donna di fronte, sette uomini soli compreso il sottoscritto. In sei guardiamo verso il banco e l’ingresso, disposti su file diverse e in modo che almeno un tavolo, ove possibile, separi l’uno dall’altro. Il settimo è alla mia destra, sulla stessa fila di fondo, ma rivolto in senso opposto: un vecchio di oltre ottant’anni, dalla testa ondeggiante coperta da capelli bianchi corti e radi e la pelle molto pallida cosparsa di macchie rosa, che si porta con mano tremante una forchetta che regge maccheroni in precario equilibrio verso la bocca pure tremante e che, quando prende una sosta, davanti, da guardare, ha solo il muro. (ha scelto di avere solo il muro.)

 

Disegno di Ottone Rosai

 

18/07/24

Degli infiniti universi et uno

 


In un universo sposto la forchetta a destra, in un altro a sinistra; in un altro ancora la sposto a destra di un millimetro, in un altro di due, in un altro di tre e così via; e così per ogni spostamento a sinistra. E mentre sposto di un millimetro a destra la forchetta, passa in volo una ghiandaia davanti alla finestra e si muove una foglia della magnolia e un’altra della siepe, che non si muovono mentre sto facendo la stessa cosa in un altro universo, mentre la ghiandaia vola un centimetro più in alto, e nell’universo accanto vola un centimetro più in basso, mentre per me la traiettoria e l’altezza sono le stesse. E mentre non sposto la forchetta da nessuna parte in un universo chiudo l’occhio destro e mastico, in un altro mastico a occhi aperti, in un altro chiudo il sinistro ma non mastico; e mentre chiudo e mastico, la foglia si muove e la ghiandaia non passa; e mentre chiudo e mastico più piano, la stessa foglia si muove e ancora la ghiandaia non passa; e mentre in un altro universo ancora chiudo e mastico più forte, la stessa foglia si muove e ancora la ghiandaia non passa e intanto sposto la forchetta di un millimetro e mezzo; e mentre in un altro universo contiguo, o lontanissimo, chiudo e mastico più forte, la stessa foglia è ferma e ancora la ghiandaia non passa e intanto sposto la forchetta di due millimetri e una nube oscura il sole; e mentre in un altro universo contiguo a questo, o lontanissimo, ma da un’altra parte, chiudo e mastico più forte, la stessa foglia è ferma e ancora la ghiandaia non passa e intanto sposto la forchetta di due millimetri e da una nube spunta il sole…

Perché limitarsi a universi, e a vite, in cui quello che cambia sono solo fatti o decisioni significative con le loro conseguenze unidirezionali e non a loro volta che si biforcano o si moltiplicano secondo altre possibilità? Senza andare a specificare gli infiniti dettagli insignificanti, infinitesimi, che bastano a fare di un universo un altro differente, c’è un universo in cui cambia qualcosa di importante e ce ne sono altri, infiniti, per ogni altro importante cambiamento; e se questo vale per me da solo, vale anche per la relazione degli altri con me, e per quelle di tutti gli altri con ogni altro e con ogni cosa e di tutte le cose in ogni relazione con tutte le altre. Infiniti universi dove ogni cambiamento è infinitesimo. Infiniti di infiniti di infiniti di infiniti…. Et donc? Nessuno di essi mi riguarda. Nessuno di essi riguarda niente e nessuno nel suo essere quello che è, dove è, nel momento in cui è. Ogni universo e ogni cosa nel suo universo è dove è e riguarda solo sé. Ogni universo è uno. Ogni universo è il solo. Solo un universo è. Esiste un solo universo.

 


14/07/24

El Greco dopo Picasso

El Greco è un artista così radicale nelle sue innovazioni, così moderno, che ci si stupisce che abbia trovato chi ne apprezzasse la grandezza già al suo tempo. Non molti, ma ci sono stati, anche se poi per quasi tre secoli la sua grandezza è stata misconosciuta, se non proprio dimenticata; mentre non stupisce che sia stato sempre più apprezzato a partire dal ‘900 e dalle avanguardie, che ne hanno saputo cogliere certe componenti anti- e ultranaturalistiche, che sono poi quelle da cui molte di esse erano scaturite e che propugnavano, e ne hanno subito l’influenza, o beneficiato: perché il peso della grandezza o schiaccia o libera. È come se soltanto di recente, dopo che i nostri occhi sono stati lavati da Cézanne e Picasso, si sia imparato a vederlo, prima ancora che a guardarlo. Lo si può verificare visitando la splendida mostra in corso a Palazzo reale, a Milano, che è stata prorogata fino al 25 febbraio.

