Non ci sarebbe nessunissima ragione per farlo: il mondo, le guerre, la gente, il nostro miserabile paese e i miserabili che governano questa provincia di docili cagnolini ai margini dell'impero, di qualsiasi impero presente e futuro, i folli e gli assassini massacratori che decidono tutto, il caldo, l'età, l'assoluta piattezza e monotonia dei giorni da molti anni a questa parte, eppure, mentre camminavo cercando l'ombra, a un certo punto mi sono accorto che stavo fischiettando una canzone dei Beatles. E tutto gratis.
A spasso nella caverna - Blog di Luigi Grazioli
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
26/06/25
16/06/25
Storia non raccontate
Sono decenni, praticamente dall’adolescenza, che non racconta niente a nessuno (tranne questa che ora racconta a me, chissà perché), e anni e anni che nessuno racconta niente a lui. Cioè parla, lui, e parlano gli altri, qualche volta, ma in pratica raccontare, dire davvero qualcosa, e sentirne, non si ricorda l’ultima volta che gli è capitato. Persino con il suo migliore amico, l’ultimo, morto anni fa, era tutto un parlare indiretto, un raccontare altro, per cenni, un continuo cazzeggiare. Diffusamente non ci riuscivano. Per esempio, l’amico, certe cose della sua infanzia, importanti, mica scemenze, gliele ha raccontate dopo vent’anni che si conoscevano. Ah, questo non lo sapevo!, gli ha detto lui. E l’amico: davvero? Credevo di avertelo raccontato più di una volta. No. Probabilmente nella sua testa gliel’aveva raccontato, ma a voce, di persona, no. Si capisce che una volta raccontato nella testa, gli bastava. Era come se l’avesse fatto davvero. Anche a lui capitava così. Ma questi dialoghi di cose non dette, queste storie mai raccontate, non si sa perché, cementavano la loro amicizia. Finché non c’è stato più occasione di raccontare niente, e entrambi vivono, ciascuno a modo suo, in un mare di storie azzerate.
08/06/25
Giampiero Comolli, La foresta intelligente (1982)
La situazione di partenza di La foresta intelligente, primo romanzo del trentenne saggista milanese Giampiero Comolli, è quasi un concentrato di luoghi classici, ma fortunatamente non risaputi sono tanto lo svolgimento quanto la scrittura: in una Notte di Carnevale un Anonimo Soldato riceve l’Ordine Imprecisato di tenersi pronto per una Misteriosa Spedizione nell’Infinita Foresta del Nord, e da quel momento la vita sinora sonnolenta, ma soprattutto il suo modo di guardare, sentire e pensare il mondo comincia a modificarsi radicalmente.
Tutto il romanzo accompagnerà poi il soldato nella complessa rete di indagini, incontri, supposizioni, notizie, indizi, sorprese e sogni che lo porteranno alle soglie della partenza: preparativi al viaggio che però si trasformeranno lentamente a loro volta in un fantastico viaggio, - se non l’unico reale, l’unico possibile e narrabile, almeno per il momento.
Se infatti l’immensa foresta è l’ignoto, ciò che si apre al di là delle nostre attuali possibilità di conoscenza, può però sorgere anche la plausibile ipotesi che gli strumenti che nei preparativi il soldato di volta in volta scopre e appronta, le nozioni che sulla foresta viene apprendendo, di fatto lo trasportino già dal lontano geografico e immaginoso nell’altra faccia di ciò che costituisce il nostro mondo presente e reale.
Non per nulla il libro si conclude sulla felicità della doppia conoscenza che il soldato ha acquisito che gli permette di conoscere, ormai, “oltre alla ‘sua’ vita particolare, (...) anche questo frammento di una seconda terra, dove dei personaggi ignoti appaiono per un momento nel trascorrere della loro vita simile-dissimile” dalla sua; seconda terra che appunto è già la foresta, forse, ancora prima che in essa si sia entrati.
