14/05/24

Monet in barca





Quando si parla di Impression, lever du soleil (1872), il quadro di Claude Monet da cui per tradizione si fa iniziare l’Impressionismo, o quantomeno il nome, a essere presi in considerazione sono principalmente la luce, l’acqua, l’aria, i riflessi, i colori. Un’attenzione meno approfondita viene invece prestata al porto con i suoi edifici e macchinari e soprattutto alle numerose imbarcazioni, a che tipo sono, alla loro grandezza, forma e funzione, se non come termini di riferimento spaziali e per creare profondità in un contesto in cui la prospettiva classica è assente, sostituita da quella tripartita, dall’alto in basso, sul modello giapponese. Eppure sono lì, elemento non minore della composizione, a riempire lo spazio con la loro presenza, a dargli corpo, articolazione e linee di forza, suddivisioni, a intercettare lo sguardo, a farlo inciampare. Anche lo spettatore comune tende a trascurarle.


Poi un giorno, magari dopo aver osservato e analizzato tutto il resto, ancora in preda all’emozione dell’insieme, uno le vede e come colto da un improvviso stupore (illuminazione sarebbe troppo) si chiede che razza di imbarcazioni saranno mai, che cosa ci fanno lì di preciso, a parte il fatto ovvio che in un porto ci stanno di casa. Ma se non è uno specialista o del mestiere, gli vengono in mente solo parole generiche e un piccolo mazzetto dei sinonimi più diffusi che dicono tutti la stessa cosa. Variazioni, sfumature: non vere e proprie differenze che segnalano specifiche identità. Certo, in questo quadro, sono quasi solo sagome incerte, fantasmi. Ma una volta formulata la domanda, non è poi facile eliminarla, e dal momento che le imbarcazioni sono presenti in molte altre opere, si comincia a cercarle e a provare a riconoscerle.

Già i quadri realizzati nel 1869 a “La grenouillère”, quelli che veramente inaugurano l’impressionismo, quando Monet va a dipingere sul fiume in compagnia di Renoir avviando una consuetudine che resterà viva fino ai tempi di Van Gogh, Seurat, Bernard e oltre (vedi Guzzoni qui), ne sono zeppi.

  

E altre ne seguiranno, nei numerosissimi quadri fluviali e marini della sua opera, dipinte spesso con attenzione e grande cura, talvolta anche in primo piano, e non solo perché l’acqua e il mare sono tra i soggetti da lui preferiti. E così vediamo ogni sorta di pescherecci, barche tirate in secco per l’inverno, chiatte, rimorchiatori, cabinati di vario tipo, case galleggianti, carghi, bastimenti a vapore e velieri.

Monet non trascura nessuna delle tipologie, in un mondo che sta vivendo molti cambiamenti anche nella marina, sia mercantile che militare, e nelle differenti funzioni economiche, abitative e di loisir, lussuoso o modesto che sia. È la prima volta, tra l’altro, che si vedono nei quadri tante imbarcazioni da diporto. L’accesso al loro possesso e al loro uso è cresciuto con l’affermazione della nuova borghesia, del tempo libero, delle vacanze al mare e lungo i fiumi, e dell’aumento dei porticcioli e delle attrezzature turistiche, e anche la pittura ne prende atto, Monet tra i primi che non trascurava nessuno dei nuovi aspetti della vita moderna. Era facile raggiungere le rive più amene della Senna a pochi chilometri dalla città portandosi tutta l’attrezzatura in treno per dipingere la luce e i riflessi cangianti degli alberi e delle acque e i loro riverberi colorati sugli abiti e sull’epidermide dei borghesi in vacanza, mentre un numero sempre maggiore di barche da diporto e da regata percorreva il fiume. A partire dalla prima metà dell’800 si erano diffusi i circoli velici e ad andare in barca per piacere, prima appannaggio solo degli aristocratici come quelli dipinti da Watteau, si appassiona anche la massa crescente di borghesi grandi e piccoli che si possono spostare agevolmente per fuggire dal caos e dall’aria irrespirabile dalla città sovrappopolata, verso una natura intatta che poi però si ritrova affollata di consimili fuggitivi, come gli innamorati disperati che gremiscono le valli deserte nel Don Chisciotte.

 


Tra quelle dipinte a c’è anche la barca-atelier, una barca larga con una cabina e una tenda che poteva essere srotolata per proteggere dal sole, che il pittore aveva allestito per poter lavorare in mezzo ai riflessi e agli effetti di luce creati dal fiume, immerso nel quadro che andava dipingendo, come è stato a sua volta ritratto, con un effetto en abyme, dall’amico Manet che ogni tanto andava a trovarlo.


Chi osserva i quadri di Monet può quindi farsi un’idea anche dei cambiamenti dei natanti e della molteplicità dei loro usi e delle loro forme. In Impression, lever du soleil però, vien da pensare, non è poi così importante distinguerle e etichettarle, a meno di non essere visitati dal demone della nominazione, peraltro sempre benaccetto.

Come è noto Monet non rappresenta ciò che vede, ma la sua impressione di ciò che vede, il modo in cui ciò che c’è lo impressiona, e impressiona proprio e solo lui, persona come le altre ma come ciascuna da tutte le altre differente, dandoglisi a vedere e insegnandogli a vedere sempre meglio, sempre di più. Per questo, nei suoi primi anni di attività, molti rigettano ciò che dipinge: perché quello che vedono, non corrispondendo alle loro impressioni che essi scambiano per la visione oggettiva della realtà, per loro è solo confusione che offusca ogni cosa, e di fatto la rende invisibile: mentre per Monet è l’invisibile in ciò che lo impressiona ciò egli, e lo spettatore con lui, deve imparare a vedere standogli in mezzo, e non di fronte, da fuori (da cui la necessità, e non il vezzo, del plein air) e che di fatto egli stesso comincia a vedere solo dipingendo.