Nato a Creta nel 1541 da famiglia di fede ortodossa, Domínikos Theotokópoulos si forma su modelli di arte bizantina ma guardando ben presto ad alcuni pittori locali influenzati anche da Venezia, dove egli decide di trasferirsi nel 1567. Non si sa quando aderisce al cattolicesimo, ma deve essere abbastanza presto se si considerano alcune opere italiane dei primi anni settanta, come una Cacciata dei mercanti dal tempio e una Guarigione del cieco, che rispondono ai dettami del Concilio di Trento: i mercanti e il simboleggiando i ribelli protestanti, e il cieco gli eretici risvegliati alla vera fede, e probabilmente la sua adesione al cattolicesimo.

Già prima di arrivare nella città lagunare il giovane artista dimostrerà di essere a conoscenza della pittura più recente, grazie anche alle stampe di cui si servirà per tutta la sua carriera, e cercherà di adottarne le innovazioni, specie coloristiche, fino a possederle con sicurezza, come si può evincere già da alcune opere a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e i primi ’70, a cominciare dal sorprendente Trittico di Modena, altarolo portatile sfavillante di colori incendiati.

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A Venezia frequenta, sembra, l’atelier di Tiziano, ma assorbe anche la lezione di Tintoretto e Bassano (presenti in mostra con alcune opere), che poi integra con la conoscenza del contesto romano, dove, invitato nel 1570 da Giulio Clovio e presentato come dotato ritrattista (subito riconosciuto come tale anche quando si trasferirà in Spagna, dove il suo più grande ammiratore sarà nientemeno che Velásquez), viene accolto da uno dei più grandi collezionisti del tempo, il cardinal Farnese.

In mostra purtroppo di ritratti ce ne sono solo due, bellissimi però; a meno di non considerare tali anche alcune figure di santi dai tratti così fortemente individuali da far sospettare che siano di persone reali come si usava per i cosiddetti “retratos a lo divino” – come il San Luca che per alcuni potrebbe essere un autoritratto – che infatti condividono con quelli espliciti vari elementi tecnici e formali: sfocature ottiche, piccole asimmetrie anatomiche nelle spalle e nella postura da dare movimento e vita, ma soprattutto negli occhi e nelle commessure labiali, macchie cromatiche, effetti di non finito, profondità della caratterizzazione psicologica… segnalati da José Redondo Cuesta nel bel catalogo della mostra, El Greco. Un pittore nel labirinto (a cura di J. A. García Castro e P. Martínez-Burgos García, Skira, 2023).


Nei viaggi di andata e ritorno da Venezia si pensa che avrà avuto modo di conoscere anche il Parmigianino e Correggio, apprezzato più di tutti per la “grazia” e “facilità” con cui risolve i più ardui problemi pittorici, che per lui costituiscono la misura dell’eccellenza artistica. … “l’arte che presenti le maggiori difficoltà sarà la più gradevole e di conseguenza la più intellettuale” e la più perfetta perché non solo si prefigge di rappresentare tutto” ma “si occupa dell’impossibile””, nel senso dell’invisibile, di ciò che non può essere visto perché non appartiene a questo mondo, il soprannaturale, il divino, che si manifestano come corpi luminosi (come scrivono Giulio Zavatta e Alessandra Bigi Iotti nel catalogo).

Non è quindi un pittore da bottega che egli intende essere (la sua peraltro sarà florida e molto efficiente), quanto un pittore-filosofo, come le amicizie che coltiverà in Spagna, dopo il suo trasferimento nel 1577, tra le quali va ricordata quella con Hortensio Paravicino, grande intellettuale e oratore suo amico intimo, che gli dedicò alcune poesie, e a cui fece un ritratto bellissimo, e soprattutto le numerosissime note da lui apposte a un’edizione di Vitruvio e alle Vite del Vasari, che mostreranno la sua avversione alla dominante concezione fiorentina e la sua preparazione anche teorica, non bastassero le opere a suggerirla.


