Non conoscevo il San Giogio nella selva, di
Albrecht Altdorfer (1480- 1538), cioè avevo visto delle riproduzioni senza
prestarvi particolare attenzione, ed è stato solo alla Alte Pinakothek di
Monaco di Baviera che l’ho scoperto davvero, restandone colpito in modo
indelebile. C’era quel quadretto, tutto verde quasi in un angolo di una saletta
di passaggio, e sulle prime non avevo capito che si trattasse proprio del San
Giorgio, che immaginavo molto più grande. Quasi una delusione, al primo
impatto, poi mi sono accostato e è cambiato tutto: proprio le esigue misure che
mi hanno obbligato a una visione avvicinata (tanto nessuno si fermava), mi hanno
proiettato nella foresta, dilatando le sue dimensioni, rendendola infinita,
total(izzant)e, come lo spazio che occupa nel dipinto.


Questo verde cupo,
incombente, la piccola radura (Heidegger vicino e lontano), e il cavaliere in
mezzo. Solo allora ho visto il drago. In un primo momento, come guardando le
riproduzioni, mi era parso che il cavaliere fosse solo, perso nella selva
scura, come quelle dei romanzi cavallereschi, tra fughe e inseguimenti, paure e
incanti e già andavo ai miei libri preferiti, all’Innamorato, alla Gerusalemme,
e soprattutto al Furioso, che è il libro che amo più di ogni altro. Poi
ho visto il drago, e anche lo squarcio nel verde che lasciava intravedere un
paesaggio lontano, che peraltro avrei preferito non ci fosse, o fosse ancora più
esiguo. (Altdorfer è uno dei primi grandi autori di paesaggi autonomi o con un
ruolo non da sfondo o ambientazione, ma da protagonista).
Penso ai tanti San
Giorgio, ai miei preferiti, a quello di Altichiero a Padova (dove un cespuglio, che potremmo intendere come sineddoche
per la selva, c’è, anche se il combattimento avviene in uno spiazzo deserto
alle porte della città), i tre di Paolo Uccello, Pisanello (dove peraltro il drago è separato, solo, sopra l’arcata di sinistra),
il meraviglioso Donatello del Bargello (perfetto, anche se il drago è persino più
piccolo del cavallo, come capita in vari altri autori, che allora si fatica a
capire, sovraintepretazione allegorica a parte, perché mai fosse così
temibile), Cosmè Tura, Raffaello (meno), lo spettacolare gruppo scultoreo di Bernt Notke che però non ho mai visto di persona come
altri di questa lista.
Rubens nel suo rende omaggio a Altdorfer, ma non resiste alla tentazione di
trasformarlo in uno spettacolo grandioso, con tanto di spettatori umani e
celesti distribuiti tra cielo e terra e alberi. La solitudine del guerriero è
sparita in un trionfo scenico, mentre in Altdorfer questa solitudine è estrema.
C’è l’uomo a cavallo, la foresta, il drago ancora vivo, non ancora colpito, che
con la foresta quasi si confonde; la principessa è lontana, forse è solo
sognata, e non importa. Presente ovunque come comprimaria o in un ruolo
defilato ma imprescindibile, in vari atteggiamenti che vanno dal terrore alla
trepidazione (Zeri su quella di Carpaccio), dalla fuga scomposta (Cosmè Tura)
all’algida eleganza di un ricevimento mondano ufficiale (in Pisanello, dove
sembra in partenza per un viaggio di piacere: ma Zeri dice che l’atteggiamento
è meditativo), qui è invece assente. Il cavaliere è solo con il drago, immerso
nel folto cupo, e spaventoso forse più del mostro, della foresta. In questo
quadro lei non c’è. Di sicuro non importa, qui. La sua assenza vale solo per
chi conosce la leggenda, ma qui, nel quadro, c’è solo il guerriero davanti a
questo essere informe che forse è solo un’emanazione del luogo, o della sua
mente, delle sue paure; e del suo coraggio, perché sta per affrontarlo, non
arretra davanti ad esso, e io immagino che sarà anche doloroso non solo
combatterlo ma anche ucciderlo, liberarsi di esso, staccarsi da una parte di sé
che lo aveva fatto tremare, gli aveva dato angoscia, ma anche un senso forte di
esistenza, come sempre la paura dà, un groviglio di emozioni, l’intensità.


Il quadro più famoso
di Altdorfer, sempre all’Alte Pinakothek è La battaglia di Isso, del 1529, tutto il contrario di questo:
eserciti infiniti, ressa, movimento, violenza (che qui non c’è, non ancora),
colori squillanti, insegne al vento, assalto e fuga, un paesaggio favoloso
sullo sfondo sormontato, e si direbbe quasi squassato da un cielo maestoso
anch’esso in tumulto: tutto il contrario di questo.
Qui l’orizzonte è
chiuso, finito, eppure è proprio questo mondo completamente verde e nero
(ombroso) che riempie tutti i margini del quadro ciò che me lo fa amare di più,
questo verde circoscritto che poiché satura lo spazio dipinto diventa immenso,
avvolgente, come qualcosa che non ha limiti perché il cavaliere (e lo
spettatore) è al suo interno come se un esterno non ci fosse, e quindi diventa
senza fine. La vita della foresta, ma anche il chiuso, la morte.