La ricerca di questo pensiero nuovo e differente, che trasforma completamente ciò che appariva noto e isterilito, è il motore principale di questo romanzo, non solo, o non tanto, dal punto di vista tematico, quanto soprattutto a livello stilistico, emotivo e percettivo. Comolli, nel solco di quella che si è convenuto chiamare crisi della razionalità, si era già occupato di questi problemi in alcuni dei saggi che viene pubblicando da alcuni anni sulla rivista Aut aut; ma mentre alcuni studiosi si erano rivolti specialmente al riesame dello statuto e dei fondamenti della scienza, egli, con altri, aveva rivolto la propria attenzione in particolare ai rapporti tra filosofia e letteratura.
Senza nulla togliere al valore di questi suoi contributi, credo però che il suo apporto più importante, anche dal punto di vista teorico, consista proprio in questo romanzo, che non per nulla è l’unico inserito in una collana sinora esclusivamente saggistica. Importante perché è proprio con un romanzo che Comolli tenta di misurare quegli spazi nei quali la filosofia non era ancora giunta, pur avendolo a più riprese tentato; ed è in questo che consiste il metro della sua ambizione, e anche della sua originalità.
Finora infatti, sebbene la complicità tra filosofia e letteratura sia sempre stata profonda, e anzi (come sostiene nella postfazione Franco Rella) “nel nostro secolo, la letteratura abbia addirittura occupato il luogo classico della filosofia, proponendoci un sapere che sfugge alle grammatiche filosofiche”, finora raramente era stata assunta come base di partenza e in modo così esplicito la maggiore ampiezza delle potenzialità romanzesche nel campo stesso della filosofia.
Una pretesa rischiosa, a meno di non essere avallata da buone ragioni, che consisterebbero, nel caso, nell’aver individuato la preponderanza e la produttività del discorso figurato tipico della letteratura laddove il quadro di un pensiero ormai consolidato comincia a non essere più abitabile proficuamente e si tentano nuovi percorsi; non solo in campo filosofico stretto, ma anche, per limitarci alla modernità, nella psicanalisi e nelle scienze umane. Solo che, se prima a questa lingua si faceva prevalentemente ricorso come a un’ultima spiaggia, ora sempre più c’è chi la adotta, senza per questo rinunciare alla ragione, come apertura inaugurale, come fa appunto Comolli. Questo gli premette di scrivere un romanzo nel quale la componente filosofica non si esplicita, come già classicamente, in inserti più o meno separati, in riflessioni e dialoghi di andamento saggistico, ma confluisce totalmente nella scrittura romanzesca stessa: nelle varie scene, nei personaggi e nelle descrizioni.
Credo anzi che consista proprio in questo la qualità principale del libro: nel fatto che, volendo, lo si potrebbe leggere come puro romanzo di tensione misteriosa, tessuto in un “principio alterno di malinconia e meraviglia”. Credo infatti che il pensiero dal “doppio sguardo” al quale, in un mosaico di immagini, approda come nuova esperienza della realtà il protagonista, non consista tanto nella rete (a volte troppo insistita e quasi meccanica) di paragoni e figure che costituisce il suo vissuto, quanto piuttosto nella duplicità della narrazione stessa: soltanto in essa, propriamente, il soldato può affermare, in un “sentimento oscillante fra una dolcissima tristezza e un godimento pieno di stupore, lì, in quell’alternanza sospesa del sentimento, lì, delicatamente, io sono”.