Non è quindi alle imbarcazioni che Monet pensava in primo, e forse nemmeno in secondo o in terzo luogo, mentre creava Impression. E infatti anche i tratti che le caratterizzerebbero sono in quest’opera confusi, quasi cancellati, per lasciar luogo solo a linee e macchie di colore, perlopiù scuro. Forse in questa occasione non si è nemmeno preoccupato di rappresentarle nella loro specificità, come se non le avesse viste una per una, ma affogate nell’insieme, nella vibrazione della luce che si fa strada nella foschia del mattino, tra la nebbia e i fumi dell’inquinamento industriale e portuale emanati dalle ciminiere delle fabbriche e dai battelli a vapore, e nella infinita frammentazione dei riflessi che ne derivano. Non sarebbe pertinente chiederselo, quindi. Ma chi decide cosa è pertinente e cosa no? Intanto quelle imbarcazioni, quelle navi, le loro sagome, i loro corpi, ci sono. Uno guarda il quadro e le vede. Non può fare a meno di vederle. E poi è poco probabile che l’occhio così sensibile di Monet non le abbia guardate bene, e che, una volta viste, le abbia trascurate in modo così enfatico. Se dipinge luce colore e riflessi, e non cose; se va oltre esse e le trasforma in masse e linee di colori mutevoli, deve però averle viste, deve averne fatto una qualche esperienza prima di optare di dimenticarle, o di fare a meno dei loro tratti individualizzanti: prima di decidere che stavolta non avevano tanta importanza e di astrarre da loro. Non si opera un’astrazione dal nulla. E comunque loro sono lì, e nessuno le toglierà dal quadro, nessuno le cancellerà. Sono lì, e lo spettatore, con tutte le volte che ha visto, e anzi guardato, scrutato il quadro o le sue riproduzioni, forse non subito, forse solo con una coscienza vaga, ma infine vede anche loro. Vi si sofferma con attenzione. E da quel momento non riesco a dimenticarle. Non può fare a meno di pensarci, anche se fino a poco fa non era mai andato oltre. Ma una volta formulato l’interrogativo, gli diventato impossibile evaderlo. Che razza di barche e navi sono?, si ripete. Non si raccapezza. Fa fatica a orientarsi, come se brancolasse nel buio. Accecato dalla luce, ondeggia al movimento dello scafo, si aggrappa alla ringhiera, abbraccia l’albero maestro.

Tutte le cose che sono rappresentate nel quadro, sono meno cose avvolte dalla luce (fossero pure le luci della notte), che occasioni per vedere la luce che si materializza grazie ad esse mentre insieme le dà a vedere e le sgretola, le disarticola fino quasi a dissolverle, come dissolto è lo spazio, inteso come ambiente, come ‘contenitore’, scatola prospettica.

Barche, battelli e navi si confondono con le acque e l’aria, affogano nel colore, quasi smaterializzate, eppure restano lì, presenti, ancorate nell’immagine, necessarie, che affiorano come sono, che vengono all’esistenza attraverso l’azione del loro in un secondo tempo, in un tempo sempre successivo, ri-apparire, il quale però, a ben guardare (sì, proprio a ben guardare), è il loro reale manifestarsi, il loro venire ad apparire che è insieme il loro venire ad essere. Indispensabili nel loro stesso venir meno. La luce senza ostacoli è invisibile. Monet lo sa benissimo: non a caso in molte tele le imbarcazioni conservano una consistenza materica, anche se in Impression e in altre opere ancora tutto sembra disfarsi e diventare ombra, apparizione incerta, larvale.

Infine però qualcosa si comincia a distinguere e a riconoscere: ci sono due o forse tre velieri, un peschereccio, una sagoma che sembra una chiatta sulla sinistra, tre barche da pescatori, una che forse fa da guida alle grosse navi che escono dal porto quando la marea lo permette, altre piccole sagome che sembrano vele di imbarcazioni da diporto o da regata, come quelle presenti in altri quadri, che pullulano di barche da pescatori, chiatte e imbarcazioni da canale a fondo piatto con randa per il trasporto del carbone e di altre merci, e poi bastimenti, rimorchiatori, barconi da abitazione, dinghi, flying dutchman, yacht a 2 vele, cutter, feluche, mercantili a vela e a vapore, barchette e canoe con graziose signore ai remi… Una volta iniziata a passare in rassegna la vasta produzione del pittore, si scoprono decine, se non centinaia di quadri con questo soggetto, e lentamente qualcosa si viene a sapere. Si vedono le loro peculiarità. Si riconoscono forme e grandezze e funzioni. Si cercano e trovano nomi. E alla fine, le cose vanno a posto. E per un momento è tutto in ordine.





12/05/24

La vecchia storia di Dio e dei dettagli (appunti per niente 37)

 

Dio è nei dettagli (Mies van der Rohe); oppure “Dio si nasconde nei dettagli” che si raddoppia (o divide) in “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Questo ha più senso, perché nei dettagli stanno le insidie e perché il diavolo deve nascondersi. Altrimenti sarebbe Dio: ipotesi tutt’altro che da trascurare. Ma se così fosse niente distinguerebbe l’espressione dalle altre due. Che sono due espressioni a effetto, e quindi in fondo sciocchezze, anche se qualche verità la contengono, come tutte le sciocchezze.