Spesso lo scontro
con il drago viene ambientato in un paesaggio desertico, a volte idealizzato ma
sempre allegorico, in genere disseminato dei resti delle sue vittime.
In Carpaccio, in
modo più compiuto che in altri, tutta la scena, le figure e il paesaggio fin
nei loro dettagli, hanno precise connotazioni allegoriche (lotta tra bene e
male, ovviamene, ma anche ascesi, le due città, guerra tra cristiani e pagani
(allusione al contemporaneo conflitto con i turchi), vittoria e conversione…
L’interesse per il
paesaggio e i suoi valori e aspetti atmosferici è un aspetto della cosiddetta
“Scuola danubiana”, di cui Altdorfer stesso è uno dei massimi rappresentanti
(1500-1540, Michael Pacher, Jörg Kölderer…) influenzata da Dürer, specie con le xilografie, e dalle prime
opere di Cranach il vecchio, che lavorava a Vienna attorno al 1500 e va
considerato uno dei suoi fondatori. Il nuovo sentimento della natura e del
paesaggio è ispirato anche dagli umanisti viennesi.
La natura, gli
alberi dal fogliame frondoso dipinto in modo accurato, con gli effetti luminosi
e i riflessi evidenziati dall’uso del bianco distribuito senza parsimonia,
erano già presenti nelle prime opere pittoriche di Altdorfer, dal 1505 circa,
precedute da numerose piccole incisioni che hanno fatto pensare a un
apprendistato da miniaturista, ma per quanto importante e dotata di grande
risalto e autonomia, era ancora la figura umana (san Francesco, san Gerolamo) a
essere preminente. Passano pochi anni e nel 1510, in questo piccolo quadro
della grandezza di un foglio A4 (cm. 22,5 X 28,2 per l’esattezza), tutto cambia
e viene ribaltato; come in una Natività di poco successiva, dove la
Sacra Famiglia quasi sparisce, protetta e forse anche nascosta, tra le rovine
del casolare e in un disegno successivo. Ma il San Giorgio è un unicum. Questo
san Giorgio. Perché in una xilografia (Hl. Georg tötet den Drachen,
Holzschnitt,19,6 × 15,1 cm, Dresden, Kupferstichkabinett) dell’anno successivo che riprende quasi alla lettera il cavaliere e
il cavallo, l’azione è ambientata in uno spazio molto più aperto, dove ha larga
parte il cielo, che in questo è sostituito dalla volta verde scuro.

La selva è fitta e
gli alberi altissimi. La luce non dovrebbe filtrare, né a illuminare il suolo e
gli avversari che si fronteggiano
basterebbe quella che si intravede nello spazio esterno, che sembra quella
rossastra di un crepuscolo (forse più un tramonto che un’aurora), perché il
sole, che non si vede, dovrebbe essere dietro le creste lontane; eppure le
fronde e i tronchi sono ricamati di barbagli, ogni foglia ha i suoi riflessi
che sembrano provenire da una fonte ignota che cade dall’altro, a sinistra,
come si evince soprattutto dalla groppa del cavallo e dall’armatura del santo,
oltre che dal fogliame tutto e dal terreno che invece è scuro. Il muso del
cavallo però sembra illuminato da un’altra fonte ancora, e così il ventre,
quasi a dire che la luce è diffusa e non va intesa in senso naturalistico o
prospettico ma appartiene piuttosto alle cose, vorrei azzardare, alla loro
forma, alla pittura.
La notte però non è
lontana: se la collina e la valle appena fuori dalla foresta sono ancora bagnati
dalla luce rossastra del sole, le colline e la montagna appena oltre sono più
scure, già invase dall’ombra. L’oscurità incombe, ma l’infinito barbaglio
permane, a definire ancora per qualche attimo ogni cosa, ogni ramo e foglia,
ogni cespuglio e felce. A glorificarli.
Il paesaggio che si
intravede sullo sfondo indica che siamo vicini al confine, oltre il quale la
radura accoglie la vita civile e la città, le istituzioni che il drago con il
suo fiato mefitico e le vittime sacrificali che richiede sconvolge (ora è
addirittura il momento della figlia del sovrano!), ma qui siamo ancora nella
foresta che incombe. Il confine è violato dal mostro, e così abolito. San
Giorgio, portando il mostro in città e poi uccidendolo, dopo aver fatto
battezzare i cittadini, ricostituisce il confine e la differenza basandoli su
un nuovo ordine, che il sangue del drago, divenuto vittima sacrificale a sua
volta, sancirà in un vincolo sacro, a sua volta sancito dal mito. Nel momento
scelto da Altdorfer però niente è ancora deciso, la foresta circonda il
cavaliere da ogni lato e il suo signore, il drago, lo guarda non ancora vinto e
niente garantisce che lo sarà. Il guerriero però non teme il suo fiato né la
sua vista e lo fronteggia. Non fugge, e forse già questa è una vittoria. (Il
preannuncio di quella definitiva.)
