
1 - Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano, 1981
Miti e figure del moderno, Pratiche, Parma,
1981
Nell’Avvertenza
a Il silenzio e le parole Franco
Rella afferma che il suo libro si muove “in una zona che sta alla frontiera tra
letteratura e filosofia” in quanto è convinto che “nel transito e nel rapporto
fra queste due forme di pensiero, si siano prodotti nel nostro secolo alcuni
dei modelli più radicati di analisi critica del reale”: tesi più volte ribadita
nel testo sino alla radicalizzazione che si può leggere alla nota 39 di p. 32:
“nel Novecento il luogo letterario diventa, a mio giudizio, il luogo
privilegiato della filosofia
E’ strano che la disseminazione di queste numerose
spie e tutta la linea di analisi in essa implicata, che è certo una delle
traiettorie dominanti di Il silenzio e le parole (e che è stata poi
ripresa e specificata ancora con maggiore evidenza in Miti e figure del moderno), siano state quasi del tutto trascurate
nelle recensioni e nelle discussioni suscitate da questo ricco libro. O forse
non lo è, se si pensa che a discutere e a recensire sono stati prevalentemente
filosofi, che notoriamente di letteratura sanno, capiscono o si preoccupano
poco, o almeno non quanto basta per entrare degnamente nel merito del discorso,
salvo poi ricorrervi, arrendevole ancella, per le loro scappatelle extra
coniugali, per dimostrare, abbellire, alludere o esemplificare (anche se
ultimamente – il riferimento è ad alcuni interventi di Cacciari, Gargani e
specialmente Agamben – pare che le cose stiano migliorando). Comunque, per
quanto concerne Rella, questa omissione lascia alquanto dispiaciuti, sia per il
libro, la cui complessità ne esce amputata, sia personalmente perché questa era
la prospettiva che più favorevolmente mi aveva impressionato durante la
lettura, tanto da indurmi a passare in sott’ordine perplessità e critiche in
altre direzioni, in parte proprio quelle ampiamente sviluppate dai professionisti
del concetto. Dubito però che la lettura di tipo eminentemente concettuale sia
del tutto pertinente qui, dato che il rifiuto della concettualità classica è il
primo motore, l’oggetto e spesso anche la cifra stilistica dei testi in
questione (basti considerare la centralità del discorso figurato, sul quale
tornerò più avanti.) Rovatti per esempio lamenta che “l’ascia della ragione”
non sia qui affilata come in Il mito
dell’altro, (Feltrinelli, 1978) sarà anche vero, ma è la querela stessa che
forse non è centrata, in questo caso. Certo il discorso di Rella è per vari
aspetti emotivo (in alcuni punti anche troppo), ma anche questa emotività è
parte integrante del discorso, almeno nella misura in cui esso cerca di
recuperare l’accesso ad una esperienza che integri le ragioni del corpo e del
sentimento oltre a quelle della mente, di contro appunto alla perdita di
esperienza, dominata dal “principio di abitudine” (p. 118), dall’appiattimento
meccanico, dalla paralisi dell’angoscia ecc., caratteristica della modernità e
della conoscenza concettuale (è proprio questa incapacità di trasmettere
esperienza infatti che Rella, con altri, imputa alla concettualità classica).
Né si deve dimenticare, in questo contesto, il leit-motif della felicità, e il
suo desiderio, che forza a momenti la mano di Rella verso toni idilliaci da una
parte e messianici (sebbene questo termine venga benjaminamente ridefinito)
dall’altra. Ma anche queste non sono poi cose tanto cattive, se non si vuole
continuare a tutti i costi l’idealizzazione del dolore (e non solo per quanto
concerne il tema della “malattia” trattato da Miti e figure del moderno)
e la mitologia del crocifisso disperato. Certo è un peccato che un discorso
imperniato sulla centralità della letteratura no sia sempre all’altezza del suo
stile. Ma forse è ancora colpa della filosofia, la quale come è noto aborre il
sentimento, che verrebbe così a costituire un efficace antidoto, con tutti i
rischi del caso. La filosofia è onnivora infatti, e in certe occasioni tenere
le distanze è una precauzione non disprezzabile, anche per il suo bene.