Dio, se c’è, è nei dettagli come è in tutto: perché dovrebbe nascondersi? E’ nascosto solo per l’occhio che non vede, e che solo quando si apre a vederlo, non lo trova che nel dettaglio, per il semplice motivo che il tutto gli sfugge. Non è necessario che il dettaglio sia minuscolo o addirittura infinitesimo (se uno dice di trovarlo lì è per magnificare le sue diottrie). Il dettaglio è sempre in relazione a qualcosa di più grande, per cui anche la Terra può essere un dettaglio, come difatti è in relazione alla galassia e all’universo: infinitesimale, appunto, mentre per noi è tutto o quasi. Quando qualcuno trova Dio da qualche parte, è così contento da pensare di aver trovato tutto, e invece ha trovato solo ciò che ci ha messo lui, che può essere, per lui, immenso, certo, e allora lo chiama Dio, lo chiama tutto. Quello che ci ha messo è la misura di ciò che non vedeva, e al contempo di ciò che ancora non vede: chiamandolo Dio crede di aver trovato tutto, in modo piuttosto economico anche. Niente di male. Anzi: tutto bene. Una scoperta, una gioia, una piccola estasi. Tutto meraviglioso, lo dico senza ironia; finché non pensa di dargli un nome che lo riscatti dalla sua limitatezza e pensa che quella viene cancellata e si unisce al senza limite, che in quanto tale è confuso. Illuminazione, estasi, satori, dio, spirito. Tutte cose eccellenti, finché non coprono e non si mangiano tutto il resto. Che poi digeriscono, forse, e evacuano, di sicuro, da qualche parte, come tanti piccoli, o giganteschi, resti. Dettagli.

 

Naturalmente quella di Mies van der Rohe è solo un’immagine. E il mio è il commento pedante di uno stupido che si crede più intelligente e la legge alla lettera. Tipico degli stupidi. Il dettaglio è il dettaglio, lui sì alla lettera, anche se sta per tutte le cose piccole, che passano inosservate ecc.; mentre Dio è una metafora, una metafora paradossale dove l’incommensurabile sta per il commensurabilissimo, la bravura, l’abilità, l’arte e altre piccole miserie, o una sineddoche, del Tutto per una parte, cioè per un dettaglio (il Creatore per una creatura, o per il creatore dell’oggetto in questione). Ma l’immagine non è innocente. Non è semplicemente un’immagine, qualcosa che sta per un’altra, senza una lettera. E’ efficace perché c’è una lettera. Una lettera che, in questo caso, sembra venire dopo l’immagine che la usa, anche se questa lettera si riferisce a un prima, il Prima assoluto, o forse a un significante con un significato fortissimo, ma senza referente, che aspetta di essere costruito, edificato, designato proprio dall’immagine che così lo fonda… ecc. E lo stupido che commenta il commento, denunciando la propria stupidità per cercare di ovviarvi e sembrare, o forse essere, intelligente, continua invece a esserlo, al quadrato. E poi al cubo, e così via. E così via…

Resta sempre molto superficiale, si ferma (mi fermo) sempre troppo presto invece di andare avanti, come chi teme di non farcela e ha paura di smarrirsi, e proprio lì, di ritrovarsi di fronte, ma veramente!, ai propri limiti, alla propria limitatezza, e di vederla allora tutta, com’è davvero, senza consolazione, come è quella invece che promana dal suo vago senso, che evapora subito, lasciando nella propria scia un’altrettanto vaga e effimera soddisfazione. Quella che c’è ogni volta che si mette un punto. E si chiude senza ascoltare il richiamo che viene, insistente, dopo ciascuno di essi. Spunta sempre la paura.

 

06/05/24

Sull’invidia degli dei


Cosa avrò mai fatto per meritarmi tutto questo? Tutti ce lo siamo chiesto una volta o l’altra. Anche se sappiamo benissimo che per il dolore non c’è bisogno di nessuna colpa. Basta esistere.

A volte però, quando ci accade qualcosa di enorme e inspiegabile siamo noi a cercare un responsabile, accusando di preferenza qualche dio maligno, o anche benigno nel complesso ma non in quella occasione, che ci ha bersagliato per disegni suoi che ci sfuggono, o di cui vediamo solo il frammento limitato in cui si dibatte la nostra miserabile persona, la nostra povera anima.

O se non un essere divino, incolpiamo qualche stella o pianeta, di cui peraltro gli dei in origine erano stati incarnazioni secondo Giorgio de Santillana (Fato antico e Fato Moderno, Adelphi, 1985), credenza che condividiamo anche noi ogni volta che leggiamo un oroscopo, salvo poi dire che è solo superstizione. Ma la sequela di crudeltà che ci investe fa vacillare la fede nella nostra incredulità.

D’altra parte niente di minor levatura di un qualche abitante dei cieli può prendersi cura in modo così minuzioso, ferocemente mirato, di noi, del nostro corpo e delle nostre faccende sentimentali e finanziarie, che una certa importanza ce l’hanno, quanto meno ai nostri occhi. A volte è davvero troppo per andare a cercare altri responsabili più peregrini. Al massimo sono solo stupidissimi strumenti.