 La mostra documenta sia il periodo cretese che i due veneziani e quello romano, con opere già di alta qualità raramente esposte insieme, anche se il suo piatto forte sono quelle, spesso ubicate in sedi non facili da raggiungere, dipinte in Spagna, quasi tutte a Toledo dove il pittore, divenuto nel frattempo El Greco, resterà fino alla morte nel 1616. È a Toledo che avverrà il grande cambiamento che porterà alla definizione di uno stile che lo renderà inconfondibile, grazie alle commissioni di importanti retablos che gli consentiranno di esprimersi, sia pure tra qualche periodico contrasto come per il famosissimo Espolio, in opere di grande formato e ambizione con una crescente libertà di invenzione che non era stata invece compresa a Madrid, dove si era recato nei primi tempi sperando di poter partecipare alla decorazione dell’Escorial allora in costruzione. A Toledo invece, città imperiale fino al 1560 ma ancora vivace intellettualmente ed economicamente e meno condizionata dalle regole e dai gusti della corte, grazie anche al sostegno di influenti protezioni e amicizie, la sua creatività non ebbe in un certo senso altri freni che quelli che si imponeva lui stesso, pur nella sincera consonanza di dottrina e di sentimento religioso con le scelte ufficiali in materia di fede e di arte della Controriforma oltre che con i gusti dei suoi committenti, usando “magistralmente le formule emozionali per metterle al servizio della fede” (id.).

 

 

Le sue opere infatti intendono portare l’osservatore (il fedele) ad aderire emotivamente alle scene rappresentate, e persino a entrarvi, come se fossero, più ancora che rappresentazioni o visioni mentali, scene a cui egli stesso partecipa, spazi e azioni che è chiamato a condividere. I gesti e le posture delle figure sono scelti per guidare il suo sguardo, come l’indice puntato verso il fulcro della scena nel Cristo portacroce, e suscitare la più intensa commozione. La lezione dei grandi veneziani si sposa con quella elaborata dalla retorica dei predicatori; tra le scene sacre vengono preferite quelle più dolorose in ragione della loro potenzialità patetica, per indurre a meditazione, pentimento e preghiera.

Il corpo, veicolo indispensabile a visualizzare l’esperienza spirituale, subisce deformazioni, si allunga, si contorce, e insieme si spiritualizza: è il luogo dove la spiritualità si manifesta e lascia il suo segno, come le stimmate degli stupendi San Francesco a cui in mostra è dedicato spazio a sé, e che poi si sprigiona sotto forma di lacrime di commozione e estasi.



Non si contano gli occhi umidi rivolti al cielo, i nasi arrossati (oppure dritti e sottili, che a furia di essere rivolti in alto si appuntiscono come di tanti incipienti Pinocchietti), le palpebre gonfie, le labbra socchiuse spesso ridotte a uno sbaffo informe di carminio, e le mani contorte o atteggiate nei modi più espressivi, dove ciò che conta sono appunto solo il gesto e la postura, non la fedeltà della loro rappresentazione, che anzi spesso è volutamente approssimativa, non naturalistica, ridotta a segni affusolati senza articolazioni, a lunghe tracce di pennellate pure.

 

 

Come fa con le regole della verosimiglianza codificate da Vasari e dai classicisti (da cui tuttavia prende senza risparmio e trasforma ciò che gli serve), così trascura sovranamente anche le leggi della fisica: in preda a un trasporto antigravitazionale, ciò che dovrebbe cadere (coltelli sui bordi dei tavoli, agnelli e bambini in grembo a sante e Madonne, ecc.) se ne sta bellamente in equilibrio sull’orlo di un precipizio incombente ma che non si dà direttamente a vedere, mentre lo spettatore sarebbe indotto a precipitarsi in loro soccorso per impedire qualche disastro; tutto si precipita verso l’altezza, si affina e si affila e si confonde, come i piani spaziali che trapassano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità o viceversa con confini così marcati da indurre a pensare che abbiano anche la funzione di impedire al fedele non di smarrirsi e che l’angoscia spaziale offuschi il trasporto emozionale e la preghiera; le figure si rastremano, le teste rimpiccioliscono, e non importa se questo dipende anche dall’imponente misura delle opere e asseconda la loro collocazione elevata, tanto che anche lo sguardo dello spettatore-fedele si orienta da sotto in su, teso verso l’alto, verso i cieli, la musica celeste, la gloria, la luce senza difetti, eterna.