Giampiero Comolli, La foresta intelligente, Cappelli, Bologna, 1981
20/05/25
I miei demoni oggi hanno deciso di non seguirmi
I miei demoni oggi hanno deciso di non seguirmi. Quando mi sono preparato per uscire mi hanno detto che preferivano restare a casa. Non ho insistito. E’ gente tranquilla ma ostinata. Facciano quel che gli pare, io esco. Più che cani infernali, sono animali da compagnia e non sempre apprezzano che io scelga di evitare i luoghi affollati e inoltrarmi lungo stradine e in boschi dove se si incontra qualcuno è come me, che finge di non vedermi e si volta dall’altra parte. A loro invece non dispiacerebbe, ogni tanto, fare conversazione con i loro simili, scambiarsi osservazioni e esperienze sui relativi padroni, chiamiamoli così, perché più che tenerli prigionieri e fargli fare quello che vogliono loro, spesso sono loro che li chiudono nelle loro segrete e li obbligano a giacere lì, in quelle celle buie e umide, loro abituati al fulgore rovente delle fiamme. Gli è stato assegnato un compito ingrato e se la devono cavare come possono, con gli scarsi strumenti a loro disposizione, sottoposti a una doppia tirannia, quella di chi li ha inviati lì, per una paga scarsa o nulla, e quella del corpo repellente e capriccioso a cui sono stati assegnati. Uno ha un bel dire che un corpo è una robetta fragile e malleabile, facile da influenzare. Bisogna stare attenti, dosare le misure, le spinte, i metodi di invasione, perché se no si creano resistenze, o, peggio, si finisce per essere sconfitti da un eccesso di vittorie. Se l’invasione infatti è totale, il soggetto perde quel minimo di controllo che garantisce la partecipazione volontaria indispensabile e il conseguente senso di colpa e i bellissimi rimorsi. Si abbandona al loro governo, che non è certo illuminato, e declina ogni responsabilità. Fate voi e non rompete il cazzo. Per lavorare bene, hanno bisogno della sua collaborazione. E’ paradossale, ma preferiscono un eccesso di resistenza a una vittoria in tutti i campi. Ogni volta che ne rompono una il lavoro prende un senso, ogni metro conquistato è una soddisfazione. Vedere come questo esserucolo lotta e poi cede, e una volta sconfitto, si dibatte tra lo zuccherino che gli è stato concesso e il veleno che lo accompagnava, è uno stimolo anche per loro. Quelli che si vantano di facili vittorie sono degli stupidi, avventizi alle prime armi. Se li stanno ad ascoltare è solo per compiaciuta compassione, o per scambiare due parole se è da tanto che sono ridotti alla mia silenziosa compagnia. Io di solito faccio finta di niente, infatti, manco li sto ad ascoltare, o altrimenti la metto sul ridere. Non c’è niente che li fa imbufalire di più. Come mi permetto? Oppure cedo come se niente fosse, distratto e pronto a dimenticare subito. Ma preferisco non cedere, è chiaro. Dimenticare è fatica. Però ogni tanto lo faccio. Devo farlo, dargli questa soddisfazione, così li metto a cuccia per po’. Sono vanitosi. Credono di essere chissà chi. E invece non sono altro che manodopera generica, strumenti in mano a chissà chi, al di là delle gerarchie di cui non vedono il vertice, né se questo vertice è a sua volta manodopera di chissà chi altro, sia pure più specializzata. Speculazioni metafisiche che non gli interessano peraltro, impegnati come sono a sfangare le incombenze quotidiane. Qualche cedimento allora me lo concedo. E poi non è il caso che me la tiri troppo nemmeno io. Non sono così forte da non sentire pressioni e da superare ogni ostacolo. Mi barcameno. Sinceramente non do grande importanza alle proposte che mi sottopongono, ma alcune talvolta sono piacevoli, altre mi prendono di sorpresa e mi accorgo di averle seguite solo a cose fatte. Lì un po’ mi dispiace, mi pento, mi faccio qualche rimprovero. Ma in genere manco li sento. Però me li porto appresso abbastanza volentieri, in linea di massima. Se non mi vogliono seguire, peggio per loro. E che diavolo!, esco da solo.
1) Signorelli, Storie dell'Anticristo (dett.
2) Rutilio Manetti, Tentazioni di Sant'Antonio Abate
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02/05/25
L'acqua alla lettera
a) Il mio amico Federico mi chiede di scrivere un racconto sull’acqua
Non mi piacciono le cose che, anche prese alla lettera, sono già metafore. Tanto più che, in genere, sono quelle di cui è impossibile fare a meno. E io non sono mai riuscito ad accettare fino in fondo che di qualcosa sia impossibile fare a meno. Ma ovviamente, poiché di farne a meno è impossibile anche a me, ne sono attratto nella stessa misura in cui ne diffido. Ne diffido non solo perché dipendo da esse, ma anche perché mi sfidano su un terreno troppo vasto, che non posso controllare, dove rischio di perdermi ancora prima di riuscire a incontrarle. E mi attraggono per lo stesso motivo. La loro forza sta nel fatto che, quando credi di averle trovate, ti sfuggono da tutte le parti, come acqua dalle mani, ogni volta che cerchi di afferrarle. E del resto anche afferrarne un lembo, accontentarsi di coglierne un aspetto, oltre che insoddisfacente, è ancora cedere al loro potere, restarne prigioniero, esserne ostaggio, nonostante che spesso quanto ci è concesso non si riduca che a questo. Ma è appunto questo che mi fa imbestialire. L’onnipotenza o niente (mi dico consumando l’obolo che mi viene distrattamente gettato tra i piedi). E intanto il nodo di diffidenza e attrazione si stringe sempre di più e loro si stagliano sempre più gigantesche davanti a me. Beffarde. Ben mi sta.