Tutte le civiltà concordano: se le cose vanno male, se ci sono la morte, il dolore, le ingiustizie, le guerre, è solo colpa di qualche dio. È così ovvio! Possono essere stati solo loro a mettere il mondo fuori sesto, a scombussolare l’armonia dei cieli, a portare il disordine sulla terra e tutte le magagne tra gli uomini. Prima non era così. Uomini e dei vivevano insieme, poi qualcosa si è guastato, e a guastarlo sono stati i più potenti, che ne avevano le forze, anche se a subirne i danni sono stati gli uomini, che quindi (l’equazione a posteriori è facile), qualche colpa l’avranno pure loro. Anzi ce l’hanno tutta loro, a sentire i piani alti. E quando, a dispetto di tutto, qualcuno vive felice, ha ricchezze, forza, salute, gloria e una grande discendenza, ai superni gli prende l’invidia, gli va di traverso l’ambrosia, e gliela fanno pagare.


 

È un sentimento che, se forse non risale fino alle origini, è certo molto antico, quantomeno da quando abbiamo cominciato a chiederci che cosa ci sta succedendo, cosa possiamo attenderci e perché. Le testimonianze millenarie in merito, scritte e orali, sono numerosissime. Non c’è verso di sfuggirgli. Il sospetto della malevolenza degli dei torna sempre. Dino Baldi nel suo notevole, filologicamente e filosoficamente sapiente, È pericoloso essere felici. L’invidia degli dei in Grecia (Quodlibet, 2023, p. 259), ne ha ricostruito la storia a partire dalla Grecia arcaica, incentrandola sull’espressione phthonos theòn, che si traduce di solito con “invidia degli dei” (ma ha altre sfumature) e illustrando in parallelo anche la storia della concezione della felicità e delle sue trasformazioni anche in relazione ai mutamenti della società e delle forme politiche e di potere. Perché anche la felicità non è sempre stata la stessa.

Baldi parte da Omero e Esiodo (nei quali peraltro lo phthonos theòn non è nominato), arrivando fino a Platone e alle filosofie ellenistiche e romane con uno sguardo che si estende fino al grande cambiamento apportato dal Cristianesimo, passando per Pindaro, Eschilo e soprattutto Erodoto, attraverso una messe molto cospicua (e bella) di storie, citazioni, analisi e raffronti. Alcune di queste storie sono note, tanto da essere diventate tradizionali e da aver dato luogo a numerose varianti, in tempi, luoghi e lingue molto differenti, come quelle di Gige e di Creso e di Policrate, tiranno di Samo, che per stornare la malevolenza degli dei sacrificò in mare il suo anello più prezioso, salvo poi ritrovarlo in un pesce portatogli in omaggio da un suddito, come a dire che uno può fare quel che gli pare, ma la parola decisiva non sarà mai la sua. Ma oltre a questo Baldi, filologo classico di formazione, va a rileggere nella prospettiva evidenziata già dal titolo anche miti, passaggi di autori sommi e minori e di poesie poco note, se non agli antichisti, facendone oggetto di analisi e riflessioni approfondite sempre esposte in una scrittura di grande chiarezza e spessore. E anche brillante in certi punti, come lo sono i suoi libri precedenti, Morti favolose degli antichi e Vite efferate di papi (Quodlibet compagnia extra, rispettivamente 2010 e 2015), molto diversi per impostazione ma con un analogo ricchissimo sostrato di erudizione.

 

Phthonos non significa solo invidia ma, “a partire da un senso generico di opposizione e negazione, arriva a coprire in Grecia più o meno tutto lo spazio delle emozioni competitive. In principio ha un’accezione neutra (…) ma col tempo (…) tende ad assumere un significato interamente negativo, simile alla nostra invidia o gelosia”. La competizione, l’agonismo esasperato, era talmente presente nella Grecia arcaica, e anche classica, che si infiltrava in ogni aspetto della vita tanto da dover cercare periodicamente sfogo in conflitti di varia portata conditi da tutto un campionario di lotte intestine, che trovarono una provvisoria regolamentazione solo nell’istituzione dei giochi olimpici, che non per nulla scandivano anche il calendario, e in numerose altre occasioni civili e religiose (ammesso che in questo caso una distinzione del genere sia possibile).

Non sono stati gli uomini però ad avere sfidato gli dei (almeno in Grecia: altrove qualcuno di loro li ha messi nella condizione di provarci per poi fargliela ferocemente pagare una volta che ci fossero cascati), ma le conseguenze, oltre agli sconfitti nelle loro titaniche controversie, si sono riversate sulla povera umanità, peraltro molto concupita in alcuni suoi esemplari.

A volte è la nostra stessa esistenza a sembrargli una sfida. C’è qualcosa che li infastidisce in noi, che pure siamo loro creature: senza contare che già noi non trascuriamo nessuna occasione per volerci e farci del male. Chissà se capita anche a loro. Schopenhauer ha scritto: “Visto che si sentono infelici, gli uomini non sopportano la vista di qualcuno che ritengono felice”; se applichiamo questa osservazione all’invidia degli dei per la felicità degli uomini, dobbiamo desumere che i poveretti sono o si sentono infelici, per l’eternità in sovrappiù, visto che tale è la loro sorte. Di conseguenza, poiché più di tanto non possono farsi del male a vicenda, nella loro infingardaggine scelgono un bersaglio più comodo. Ed eccoci qui.