Il desiderio è tutto orientato lassù: gli sguardi di San Pietro e della Maddalena, penitenti che attendono solo il perdono e la salvezza; quelli degli apostoli e di Maria nella Pentecoste; di Gabriele annunciante; di san Francesco che riceve le stimmate e del povero che riceve il mantello da San Martino; e quello stesso di Gesù nell’orto degli Ulivi, o mentre porta la croce e soprattutto nel momento più tremendo del supplizio, che supera la disperazione per indirizzare al Padre la propria serena sopportazione, l’accettazione del carico di redenzione che gli è stato affidato.

In alcune opere il suolo e i riferimenti spaziali spariscono e tutto lo spazio della tela è saturato di figure e di masse di colori acidi in accostamenti imprevedibili, abbaglianti, che sembrano avvolgere anche chi osserva; in certe Annunciazioni il pavimento e i soffitti spariscono, le pareti sono sfondate, i tendaggi sembrano materializzarsi o dissolversi in fiotti di luce e tutto l’empireo precipitarvisi dentro.

E quando compaiono, a volte persino i paesaggi e le città che si intravedono in lontananza nelle scene di santità e martirio o dietro la croce, tutti bassi sull’orizzonte, lividi, spettrali e come disabitati, verso cui si dirigono gruppi di persone a piedi e a cavallo con qualche abito e vessillo a dare le uniche macchie di colore a uno spazio quasi monocromo su cui incombe il buio fitto trapunto di squarci biancoazzurri contro il quale si stagliano, gigantesche, la croce e la bianca, estatica vittima sacrificale che vi è inchiodata, sembrano ridursi a pure forme, a linee che si incidono in masse e macchie di colori scuri, fantasmi di edifici e di colline, ombre che invadono la terra come le nubi nere dei cieli tempestosi o notturni che li sovrastano.

Spazi e piani prospettici e pittorici differenti convivono o trapassano gli uni negli altri in vortici di movimenti e di forme. A volte sono separati da qualche elemento naturale (un tronco, la volta di una grotta, il confine di una roccia o di una nube…) o solo da pennellate o linee colorate, o dalla disposizione verticale (non solo tra terrestre e celeste, tra immanenza e trascendenza) delle scene rappresentate, ma anche dalla contemporaneità di più azioni chiuse in spazi autonomi ciascuno con la propria luce e focalizzazione e però collegati da tonalità omogenee e armoniose anche quando drammatiche sono gli episodi narrati, come nell’originalissima Orazione nell’orto degli Ulivi.

 

 

In alto invece i cieli sono invasi da tutto un cosmo angelico, che segue le correnti ascensionali celesti e poi si installa tra le nubi a suonare, volteggiare e divertirsi in giochi tutti suoi, meravigliosi, e proprio così rendendo maggior gloria a Dio. Le posture sono spesso arditissime, in certi casi sbucano dalle nubi e dai margini del quadro solo corpi a pezzi, gambe senza torsi, frammenti di spalle e schiene, teste e piedi isolati come nel quadro di Frenhofer in Balzac, ali piegate in direzioni incompatibili tra di loro, che non si capisce come siano connesse ai corpi nella loro attaccatura e funzionalità anatomica, ammesso che sull’anatomia degli angeli qualcosa si possa dire, ma efficaci, sorprendenti e gradevolissime dal punto di vista pittorico.