Ne diffido e mi attraggono perché mi fanno paura. Ho paura della paura, ma a volte mi piace. Così a volte distolgo lo sguardo, fuggo; altre invece resto medusato, incapace di fare alcunché ma con tutti i sensi acuiti, con la testa percorsa da innumerevoli piccole scariche che schizzano incontrollabili in ogni direzione. In questi casi prima cerco di prestare attenzione a tutte, poi, chissà perché, qualcuna mi resta incollata addosso o mi cattura nel suo gorgo, e così, senza accorgermene, comincio a muovermi e quando me ne accorgo sono già abbastanza avanti da non sapere più come, e a volte da non volere, tornare indietro. Allora non mi resta che lasciarmi trascinare da esse, attraversarle e esserne attraversato, in una specie di panico attivo. Sono tutto meno che intrepido: lo faccio perché devo farlo, perché senza di esse non si vive (non si pensa, non si parla). Queste sono le cosiddette cose elementari.
Più una cosa è elementare, meno è possibile prenderla alla lettera. Meno puoi prendere alla lettera una cosa, più difficile diventa parlarne. Si potrebbe pensare il contrario: più immagini e connessioni una cosa suscita, più spazio hai per muoverti e più materiale a disposizione. Ma sarebbe un errore, almeno per me. Più una cosa è elementare e meno è a tua disposizione: semmai, sei tu a disposizione sua. Una cosa elementare non è un materiale. Né uno spazio libero in cui muoverti: meno sono visibili i vincoli, più forti sono e più facilmente ci si ritrova ingorgati. Lo stesso avviene con le parole.
Non considero il passato (le immagini) come un magazzino teatrale al quale attingere allegramente ciò che mi serve né le parole come altrettanti costumi da indossare, come faceva Rembrandt, per rappresentare ciò che voglio, ammesso che a Rembrandt i costumi interessassero veramente. Anche se poi si finisce per farlo comunque; ma non è una scusa. E poi io non sono Rembrandt (lo si era già capito). Piuttosto preferisco immergermi e percorrere tutte le strade, senza darlo a vedere (senza citare: allora le uso anch’io come costumi per nascondermi, o meglio come falso bersaglio per scremare i distratti, quelli il cui sguardo scorre sulle parole come l’acqua verso valle, dei quali non mi curo di catturare l’attenzione. Se capita lo stesso, tanto meglio. Da ragazzo ho catturato, a bastonate, una grossa trota rimasta imprigionata in una gora dal ritrarsi di un torrente. Forse si era addormentata), per cercare di tracciarne un’altra, se possibile. E quest’altra deve partire da me, dall’esperienza, poca o tanta che sia, che io ne ho, della quale ovviamente le immagini e le parole fanno parte.
Serse Roma
b) Dichiaro che è impossibile. Poi lo scrivo.
A partire dalle immagini, invece, non si finisce più. Un’immagine non è niente da sola: anche una bella immagine, per quanto ci sia chi afferma di essere disposto a sacrificare parecchio per essa, se non tutto. Ma allora, non è più l’immagine che conta, è l’ossessione. Ammesso che dica il vero, e che non si inganni sulla verità di ciò che dice. Comunque, con l’acqua è impossibile persino cominciare. O si è sempre già cominciato.