Si potrebbe pensare che la felicità nel mondo ha una quota fissa, abbastanza contenuta peraltro: per cui se a qualcuno ne tocca molta, saranno in molti ad averne poca o nessuna: il che significa che la quota di infelicità è abbondante in misura proporzionalmente inversa. Se la felicità in circolazione, o possibile, fosse molto copiosa, tutti ne godrebbero almeno un po’. A patto che fosse distribuita con una certa equità, che è palesemente assente, invece. E se anche, almeno in partenza, fosse applicata in modo corretto, si può star certi che, essendo la misura contenuta e, rispetto alle aspettative, del tutto inadeguata, ci sarebbe sempre chi farebbe di tutto per vedere la propria quota crescere a discapito di qualcun altro, che non solo vedrebbe la propria diminuire, ma sarebbe afflitto anche dall’infelicità in misura non solo proporzionale alla sottrazione ma vieppiù crescente in quanto alla sottrazione si aggiungono la sua violenza e l’umiliazione per l’ingiustizia, senza dubbio immeritata. Se poi qualcuno dovesse indurlo a credere che se gli è stata rubata è perché l’ha meritato, a questo si aggiungerebbe anche il senso di colpa e il disprezzo per se stesso, in un crescendo inflazionistico senza fine. Ma i più, con tutta la buona volontà, in certe occasioni questa colpa non la trovano proprio. E allora patiscono della gratuità del male che gli è capitato tra capo e collo e ne accusano gli dei, che avranno pure le loro colpe, ma non sempre c’entrano.

E se non è dio, che non può essere così meschino man mano che la sua essenza, agli occhi degli uomini, diventa sempre più perfetta e spirituale, sarà qualche demone, come già nella Bibbia accade a Giobbe, con la connivenza di Jahvè, che poi lo ricompensa al quadrato (come se ricchezze, mogli e figli più numerosi potessero cancellare la somma dei dolori e lutti subiti: questa sì un’idea meschina).

Per questo, anche quando abbiamo un periodo di fortuna e la sorte ci arride, il pensiero di qualche futura disgrazia arriva a guastarne il godimento, e senza aspettare che la tavola venga rovesciata da qualcun altro, ci pensiamo noi a punirci, come Policrate, a far fallire un’iniziativa o a procurarci un danno o una ferita, meglio se piccola, ma significativa. Io lo faccio. A volte eccedo. Non aspetto nemmeno di essere fortunato: mi faccio del male prima. Una forma di riparazione preventiva. Ognuno ha la sua misura. Ognuno costruisce la propria miseria.

Nelle società del passato le grandi fortune si concentravano nelle mani di pochi e tutti gli altri dovevano arrangiarsi con quel che riuscivano a raccattare. Non come oggi. Per cui la brama di accaparrarsi quanto a disposizione fomentava rivalità e complotti e tradimenti: la felicità, spiega con dovizia di esempi Baldi, in epoca arcaica consisteva nel possesso: di potere, ricchezze e forza e doti fisiche e di bellezza, in ordine decrescente.

Il desiderio di accrescerla e il timore di vedersela sottrarre erano la causa di gran parte dei dolori. E dei conflitti. A volte bastava una donna a scatenare disastri, ma sotto c’era sempre e comunque lo zampino di qualche divinità. L’abbondanza di cibo e di ricchezze, il numero dei servi, la possibilità di imporre il proprio arbitrio e l’accesso ai piaceri fisici erano il contrassegno della felicità. Altre forme non erano contemplate. Semplicità dei costumi, serenità, assenza di bisogni non indispensabili, non significavano niente. Allora. Chi scrutava nell’animo? Chi mai entrava nelle catapecchie? Poi pian piano le cose sono cambiate e Baldi ci illustra come, fino al primo grande cambiamento, che possiamo riassumere nei nomi di Socrate e Platone. Perché l’ago della bilancia della felicità si spostasse da fuori a dentro, dalla quantità (materiale) alla qualità (sempre in qualche modo spirituale) ci sono voluti secoli e secoli.

Poi le filosofie ellenistiche e infine il cristianesimo portano questo processo di interiorizzazione a compimento e tutto cambia. Ma ora anche il cristianesimo si sta eclissando, si fa un altro giro e le cose, per molti, tornano come prima. C’è un complotto malvagio, una serie di complotti architettati da uomini malvagi, ma tutti riconducibili a uno, il capitalismo, un dio crudele, il demonio. L’uomo. (Il genere umano.) E si ricomincia.

Il successo planetario della bestemmia sta a testimoniare la florida sopravvivenza della credenza. Avere qualcuno a cui attribuire anche il più piccolo incidente è molto salutare. Non c’è bisogno di un intero consesso di divinità. Anzi, dal punto di vista della bestemmia il monoteismo è molto economico. Un solo colpevole, o al massimo la ristretta cerchia famigliare, è un bel vantaggio: il responsabile è subito scovato; l’accusa diretta e immediata. Noi siamo assolti.

 

 

 

 

02/05/24

La navigazione di San Brandano



Per l’Isola dei Beati il tour operator più indicato è il Padreterno. Non c’è bisogno di prenotazioni, itinerari programmati, mezzi di trasporto particolari e nemmeno di grandi disponibilità finanziarie: bastano una barca, la fede e la voglia di andare. E non sbagliare nume. Se ci si affida totalmente a lui, senza tentennamenti, si sarà provvisti di tutto, anche di qualche bonus imprevisto, assicurazione contro infortuni, protezione a 360 gradi contro ogni genere di nemici, incontri insospettati, spettacoli fuori programma, cibo gratis, misurato ma buonissimo. Avventura. E conoscenza. Perché si soffre e si impara. Il percorso non è rettilineo: ci sono prove, deviazioni, impedimenti, sacrifici, digiuni, fatiche, tentazioni e pericoli: tutti ampiamente ripagati però. Si ottiene “un premio ch’era follia sperar”, per dirla con uno che di fede ne aveva.