In alcuni quadri proliferano tanto da far pensare che siano loro i veri protagonisti, che la loro gioia, il loro eterno concerto siano gli stessi della pittura, nelle loro masse in vorticoso movimento, con gli abiti coloratissimi capolavori dell’atelier celeste al suo massimo fulgore, o mentre si addensano a migliaia e si confondono fino a non distinguersi più l’uno dall’altro e a dissolversi, vaporosi e informi come nubi, quasi che tutta l’aria non fosse composta che di loro, un infinito pulviscolo angelico che satura l’atmosfera e che noi stessi, guardandoli, forse respiriamo.

 


El Greco. Un pittore nel labirinto, a cura di Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon.

Milano, Palazzo Reale, chiusura prorogata al 25 febbraio 2024.
Catalogo El Greco. Un pittore nel labirinto, a cura di J. A. García Castro e P. Martínez-Burgos García, Skira, 2023.

 

Didascalie

1 Trittico di Modena, 1567-69 circa. Modena, Galleria estense

2 San Luca, 1602-1605 circa. Toledo, Cattedrale primaziale

3 Ritratto di Jerónimo de Cevallos, 1613 circa, Madrid, Museu Nacional del Prado

4 Annunciazione, 1576 circa. Madrid, Museu Nacional Thyssen-Bornemisza

5 Spoliazione di Cristo, 1582 circa, Toledo, in deposito presso il Museo de Santa Cruz

6 Cristo che porta la croce, 1585-1590 circa. Barcellona, collezione privata.

7 Foto allestimento con 3 quadri di San Francesco. Foto: Roberto Serra, courtesy: MondoMostre

8 Ritratto di Hortensio Paravicino (dett.), 1609 Boston, Museum of Fine Arts.

9 San Luca (dett.), 1602-1605 circa. Toledo, Cattedrale primaziale

10 Cristo agonizzante con Toledo sullo sfondo, 1604-1614 circa. Colección Banco Santander

11 Adorazione dei pastori (dett.), 1605 circa. Valencia Museo del Patriarca

12 Madonna con il Bambino e le sante Martina e Agnese (dett.), 1597-99- Washington. D.C, National Gallery of Art, Widener Collection

13 L’incarnazione, 1596-1600 circa. Madrid, Museu Nacional Thyssen-Bornemisza

 

 

 

 

 

 

 


13/07/24

Uccelli sul plexiglass


 

 


Su certe pareti in plexiglass che costeggiano autostrade e ferrovia sono stampate sagome di uccelli, alcune geometriche, senza sbavature, che sembrano balestre, altre dalle grandi ali sfrangiate spalancate, con le remiganti visibili una ad una e il becco adunco (aquile? falchi?, predatori, in ogni caso). L'intenzione, oltre a quella primaria di schermare i rumori, dovrebbe essere al contempo di vivacizzare la parete trasparente e di renderla visibile, per segnalarne la presenza agli uccelli di passaggio o locali, un modo di dirgli di starsene lontani: achtung, è pieno di rapaci qui! si rischia la vita!, per evitare che ci finiscano contro, storditi come sono a volte, confusi dagli artefatti umani o persi dietro le loro fantasie di spazi vuoti e cibo e danze di corteggiamento o per il puro piacere del volo fine a se stesso (fottuti esteti!), e di spiaccicarsi, schiacciando quelle loro fragili testoline , o spezzando un'ala, lasciando grumi di materia arrostita dal sole e scie di sangue smaltato. Eppure a me è proprio questa l'impressione che danno le pareti quando le guardo di lontano, con la coda dell'occhio. Pareti di uccelli spiaccicati. In bianco e nero se non altro. Poi però, se fisso per un attimo la mia attenzione, senza voler per forza riconoscere, sezionare e definire, e poi chiudo gli occhi e torno anch'io alle mie fantasie, quello che vi trovo è solo la visione, non più fugace, di un altro cielo. 