L’acqua è ovunque, dal poema di Gilgamesh e dal Genesi a tutte le cosmogonie, dall’Iliade alla mia lista della spesa (acqua minerale non gasata, acqua demineralizzata per il ferro da stiro), dalle acque che si sono rotte perché io potessi nascere a quelle che rilascerò alla mia morte. Non ci sono vie preferenziali per attraversare l’acqua. A parte le correnti, i venti e il calore, cioè qualcosa che è in relazione con l’esterno, su cui però anch’essa influisce. L’acqua è ciò che attraverso senza tracciare strade e che mi attraversa lungo strade che ignoro. Mi avvolge e la avvolgo. Mi contiene e la contengo.
Io sono fatto d’acqua, ma lo so davvero solo quando ho sete e sudo. Quando ho sete bevo. E io devo bere molto, poiché soffro di coliche renali. Comunque bevo, e mi piace che l’acqua sia buona.
L’acqua che bevo deve essere pura. Cioè quasi pura. E questo “quasi” dell’acqua mi piace molto: quasi pura perché possa berla, quasi trasparente per vederle attraverso vedendo anche lei. L’aria non la vedo, se non raramente: la sento, la respiro; l’acqua la vedo sempre. (Il mio amico A. mi dice che la trasparenza di una cosa le deriva dall’essere composta di atomi che sono al nostro occhio invisibili e perciò non si manifestano come colore ma acquistano solo un valore di brillanza.) L’acqua pura non esiste, deve essere distillata apposta. L’acqua non esiste pura: anche la più buona deve contenere dell’altro. Pura, l’acqua è dannosa, per il mio organismo quantomeno. E, se non dannosa, poco buona. Perché mi purifichi, deve essere quasi pura.
L’acqua piovana invece non è buona da bere; neanche quella del fiume lo è, se non vicino alle sorgenti. Non è buona l’acqua che scende, lo è quella che sale. Ma prima di salire deve essere scesa, deve essersi resa invisibile passando attraverso la terra, che non è buona. L’acqua filtra attraverso la terra, scende piano, paziente, finché non trova un fondo, il suo. Lì si deposita e si accumula; quando il livello è troppo cresciuto, lentamente sale verso la superficie o lentamente scivola verso un altro fondo collegato al primo: arrivata lì, è buona. Ma ci vuole tempo. È da lì che bisogna farla salire per poterla bere. Se invece sale troppo, allaga il terreno e bisogna prosciugarla.
Quando ho bevuto, l’acqua si distribuisce nel mio corpo e poi ne fuoriesce. Tutta, o quasi tutta. Perdo acqua in continuazione, di solito senza accorgermene. Evapora. Mi piacerebbe vedere il mio corpo evaporare. Qualche strumento in grado di riprendere il processo ci sarà senz’altro, ma io, faute de mieux, mi limito a immaginarlo, e poiché è estate e fa caldo, lo immagino come il calore che esce dall’asfalto, che infatti allora sembra bagnato, in lontananza, e vivo. Vedo la mia pelle ingigantita, come un’enorme distesa offuscata da queste esalazioni che fanno impercettibilmente vibrare la peluria che la ricopre, a tratti densa e in altri rada, mentre in certe pieghe scorrono rivoli d’acqua. Fiumi, boschi, campi, pianura. Quella dove abito io.
Mi accorgo di perdere acqua solo quando sudo: allora non sono invisibili esalazioni ma gocce. Anche il sudore in genere è buono. Lo dico perché sono sano, non devo faticare quindici ore al giorno in miniera e non sono disperso nel Sahara. Il sudore è buono non solo quando è prodotto dallo sforzo di un corpo che ha il vigore per compierlo, ma anche quando cerca di ripristinare la temperatura corporea d’estate o durante le febbri («Prendi un’aspirina, mettiti a letto e fai una bella sudata», mi diceva mia mamma quando ero influenzato) e perché trasmette l’odore del nostro corpo a chiunque in un modo o nell’altro vi sia interessato. Non si sa mai.