È esattamente quello che fa Brennan Mac Hua Alta, poi san Brandano, irlandese di stirpe regale nato pagano pare nel 484 e morto nel 578, che dopo la conversione si fa monaco e fonda decine di monasteri soggetti alla sua rigidissima regola, che segue lui per primo e fa rispettare con mano ferma ma misericordiosa. Un giorno sente parlare dell’Isola nota come Terra Promessa dei Beati da Barindo, un venerabile confratello reduce da un lungo viaggio a cui Brandano aveva chiesto: “Rivelaci la parola di Dio e solleva il nostro morale raccontandoci le divine meraviglie che hai visto nell’oceano”; e subito preso dal desiderio di raggiungerla, e dalla curiosità che “lo angustiava tanto che il suo volto era rigato di lacrime”, decide di partire. Ha già fatto numerosi viaggi per diffondere il suo credo e incontrare altri monaci e santi e è già in là con gli anni, ma non importa, l’impulso di andare è troppo forte. Fa i preparativi, allestisce una nave adatta e con 14 seguaci, poi diventati 17 in virtù di un ricatto morale (che costerà caro a due degli avventizi), parte lasciando nella costernazione i confratelli. La nave è un currach, un’imbarcazione tradizionale di origini celtiche usata ancora oggi, di legno e cuoio, con una sola vela, e a costruirla ci pensano Brandano stesso e i suoi monaci.

“Brandano e i suoi seguaci … costruirono una nave leggera, utilizzando per l’intelaiatura legno di bosco, …, la rivestirono di cuoio bovino tinto di rosso con la corteccia di quercia. E spalmarono esternamente di grasso tutte le giunture delle pelli, collocarono all’interno il cuoio sufficiente a rinnovare due volte il rivestimento della nave, grasso da spalmargli sopra, provviste per quaranta giorni … Sistemarono anche un albero al centro della nave, con una vela e quant’altro richiede la navigazione” e salparono.

 


Il currach è una barca di cabotaggio, come era in genere la navigazione a quei tempi, ma non mancavano intrepidi che con essa si inoltravano al largo alla ricerca di nuove terre e ricchezze o per spirito di scoperta, come l’Ulisse di Dante, che a quell’epoca era ancora bel lungi dal nascere e anzi pare che alle peregrinazioni di Brandano si sia un po’ ispirato per la sua Commedia (dico pare; non che è sicuro). Gli irlandesi, come altri popoli del Nord, non si facevano mancare la possibilità di inseguire, oltre alle ricchezze, gloria e incontri meravigliosi, e lo dimostrano due dei principali generi di narrazione orale della tradizione celtica, gli Imrama e gli Echtrai, che hanno come protagonisti eroi e santi di vario tipo e caratura che appunto per mare si avventurano. Brandano e il suo viaggio si ispirano anche a loro. I cristiani in Irlanda, convertiti pacificamente in massa e in fretta, assimilarono senza problemi la cultura precedente, nonostante il fervore della loro fede, e ne trassero giovamento, come giusto, e come sempre dovrebbe essere.

Il mare della Navigatio, trattandosi dell’Irlanda, è l’oceano, che a quei tempi e a quelle latitudini è un regno poco conosciuto, dove anche il noto è sfuggente e nasconde misteri, che si amplificano non appena si abbandonano, a volte di gran fretta per sfuggire a pericoli improvvisi, le rive note e ci si inoltra nelle acque aperte: luogo concreto, mare reale di cui i naviganti hanno esperienza e di cui conoscono pericoli e caratteristiche, ma anche oceano mitologico con la sua geografia incerta e i suoi mostri certissimi.

Il currach, ottimo per viaggi lungo la costa e per la pesca, in mare aperto, se appena le acque si agitano, è un trabiccolo che può facilmente mutarsi in una trappola. Ciononostante pare che gli irlandesi, spinti dal miele tossico dell’avventura, avessero compiuto già importanti esplorazioni e fatto scoperte, come l’Islanda e forse il Labrador, anche prima dei Vichinghi. Lo dico per informazione, ma qui importa poco. Il santo frate non è interessato a lasciare il suo nome a qualche terra sconosciuta, anche se poi una fantomatica Isola di san Brendano sarà nei secoli avvistata e persa, raggiunta e abbandonata per non essere più ritrovata, ma in compenso ampiamente sognata e raffigurata qua e là sulle carte nautiche, come tante altre isole, reali e immaginarie, affiorate e presto sprofondate, fino ad epoche successive ai viaggi di Colombo e di altri nobili esportatori della vera e sola fede. (Oggi è completamente sparita dall’orizzonte, tanto che non compare nel bellissimo Atlante delle isole remote di Judith Schalansky, Bompiani, 2021.)


Quello che Brandano vuole è vedere l’Isola dei Beati, o quantomeno il Paradiso Terrestre, raggiungere e curiosare un po’ qua e là secondo quanto Dio vorrà predisporre per lui.