 

 

05/07/24

Dario Voltolini, Invernale

 

La storia di Invernale, l’ultimo libro di Dario Voltolini (La nave di Teseo, 2024), comincia in un mercato, con la sua folla che si muove e si spintona tra i banchi, come è visto da qualcuno che vi passeggia, o sta riprendendo con una telecamera. Lo sguardo indugia sulla fantasmagoria di merci e persone, segue contrattazioni, acquisti e scambi di battute, finché non si arresta davanti al bancone di una macelleria, di cui vengono descritti nel dettaglio la varietà di carni e le modalità della loro “fabbricazione”, mediante i gesti veloci e precisissimi di uno dei macellai. Al quale, tuttavia, a un certo punto la mano scivola per una presa difettosa mentre sta per disossare un castrato, così che il coltello la colpisce tra l’indice e il pollice fino quasi a staccarlo. Tra la carne ferita e quella dell’animale non c’è più distinzione, il sangue si mescola e tra i due per un attimo si consuma una specie di alleanza sacrale, come la macellazione tradizionalmente è sempre stata. Poi intervengono i soccorsi. L’autore e vittima di questo ferimento è il padre del narratore.

La storia comincia dunque con un incidente sul lavoro, che è anche, si sarebbe detto una volta quando il bel simbolismo psicanalitico aveva ancora corso, un’autocastrazione simbolica, da parte di qualcuno che, per vivere, sulle sue vittime sacrificali compie ogni giorno, “il gesto che in casa non si può fare, quello del decapitatore”. Castrazione simmetrica a quella inversa, di stampo olimpico si direbbe, operata sul padre ad opera del figlio-narratore, che non a caso decide di cominciare con questo episodio, ma che compare, bimbo innocente, solo alla fine del capitoletto che narra questa scena che è insieme di apertura e originaria, mentre a casa dei nonni, sempre non a caso, con operazione a sua volta simmetrica a quella del narrare e uguale a quella che noi abbiamo appena inaugurato aprendo il libro, sta leggendo sul “Reader’s digest” un testo intitolato, con dolorosa ironia, Una giornata che non dimenticherò mai.

Il libro racconta cosa accade dopo questa scena primaria fino all’epilogo estremo, seguendo le conseguenze insospettabili della ferita e disegnando in modo discreto quanto memorabile la figura del padre attraverso gli occhi del figlio che cresce fino alle soglie dell’età adulta.

Ma non c’è, in esso, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nessuna volontà, o necessità, di riparazione simbolica, non c’è nessuna ricucitura da operare, come quella a cui viene sottoposto il pollice ferito e che lo salva. C’è piuttosto la volontà di celebrarlo, di tramandarne la memoria prima che svanisca a sua volta, prima che non ci sia più nessuno a ricordare, tanti anni sono passati dalla sua scomparsa. Non c’è riparazione perché non ce n’è bisogno, perché il rapporto tra padre e figlio è sempre stato affettuoso e mai conflittuale. Eppure forse sì, anche, perché di una riparazione c’è sempre necessità con un padre, e soprattutto con un padre perso in età ancora relativamente giovane: forse ricordare e narrarne la malattia e la morte solo dopo più di quarant’anni anni, vuol dire aver trovato il modo di fare pace se non con la persona morta, con la sua memoria, e con i rimorsi che la morte sempre comporta, con i sensi di colpa che insorgono sempre anche se nessuna vera colpa c’è stata, se non quella, capitale, di essere sopravvissuti. E poi di aver continuato a vivere per anni, per decenni, con i ricordi che si sfilacciano, sfumano e si prendono le loro pause, ma che sempre si riavvolgono e si attorcigliano altrove, chissà dove, fino a quando non viene il momento di sdipanarli, che coincide con la maturazione del modo per farlo: non solo delle cose da riportare alla mente e da rivivere, cioè, ma della voce, del sentire, doppio o forse triplo: quello di allora, quello del presente, di “ciò che sta prima della scrittura, quella specie di stupore che cerca una soluzione e poi la trova” appunto scrivendo, e di tutta la congerie ammassata nel tempo intercorso, che magari si decide di tacere, ma che continua a depositarsi, che conta e pesa lungo tutta l’esistenza. Una riparazione simbolica nei confronti del proprio passato, quindi, una ricucitura delle proprie ferite sempre pulsanti, da qualche parte, in fondo.