Il romanzo Pianeta
notte di imminente uscita di Lucio Klobas [poi uscirà come Silenzi
Collettivi, Theoria, 1988], termina con una bocca che divora se stessa: è
una buona immagine, seppure provvisoria e non esaustiva (e quale lo è?), del
processo filosofico-metafisico ai suoi sgoccioli. Cosa resta di una bocca che
divora se stessa? Le parole che lo raccontano, la letteratura, e, nella
filosofia, quanto ad essa nonostante tutto sfugge, non foss’altro che per il
fatto di essere consustanziata di parole: per esempio (ma è solo un esempio…)
lo stile, le figure, gli esempi…
Se è vero che “nel Novecento il luogo letterario
diventa (…) il luogo privilegiato della filosofia”, quanto è costato e costa
alla filosofia il suo cronico sfasamento, o ritardo, sulla letteratura del suo
tempo? Probabilmente più del reciproco. Ma che si tratti dello “stesso tempo” è
ciò che la letteratura pone in discussione e Rella con essa. Non per niente la
problematica della temporalità discontinua è più di origine letteraria che
filosofica. Ma torniamo indietro: cos’ha di meno della filosofia della
letteratura? Per esempio l’atteggiamento verso l’uso e il funzionamento in essa
del linguaggio. Si sa che (fatte poche eccezioni; ma anche quelle, dice Rella,
attenzione!) per la filosofia classica il linguaggio è stato generalmente puro
mezzo, accidente inaggirabile e fuorviante, l’essenziale situandosene sempre al
di fuori: ah, se la concettualità se ne potesse sbarazzare! Del resto però
nemmeno rinunciare alla “potenza dell’astrazione”, come ha rilevato Vegetti in
pagine molto belle, è una prospettiva geniale.
Bisogna trovare allora un altro pensiero, o un
pensiero altro (non dell’Altro, si raccomanda Rella), e proprio qui casca buona
la letteratura. Come dimostra il fatto che già l’ultimo Nietzsche, Freud e
Benjamin abbiano visto nell’arte la possibilità di “superare i limiti del
linguaggio scientifico e filosofico”, “un possibile linguaggio per un modello
alternativo di ragione” (SeP, pag. 52). Linguaggio da costruire e la cui
caratteristica sta proprio nell’essere costruttivo, secondo una convergenza di
linee procedurali derivanti, oltre che dai summenzionati, anche da Wittgenstein
(al quale si potrebbe aggiungere, con Gargani, anche Schönberg).
La forza di questo linguaggio è di essere figurato. La
“figura” descrive la “caducità”, la transitorietà, la precarietà del “tempo
della crisi”, in quanto è l’articolarsi ormai di un pensiero del tempo della crisi. Dunque la “figura” è il movimento
stesso di un “altro pensiero”, rispetto a quello della filosofia classica, di
un pensiero che transita attraverso le “immagini” letterarie e i concetti, che
tiene insieme le due “mezze verità” che sempre si manifestano nel tempo del
moderno: la massima astrazione del concetto e la massima forza di ciò che è
stato via via definito mito, sragione, analogia, immagine. La figura, come dice
Musil, abita fra questi due mondi. La lingua delle “figure” descrive dunque “un
regno intermedio” fra questi due mondi, luogo in cui essi si scontrano e si
trasformano in un diverso orizzonte di senso. (MeFdM, pag.9). E’ questa appunto
la strada che hanno percorso i grandi artisti del nostro tempo: Musil, Proust,
Kafka, Rilke, Schnitzler, la scelta dei quali è già indicativa non solo degli
obiettivi ma soprattutto del metodo di analisi e del tipo di lettura privilegiati
da Rella. Non credo si tratti infatti né di una pura scelta strumentale alla
propugnazione delle proprie tesi (che farebbe troppo pacchianamente ricadere
Rella in ciò che egli stesso rifiuta, la subordinazione della letteratura a ciò
che hegelianamente la “supera”, ed equivarrebbe tutto sommato ad una riduzione
dell’arte all’estetica, “che è una colonia del dominio della razionalità
classica” (SeP N. 44 pag. 106), né di una giusta esigenza di omogeneità e di
reciproci collegamenti nel campo da cui muove l’indagine (sarebbe inspiegabile
infatti, per esempio, l’inserimento di Conrad qua e là): il fatto è che presso
questi autori è più esplicita, la letteratura
come filosofia ( MeFdM N. 9 pag. 117), la tematizzazione delle “immagini” che Rella ritiene, certo a giusta
ragione, nodali del moderno, così che possano essere (momentaneamente?) messi
tra parentesi gli elementi formali, linguistici, grammaticali…
Farei un ingiusto torto a Rella se dicessi che questi
problemi sono stati del tutto omessi, ma trovo che la loro adeguata
trattazione, al cui sviluppo pure non mancherebbero dispersi ma preziosi
accenni nei suoi testi stessi, renda in qualche modo incompleta