Ma la foresta conserva
tutta la sua magia, e la conserverà anche dopo l’uccisione del drago, dopo il
ripristino dei confini. Richiusa di nuovo su se stessa, sul proprio mistero,
che attrae e respinge, che minaccia ma anche dà rifugio a chi varca il confine (come
ricorda R. P. Harrison, “il dio dei sacri confini nella religione romana era
Silvano”, Foreste, Garzanti, 1992).
Alcuni hanno detto
che tale era l’interesse di Altdorfer per il paesaggio che San Giorgio e il
drago sono solo un riempitivo o una scusa, come se non si potesse rappresentare
la selva da sola. Ciò che in un certo senso è vero, perché se l’uomo diventa
tale solo uscendo da essa, cioè staccandosi dalla vita naturale, finché vi
resta dentro non la vede, per lui la selva è irrappresentabile. Come lo resta
una volta che è uscito, perché l’occhio che vi getta è sempre esterno, le
categorie e il modo in cui la vede sono quelle del fuori, del campo arato, del
pascolo, del fiume, della città. Però intendere in questo senso la presenza dei
due eroi, poiché anche il drago lo è, sarebbe lasciarsi sfuggire un aspetto
fondamentale del quadro: che la foresta è protagonista, sì, ma lo è proprio nel
contrasto tra il cavaliere e il mostro. È fondamentale per entrambi: senza di loro,
come senza lo scorcio verso l’esterno, anche se io avrei preferito che non ci
fosse, sarebbe tutt’altra cosa. Ma una cosa di cui non saremmo qui a parlare.
Il cavaliere ha solo
una lunga spada, non la lancia che gli attribuiscono tutti gli altri pittori,
con la quale infilzerà, ferendolo e riducendolo in sua balia, il drago. Il
piccolo vantaggio della distanza assicurata dalla lancia, l’intervallo che
attenua la pericolosità del mostro, che resta comunque di grandezza e forza
soverchiante, non è previsto. Quello che qui si preannuncia è più uno scontro
corpo a corpo, un contatto diretto, senza mediazioni con l’avversario, che ha
le sue armi: il fiato mefitico, le zampe con gli artigli, fauci enormi con denti
affilati, una stazza superiore (come era stato rappresentato, con formidabile
senso drammatico, nel San Giorgio di Melbourne di Paolo Uccello, il solo a mia conoscenza che mostra un
corpo a corpo vero e proprio: una stretta feroce e quasi erotica, come quella
di Tancredi a Clorinda nel Tasso). Per il momento però non succede ancora
nulla. Il cavaliere sembra chinarsi per meglio guardare il suo avversario, per
individuare le sue fattezze, i punti di forza ed eventualmente quelli deboli,
quasi a prendere le misure per poi decidere che tattica adottare, aspettando
forse che sia lui a fare la prima mossa, a spiccare un balzo per assalirlo,
come sembra suggerire la sua posizione accucciata, ripiegato su se stesso
pronto a spiccare il salto, la cui veemenza poi il santo sfrutterà per
affondare la spada nella sua carne oltrepassando le dure scaglie della pelle
che la protegge. Non è lui quindi che prende la rincorsa e aggredisce, ma
aspetta a piede fermo, senza farsi intimorire, per sommare la propria forza e
la durezza della spada all’impeto dell’assalitore. (Per rovesciare la forza in
debolezza e viceversa, come quando si vince la tentazione, la potenza del
richiamo del peccato.)

Il cavallo non
sembra condividere l’atteggiamento calmo e risoluto del suo cavaliere, un po’
si impenna per un moto naturale di paura, o forse reagendo al fiato mefitico
del drago che ammorba le contrade vicine, al di là degli alberi, o all’odore e
alla vista dei resti delle sue vittime, che però qui non sono esibite come in
altri quadri (specie in Carpaccio), ma resta ancora sotto controllo.
È un attimo sospeso, di reciproca
contemplazione dei contendenti, di studio. La lotta mortale è imminente, ma in
questo momento ancora assente, lontana e forse in dubbio, come se l’essersi
incontrati, il trovarsi di fronte, e il reciproco scrutarsi e riconoscersi, la
rendesse inutile.
Noi non sappiamo
cosa accadrà, ce lo dice solo la leggenda. La leggenda ci dice che il santo
ferirà il drago e, liberata la principessa, lo condurrà in città senza
ucciderlo prima che tutta la popolazione si sia convertita, chissà con quanta
convinzione; ma al momento non sappiamo niente, possiamo dimenticarci dei
contendenti, della povera ragazza atterrita, del padre sconvolto e trepidante,
del popolo soggetto al duplice potere del signore e del terribile ricatto del
mostro, e tornare alla foresta, alla sua maestà, alla fitta trama dei tronchi e
del fogliame, alle mobili, scurissime ombre che proiettano, alla luce che li fa
vibrare, e pensare alle nostre paure, alla solitudine davanti ai nostri draghi,
alle minacce, ma anche al silenzio, al rifugio, alla quiete, al riposo.