Quando sudo, o comunque mi sento sporco, mi lavo. Ma l’acqua da sola non lava. È un discreto ma blando solvente e uno sgrassante deficitario. Lavarsi può essere fastidioso (quando fa freddo, per esempio), ma in genere è piacevole, specie al mattino, appena svegli. Di solito io mi alzo allegro, e l’acqua mi fa buona compagnia. Mi piace anche farmi la barba, pelo e contropelo, con devozione, e quando le guance sono perfettamente lisce e morbide è bello sciacquarle con l’acqua fredda. Ho ricevuto il buonumore in dote alla nascita. Sono felice. Non scrivo perché la vita mi fa male (anche se una quota la versa anche a me); scrivo per aumentare la felicità, la mia in primis e eventualmente quella di qualcun altro. Non ce n’è mai abbastanza. (Il mio amico M., leggendo ieri questo passaggio, mi ha detto che devo smetterla di scrivere queste cose. Se uno dice di essere felice, insistendo come faccio io, non verrà mai creduto: cent’anni di psicanalisi saranno pur serviti a qualcosa! Si chiama denegazione, lo so. Ma io non pretendo di essere creduto quando scrivo. Se c’è una verità in ciò che uno scrive, non si esaurisce certo nella lettera. Comunque va bene: sono infelice. Molto infelice. Disperato. Così mi crederanno. Non il più disperato degli uomini. Meglio non esagerare. Se si dice a qualcuno di essere più disperato di lui, garantito che quello si offende. Allora diciamo che sono piuttosto disperato, ma un filino meno di ciascuno dei miei lettori. Così sono contenti tutti. Si scrive per questo, no?)
Mi lavo e canto, sottovoce. È la bellezza della doccia del mattino: le acque mi scorrono lungo il corpo, mi massaggiano e mi consegnano fresco a una nuova giornata nella quale, olimpicamente, non mi importa se combinerò qualcosa o il solito fico secco. E tu, Cielo, dall’alto dei mondi. Do re mi. Il bagno invece è meglio la sera, quando sono stanco, cioè quasi mai. È però la prima cosa che faccio quando prendo possesso della mia camera d’albergo dopo un viaggio. Faccio scendere l’acqua calda mentre disfo i bagagli e, quando è pronta, ci resto immerso fino a quando non mi sono abituato al nuovo luogo. E poi via! Quanto al resto, non sono un patito del bagno, neanche al mare, dove infatti di solito non vado.
Facevo invece molti bagni da ragazzo, al fiume, vicino al punto dove si incontra con uno dei due canali che lo costeggiano al mio paese. È un punto pericoloso, dove annega sempre qualcuno, come è accaduto proprio una decina di giorni fa, in modo banalissimo, a due ragazzi, due fratelli. A guardarlo così, senza pensare a niente, è un incanto. Ci vado ancora, da solo o con gli amici che vengono da fuori, a fare delle passeggiate, e tutti ne sono conquistati. C’è una pace! E invece ogni anno ci muore qualcuno, qualcuno ci annega o va ad annegare.
Una volta sono partito proprio da lì per attraversare il fiume controcorrente, nonostante fosse più rapido del solito. Nuotavo in diagonale, verso monte, per non rischiare di ritrovarmi dalle parti della diga che c’è più a valle. Poco oltre la metà del fiume, le forze hanno cominciato a mancarmi e così ho cercato di resistere meno alla corrente, pur senza assecondarla del tutto. Alla fine, stremato e vicino alla disperazione, sono riuscito ad aggrapparmi a un arbusto che sporgeva sull’acqua, ancora lontano dalla diga. Mi sono trascinato sulla sponda e sono rimasto lì, sdraiato in pendenza tra i cespugli, confuso e col batticuore, per non so quanto tempo. Con l’acqua è così.
Per tornare a riprendere le mie cose mi son dovuto fare un giro lunghissimo. Mancava ancora parecchio al tramonto, ma le nubi si stavano già preparando per il solito temporale serale. Avevo freddo. Dei miei amici, molti se n’erano già andati a casa. Mi sono rivestito in silenzio e mi sono seduto contro un albero a guardare il ponte alla mia sinistra, tranquillo adesso. Allora gli amici rimasti mi hanno chiesto cosa mi era successo. L’ho riassunto velocemente. Bel pirla, mi hanno detto, e si sono tuffati per un’ultima nuotata.
Eppure io ero convinto di aver capito qualcosa.