l’argomentazione. E non credo che Rella non vi sia soffermato per paura di
ricadere nella “critica letteraria”. Certo egli ha la lodevole esigenza di no
sfarfallare sulle generalità e sui meccanismi astratti, e bisogna dire che le
sue analisi di alcuni motivi nodali della modernità sono davvero notevoli (cito
alla rinfusa: la malattia e la città di cura, il collezionismo, il silenzio del
mistico, lo spaesamento come effetto dell’angoscia sulla linea che va da Baudelaire
a Heidegger, e come effetto di choc che porta a redimere il passato in Freud,
Proust e Benjamin ecc.), ma difficilmente qualcuno si sarebbe lamentato se una
parte maggiore di quelle leggi e di quei meccanismi generali egli li avesse
maggiormente specificati. Infatti se “il concetto di figura” (…) è analogo al
senso che Proust attribuisce al termine “metafora”, ma opposto al senso
attribuito dalla linguistica e dalla retorica a questo termine, dato che in
esso l’enfasi si sposta non su ciò che è metaforizzato, e nemmeno sui due
termini della metafora stessa, ma sulla complessità dell’articolazione di
questi termini in un senso esso stesso complesso” (MeFdM N.45, pag. 134),
perché non evidenziare di volta involta anche formalmente le modalità di queste
articolazioni? Perché sono individuali e provvisorie? Ma questo le esporrebbe
ad una “caducità” ancora maggiore di quanto non sia quella loro costitutiva. E
poi come potrebbero essere “immagini nodali” se non avessero una qualche
generalità? Credo che il problema, forse il limite, sia ancor sempre la
considerazione della letteratura come filosofia.
Senza voler stupidamente sovrapporre le due pratiche, o peggio ancora ridurre
l’uno all’altro, è probabile che in questa direzione molte cose verrebbero
chiarite non solo se si cominciasse finalmente a scrivere quella storia della
filosofia nella letteratura di cui Rella
stesso lamenta la mancanza (SeP, N.39 pag. 32), ma soprattutto se si
cominciasse ad analizzare anche la filosofia della letteratura (genitivo soggettivo, mi raccomando).
Salvo ridefinire ambedue i termini.
P.S. (Quel che si vorrebbe per esempio sapere è perché il romanzo nel ‘900 riesce
proprio quando abbandona la strada realistica e come mai i realisti falliscono
nel vivere una nuova esperienza della realtà che proprio loro dovrebbero
“teoricamente” essere i meglio piazzati per restituire.)
2 - Attraverso l’ombra, Camunia, 1986, p. 241
Come aveva già chiaramente capito
Platone, in ogni filosofo che accetti la tradizionale opposizione tra verità e
finzione, qualsiasi indulgenza verso quest’ultima non può essere che inutile e
dannosa. Tra le due il solo rapporto ammesso è di esclusione, o al massimo di
rigorosa subordinazione. Oggi però che il predominio assoluto della verità
sembra momentaneamente (alcuni sostengono definitivamente) eclissato, sono in
molti a riconoscere uno specifico e rilevante valore di verità anche alla
finzione. Il filosofo Franco Rella (nato a Rovereto nel ’44, docente all’Università di Venezia) sostiene anzi che proprio in essa, e in particolare
nel romanzo, sia prefigurato il “diverso pensiero” di cui sempre più si sente
l’urgenza: un pensiero che contempli il cambiamento, la mescolanza, la memoria
e il sentimento e che conduca ad un “sapere per la vita” aperto al possibile e,
di più, ad una possibile felicità che redima la caducità di cui siamo fatti, al
di là dello spaesamento in cui siamo immersi.
Sorretto dalla certezza delle
valenze teoriche della narrazione, Rella ha delineato un percorso di esemplare
coerenza: prima infatti ha indagato in questo senso i grandi romanzi della
modernità coniugandoli con gli esiti più importanti del pensiero contemporaneo
(Il silenzio e le parole,
Feltrinelli, 1981, e Miti e figure del
moderno, Pratiche, 1981); poi ha impresso andatura e tonalità narrative ai
testi saggistici medesimi (Metamorfosi
e La battaglia della verità,
Feltrinelli 1984 e 1986); e infine ha affrontato direttamente la via del
romanzo. Questa singolare opera prima è edita dalla bresciana Camunia e si
intitola Attraverso l’ombra.
Quella che a posteriori appare una
sistematicità quasi programmata, va però forse letta a rovescio. Contrariamente
a tanti, e sospetti, ricorsi odierni al romanzo che tacitamente mantengono la
vecchia gerarchia, Rella vi è giunto non come ad un rifugio strumentale ma per
necessità, personale prima ancora che teorica: è probabile cioè che la
necessità della narrazione, invece di derivare dalla teoria, ne abbia guidato
le tappe e le forme come un impulso di base, all’inizio misconosciuto da Rella
stesso.