Il dito del padre invece viene ricucito, ma la sua vita proprio allora comincia a spezzarsi, senza che nessuno al momento, e per un lungo lasso di tempo, se ne accorga. L’invisibile la contagia. Un batterio la contamina, inavvertito, quando il sangue della ferita si mischia con quello dell’animale, in una comunione che si rivelerà mortale. Ma prima il percorso della malattia si manifesta solo come “un velo di stanchezza” a cui, da uomo di grande esuberanza qual è, il padre non dà peso, “un senso di spossatezza che sa gestire” ma che si rafforza con gli anni, accompagnato da cambiamenti nel comportamento, di piccola entità ma significativi, a cui nessuno fa molto caso. Intanto le cose cominciano a “perdere senso, assottigliarsi, sfigurarsi”, anche se a lungo “le persone ancora no”; il mondo rivela nuove facce; il tempo prende altri ritmi. L’attesa, “che è sempre lì sotto le piastrelle ma che poi emerge tutta insieme in un certo punto”, diventa la condizione dominante.

I fastidi aumentano, sintomi che inducono a visite mediche che sfociano solo in diagnosi vaghe, incerte, come timorose di definirsi, e quindi nella necessità di esami sempre più accurati, con la relativa trafila di specialisti che approda alla chiarezza definitiva, che chiude ogni spazio alla speranza. Anche se qualcosa si può sempre ancora tentare e sperare, perché la scienza sta facendo grandi progressi… Ed ecco allora i viaggi in Francia presso la clinica più all’avanguardia del tempo, le cure sperimentali che sembrano vincere alcune battaglie, ma non fanno altro che prolungare la guerra: metafora che Voltolini declina in molte sfumature, sempre illuminanti.

Durante le assenze per le cure, il figlio ormai cresciuto, che sta per terminare gli studi liceali e poi si iscrive all’università, per un po’ sostituisce il padre al banco del mercato, come garzone dell’aiutante che di fatto ne prende le veci. Sostituzione simbolica mentre il padre è ancora vivo. È lui che glielo chiede, del resto, e il figlio si insedia, ubbidiente, al suo posto. Legittimamente, quindi, senza la colpa di averlo rimosso, o peggio eliminato; ma la colpa si insinua comunque in lui, pronta a manifestarsi a scoppio ritardato come il batterio nel sangue. Come la bomba che egli avverte in sé, ma che resta inesplosa, perché il padre stesso sembra neutralizzarla con le sue ultime parole, ma senza riuscire a disinnescarla, perché disinnescarla è impossibile, in quanto, come non dipende dal figlio, farlo non è nemmeno in potere del padre. Che peraltro è ben lungi dal sospettarne l’esistenza, sebbene proprio lui ne sia la causa, dal momento che gli ha dato la vita. È un conflitto, o una tensione, o una frattura, insanabile, che inerisce alla vita stessa, a dispetto di ogni possibile amore; una ferita a sua volta invisibile, per quanto il dolore, la perdita, il rimpianto, non cessino di segnalarla, e di impedire che venga ricucita.

L’unico modo per provare a farlo è raccontare, mettendosi direttamente in gioco nel racconto come personaggio e narratore. I libri che raccontano malattia e morte di un genitore negli ultimi anni non si contano. Libri che, se sono differenti perché ogni morte e ogni dolore sono singolari e irreparabili, a volte non lo sono come narrazioni. Questo di Voltolini si distingue non solo per lo sguardo originalissimo che i suoi lettori immediatamente riconoscono, ma per la sua consolidata tenuta stilistica e formale, che in questo libro raggiunge uno dei suoi vertici, al pari del precedente, bellissimo, Il Giardino degli Aranci (La nave di Teseo, 2022; vedi la recensione di Annalisa Ambrosio). Uno stile che intreccia una grande tenerezza con una capacità di straniamento che accosta sempre con lucidità ogni situazione, e però anche con emozione, che traspare discretamente solo in alcuni momenti, ma che di fatto è diffusa ovunque, con gradazioni spesso impercettibili, eppure decisive nel far vibrare il linguaggio, nel dare forma al suo stile. La narrazione è ellittica, senza transizioni esplicite, divisa in brevi scene dove ogni azione e riflessione sono saldamente ancorate a una densità essenziale; la voce è spesso commossa senza essere mai sentimentale o marcatamente tragica, con una sua levità anche nei punti più tesi, dove la vicenda affronta i nodi più dolorosi, dove non c’è spazio per illusioni e la vita rivela le sue trame, senza che per questo venga deprezzata o ripudiata. C’è sempre un’attenzione ai suoi meccanismi biologici e materiali, a come il tempo si dilata o si condensa, accelera o rallenta, a come tutto, fino all’infinitamente piccolo, segue il suo corso, terribile anche, ma mai esente da stupore, da un incanto e persino da una dolcezza che assume infinite forme, persino nel momento estremo.