Più che un andare, un dirigersi o anche solo un cercare, il suo e quello dei compagni è infatti un vagare affidato fiduciosamente a venti e correnti: alla provvidenza insomma. È un muoversi alla cieca: un navigare nella fede. Nella nebbia della fede. Partono infatti nella nebbia, e la nebbia, per impedire di determinare coordinate e annotare rotte, circonda molti dei luoghi in cui si imbattono, inclusa la meta agognata. Hanno una destinazione, precisa nella loro mente ma vaghissima nell’ubicazione, improbabile razionalmente quanto certa nelle convinzioni: cercarla è una quête vera e propria, un viaggio che sarà di espiazione e purificazione e perfezionamento, e insieme un accostamento alla morte in vista della salvezza, ma non c’è piano, nemmeno narrativamente. La loro è peripezia allo stato puro, in una “tensione ascetica e insieme eroica verso l’Altro, il sovrannaturale e l’infinito”, come scrive M. Fumagalli Beonio Brocchieri. Si va, si ha l’inflessibile certezza che si arriverà, e poi capiti quel che capiti.

Il percorso è casuale ma anche rituale, e l’assenza di riferimenti spazio-temporali trova nel tempo liturgico una compensazione che sublima l’assenza di altre mappe. Il percorso è imprevedibile ma i santi navigatori si imbattono in “stazioni” impreviste per collocazione e ordine di incontro, alcune delle quali però marcheranno un tragitto circolare, ripetitivo, per sette anni scanditi in 4 tappe fondamentali in corrispondenza delle maggiori festività religiose (Passione e morte di Cristo, Pasqua, Pentecoste, Natale). Itinerari e incontri che si ripeteranno in ordine obbligato a ridosso di quelle date, come lo è ogni rito una volta instaurato e definito, mentre per il resto la navigazione resterà fortuita e sorprendente, così da appagare la curiosità e la sete di conoscenza del sant’uomo e da permettergli al contempo di rendere anche in questo modo grazie a Dio per le meraviglie del suo creato. Per questo, gli svelerà un giovane che incontrerà nell’Isola del Beati, Dio lo avrà tenuto per mare per 7 anni: “Non hai potuto trovarla prima, perché Dio ha voluto mostrarti molti dei suoi segreti nella vastità dell’oceano”. Sette anni non sono un numero casuale, tutto è legato alla numerologia sacra: tre, sette, quaranta, ma anche venti e ottanta, sono i giorni di viaggio, quelli di sosta, quelli di smarrimento nelle nebbie, di bonaccia e di tempesta e così via. Durante il viaggio, il repertorio del fantastico e del miracoloso verrà scandagliato a fondo, come il mare, e i monaci approderanno e celebreranno Messa sul dorso di una balena dotata di un bel nome proprio (Giasconio); arriveranno a un’isola di grandi uccelli bianchi che si riveleranno angeli che parteciparono alla ribellione di Lucifero macchiandosi solo di lievi colpe, che ci piacerebbe tanto conoscere nel dettaglio, evitando in tal modo la condanna eterna;  o un’altra popolata di pecore candide gigantesche perché mai munte o con un albero dai frutti dolcissimi bastevoli a sfamare l’equipaggio per giorni; santi eremiti del mare confinati da decenni su isolette poco più grandi di uno scoglio dove il tempo scorre lento e si invecchia pochissimo. E avrà l’occasione di incontrare e dialogare con Giuda relegato su uno scoglio nei periodi festivi, direi in trasferta premio dall’inferno se non temessi un’ironia gratuita quanto crudele, uno dei personaggi a cui è dedicato più spazio e più toccanti, a cui non viene rifiutata quel poco di misericordia che il dolore suscita nell’uomo di fede anche davanti al peccato più grande; e di assistere al combattimento di mostri marini e grandi uccelli nelle acque e nel cielo vicini alla nave, chi volto all’offesa e chi in difesa dei naviganti. E in certi momenti il mare diventerà così trasparente che fin nei suoi più lontani fondali si potranno scorgere innumerevoli pesci come “greggi sparse in mezzo ai pascoli: un intero popolo di pesci, tutti acciambellati con la testa che toccava la coda” (come dei gatti); o si incontrerà un’altissima colonna di cristallo, certo un iceberg, curiosamente ricoperta da una rete argentea, durissima, di materiale ignoto, a maglie larghe circa due metri; e ancora isole disabitate con tavole apparecchiate e celle con i letti già fatti; altre dalle altissime scogliere e senza approdi, e infine un’isola con montagne infuocate eruttanti lava (come l’Islanda) traforate di grotte-fucine da cui escono bagliori di fuoco e poi esseri mostruosi giganteschi che, come i ciclopi, scaglieranno massi infuocati contro la povera navicella e i suoi occupanti che riusciranno a fuggire a malapena: l’Inferno con i suoi demoni.


Il viaggio, tutto mondano in apparenza sulla superficie continua del grande oceano, apre così finestre sull’Aldilà, che si rivela non essere altrove, ma qui, anche se non si conosce dove sia e come raggiungerlo. Quello di Brandano non è un viaggio verticale, come quello di Dante, ma orizzontale: il trascendente non è un’altra dimensione, è solo un altro luogo del nostro mondo. Il divino e il diabolico sono qui, da qualche parte, la loro lotta si dispiega sotto i nostri occhi, i mostri vengono sconfitti, o addomesticati, ai demoni il sant’uomo può, in nome di Dio, comandare (come quando ordina loro di non vendicarsi su Giuda per la notte o scaccia quello che si era impossessato di uno dei tre frati profittatori). Resta qualcosa che è inattingibile, ma le sue tracce, la sua azione e i suoi effetti, sono presenti qui, nelle meraviglie e negli orrori del mondo.