Il suo lavoro aveva come primo
obiettivo la “confluenza dei due mari” del “pensiero astratto, o concettuale o
filosofico” con quello “immaginale, poetico e letterario”, ma quando, alla fine
di Metamorfosi, egli si è accorto che
il presunto punto d’arrivo si era trasformato “in un nuovo punto di partenza,
in un invito al viaggio per vedere cose nuove che emergono da queste e quelle
acque” tornate di nuovo a dividersi, credo che la scelta del romanzo gli sia
venuta spontanea. Attraverso l’ombra
è appunto l’adesione a questo invito venuto da lontano e insieme la storia del
percorso che introduce alla nuova visione, e quindi ad una diversa adesione
alla vita.
Non altro che una nuova apertura
alla vita è infatti ciò che raggiunge il protagonista, autore di guide
turistiche illustranti gli orrori più o meno addomesticati e spettacolari delle
metropoli, lungo il viaggio a cui è costretto da un’oscura persecuzione. Il
persecutore, per molti aspetti un doppio del protagonista, viene dal suo
passato e lo rappresenta, tanto che la progressiva scoperta della sua identità
finisce col coincidere col riesame del passato del protagonista stesso. In tal
modo la geografia del viaggio da fisica diventa progressivamente mentale e
temporale, e la fuga presente, mentre rivela come fuga le presunte sicurezze
precedenti, si trasforma in conquista, cioè nella disponibilità alla possibile
felicità del futuro: felicità che è già questa
disponibilità, indipendentemente dai portati effettivi del futuro.
L’attraversamento dell’ombra si identifica così con un rito di passaggio che,
redimendo il passato da cui pure segna il distacco, porta alla nascita di un
soggetto nel quale le ragioni del corpo e del pensiero, degli affetti e della
memoria convivono in modo certo non pacificato ma nemmeno eterogenee e tra di
loro incomunicabili. Un soggetto che può finalmente cominciare a chiarire i
suoi confusi rapporti con gli altri e che scopre sì che il vero orrore delle
metropoli, ben diverso da quello che descriveva nelle guide, si confonde con la
violenza spesso gratuita e i rapporti perversi della realtà quotidiana, ma
anche e soprattutto che questa è ricca di infinite vie da percorrere nei
confronti delle quali prima era cieco. Attraverso l’ombra regge bene una lettura
autonoma, e questo è un punto a suo favore; eppure, riassunto in questo modo
nemmeno troppo tendenzioso, rivela evidenti parallelismi coi testi saggistici
del suo autore, ed altri ancora, accuratamente mimetizzati nel racconto,
sarebbe facile segnalarne. Non lo faccio notare per ritorcere maliziosamente
contro Rella le stesse accuse di strumentalizzazione/riduzione del romanzo che
egli denuncia nella filosofia tradizionale: sarebbe assurdo che egli rinneghi i
risultati a cui è giunto, tanto più che è naturale che le “due acque”
ridividendosi portino qualcosa l’una dell’altra. Lo faccio notare perché
ritengo che responsabile in buona misura degli aspetti meno riusciti del
romanzo sia proprio il desiderio da parte di Rella di evitare quei pericoli e
la confusione tra i due discorsi.
Così egli ha moltiplicato, a livello
sia tematico che stilistico, gli accorgimenti di differenziazione, ma proprio
questa eccessiva prudenza ha finito, a mio parere, coll’impacciarlo. La
narrazione, per esempio, pur evacuata dal saggismo e dalle riflessioni
insistite, non ha tratto tutti i benefici che un’idea originale come quella
delle “guide” poteva suggerire; e d’altra parte la scrittura, tenuta in modo
troppo sorvegliato sul solo piano visivo, precludendosi scarti o impennate di
ogni genere, rischia a volte di cadere nella monotonia e nell’appiattimento.
“Ce l’ho con Zbyszewski perché la
sua concezione della montagna è piatta”, diceva Gombrowicz. Se un appunto non
si può muovere a Rella, è proprio questo; mi pare tuttavia che in questo suo
primo romanzo, preoccupato di evitare che la concezione soverchiasse la
montagna fino a nasconderla, egli non sia poi riuscito a scalarne che i primi
contrafforti, che pure non mancano di scorci affascinanti. Più che un difetto
comunque, e certamente il secondo romanzo che sta scrivendo lo dimostrerà,
questo è probabilmente lo specifico pedaggio che il Rella romanziere ha dovuto
pagare al Rella filosofo: come forma di congedo.