Senza nemmeno un’ombra di tentazione trascendente, il discorso si dispiega in una andatura liturgica, e quasi sacra, come avviene, dopo la guarigione dalla ferita, per “l’atto della macellazione [che] ha ora in sé qualcosa che non si può vedere ma c’è: un incremento della sacralità e del rispetto che c’erano sempre stati”: descrizione che può essere applicata anche al modo di accostarsi alla memoria da parte dello scrittore, ai gesti del ricordare e alla misura della scrittura.

Che è priva di asperità, almeno in superficie, ma tramata da iterazioni linguistiche o espressive legate a un ristretto repertorio di temi e di campi semantici (il calcio, il corpo, il lavoro), spesso intervallate o variate a scandire ritmi non molto marcati, quasi in sordina, che cadenzano la lettura senza imporsi con una presenza ingombrante, con percorsi, echi, riprese sotterranee, non avvertite, o percepite appena e presto dimenticate, che rimangono nella memoria della lettura, più che del lettore, dettandone la scansione e le pulsazioni, il suo respiro complessivo.

Dettagli, minuzie, frasi, come alcune del padre, “buttate lì per dire, come constatazioni dotate di un significato di mero servizio. [E che] invece si installano in posti che hanno una solidità e una permanenza, nella vita di chi le ha ascoltate”, e, qui, lette.

Ci sono parole e parole: molte si dimenticano subito (anche se non è mai detto…); mentre altre, come quelle della sentenza pronunciata dal dottore nell’ultima visita (”Non c’è più niente da fare”), “ci passano dentro. Continuano a scendere e scenderanno per sempre”. Le parole della letteratura, anche se non comparabili a un contesto così drammatico, sono, o dovrebbero essere, come queste. Quelle di Invernale lo sono.

 


 

 

 

 

01/07/24

Alzare la testa (Camminare, vecchi appunti)



Alzare la testa (altri appunti su camminare ripresi e aggiustati)

Quando si cammina, alzare la testa è la cosa più bella.
Non sai a cosa vai incontro, cosa verrà ad aprirti gli occhi e i sensi, a spalancarli, a sorprenderli. Ma non sai nemmeno cosa porti con te, cosa estrarrai dalla tua bisaccia quando, alla cieca, vi affonderai le mani, ogni volta che ne avvertirai l’impulso, o il bisogno, ogni volta che ciò che ignoravi, venendoti incontro, te lo richiederà.

Camminare, quindi, con la stessa attenzione fluttuante dello psicanalista. Finché qualcosa arriva e la accogli.
Dire, come Eva, “Sì, albero, serpente, cielo”. “Sì, mela!”, come conferma allungando il braccio a coglierne una dal ramo carico che pende sopra di lei.
L'accoglienza è sempre seconda. E' la ripresa a dare esistenza. Mette tutto in circolazione, toglie le cose dalla loro solitudine, dall’informe in cui si perdevano e confondevano con tutto il resto, e le accoglie nella vita, così che esse stesse, pur restando ciò che sono, e anzi cominciando finalmente a esserlo, possano a loro volta accoglierci, e noi trovare, presso di esse, una sede, un rifugio, accucciarci alla loro ombra, sostenerci al loro corpo, inciampare nel loro enigma, cadere nei loro tranelli, e lì giacere. O sollevarsi, salutare e andare.
 

Fusione, afflato, trasporto, empatia, pienezza, vuoto, serenità, quiete, quella roba lì. Molto bene. E ora passiamo ad altro.