Alla fine l’Isola dei Beati tanto anelata viene raggiunta, ma di essa poco o niente ci viene detto. Niente degli abitanti e delle loro consuetudini, poco del territorio e del clima e di tutte le delizie che è presumibile vi abbondino: solo che l’isola è immensa e in gran parte preclusa ai visitatori. Probabilmente non hanno i requisiti per il pass, essendo ancora vivi. Vengono ammannite al lettore, comunque sazio di prodigi e bellezza, le informazioni di routine più classiche, che si sarebbero potute desumere anche da altri racconti analoghi: quelle risapute, che si dicono per non dire niente. Per nascondere. O ammiccare. Per destare la curiosità e innescare il desiderio. Così che, allora, per saperne di più, non resta che fabbricarsi la propria barchetta e prendere il mare per cercare l’Isola di persona. Sperando di trovarla. Di esserne degni. 


 

 

 

 



11/04/24

Ex voto



  

Avrebbero dovuto saperlo, prima di avventurarsi ad attraversare il fiume, dove il guado era più semplice. E certo non dubitavano che il posto giusto fosse quello. Era un punto di passaggio di uso comune. L’argine scendeva dolcemente e la risalita dall’altra riva altrettanto, mentre tutto attorno gli argini erano alti, perché le piene improvvise e travolgenti non erano rare, quando i temporali sulle colline vicine erano particolarmente forti. Ma quel giorno di temporali non si vedeva nessuna minaccia. Il cielo era grigio, l’aria umida, ma stagnante. Caldo non faceva, e i vecchi avevano dovuto coprirsi, mentre agli sposi bastavano gli abiti da cerimonia, che non potevano essere guastati da nessun pastrano, e il calore dell’evento imminente, i corpi in ebollizione. I buoi, bellissimi, erano incoronati da vezzose ghirlande; il carro se l’erano fatti prestare da un amico che ne aveva uno tutto decorato che sembrava fatto apposta per le cerimonie e non aveva voluto nessun compenso, salvo l’onore della guida. Già era stato invitato al banchetto! Gli sposi erano radiosi, soprattutto lei, che coronava un sogno. Era innamorata da quando aveva 14 anni! Lui era un po’ più serio: pensava anche alle responsabilità. Alla futura famiglia, ai figli. Lei invece non voleva altri pensieri, per oggi. Ma forse la sua immagine è stata aggiunta a posteriori, forse lei stava andando verso il sagrato da un’altra strada. La mamma dello sposo, alle sue spalle, rimasta vedova presto, in tempo di guerra, godeva della gioia più rattenuta del figlio e di una maggiore tranquillità e aiuto domestico e in cascina, probabilmente. E dei nipotini da accudire: era ancora giovane, di forze ne aveva, e anche tanto da amare, ancora.

Poi non si sa cosa è successo. L’acqua un momento prima si era attestata poco sopra il garretto dei buoi, più tanto non era previsto che arrivasse. Il clima sul carro era sereno. Il conducente tranquillo. Forse il futuro marito aveva detto qualcosa di divertente. Un sorriso era spuntato sulle labbra di tutti. Tranne del bambino, che non aveva capito e si godeva la gita accanto alla nonna guardandosi attorno con il suo solito stupore. Ci dev’essere stata una buca imprevista, una piccola voragine provocata dalle ultime piogge, uno smottamento sotterraneo: fatto sta che il bue di sinistra si è trovato senza appoggio e anche quello di destra ha faticato a trovarlo, con le due zampe di destra che scivolavano perché quelle di sinistra annaspavano per cercare il suolo. Così il carro all’improvviso si è piegato: il bambino è stato sbalzato fuori e la nonna con lui. Gli altri sono riusciti a attaccarsi ai bordi del carro. Il bambino e la nonna, che non sapevano nuotare, sono stati trascinati dalla corrente invece. Gridavano e si agitavano. Mentre i buoi hanno provato a recuperare l’equilibrio e alla fine lo hanno trovato trascinando il carro ormai di traverso sull’altra sponda con le altre donne aggrappate e incolumi, i due uomini si sono gettati così com’erano, immediatamente, e hanno cercato di raggiungere la nonna e il bambino pur impacciati dagli abiti. Il conducente ha afferrato il bambino e è riuscito a portarlo a riva abbastanza presto, mentre lo sposo faticava a mettere il salvo sua madre, che si agitava e gridava e era appesantita dagli abiti impregnati di acqua, già che non era leggera di suo, e rischiava di essere trascinato dalla corrente lui pure. Allora l’amico si è sbarazzato ha corso un po’ lungo la riva sbarazzandosi nel contempo della giacca e si è gettato di nuovo per aiutare lo sposo, e in due, tra grandi ambasce e con una fatica immane, sono riusciti a tener ferme la vecchia e a trarla il salvo. Visto che era ancora viva e si muove, si sono abbandonati sulla riva con il cuore che sembrava scoppiare, i muscoli che dolevano, il respiro che tardava a venire e poi usciva a fiotti, con l’acqua bevuta. E’ stato allora che hanno visto la donna librata tra gli alberi che sollevava le braccia per l’esultanza, o per benedirli. Sembrava una contadina. Era vestita come una di loro. Chissà chi era.

 

Foto di Orlando Paci, 1956/57 tra Calmazzo e Urbino