Maurizio Cucchi è nato a Milano nel 1945, dove
risiede. Lavora in campo editoriale ed è critico letterario di Il giorno e l’Unità. Collabora a varie riviste, tra le quali L’illustrazione italiana, ed è presente
in tutte le più importanti antologie
di poesia contemporanea. Oltre a quelli citati nel testo ha vinto anche il
premio Serravalle Sesia nel 1978 ed è stato due volte finalista al Premio
Viareggio.
Quello di Maurizio Cucchi è nel ventaglio di nomi che
di solito vengono citati quando si parla della nuova poesia, forse l’unico che
non manca mai, ed è significativo che non lo dimentichi nemmeno chi non lo ama
particolarmente.
Sta di fatto che quando nel 1976 apparve il suo primo
libro, Il disperso (premio speciale
della giuria del Premio Martinafranca), in quella che probabilmente è la più
prestigiosa collana di poesia italiana e cioè Lo specchio di Mondadori, non ci fu chi non ne rimanesse in
qualche modo sorpreso: non solo per l’inusuale giovane età dell’autore, quanto
soprattutto perché si trattava non di una raccolta di un libro di poesia,
compatto e organico, originale e anomalo rispetto ad argomenti, stile e
linguaggio allora dominanti.
Da allora Cucchi è rimasto un punto di riferimento
costante, confermato da Le meraviglie
dell’acqua (Id, 1980, Premio Carducci) , anche se la sua poesia non è
riconducibile propriamente a nessun gruppo o maniera e ha scoraggiato eventuali
imitatori. O forse proprio per questo. Del resto tentativi di definirla, classificarla
o solo ricondurla per certi aspetti a qualche modello o ascendente, non sono
mancati, alcuni condotti anche con precisione ed efficacia (e così si è parlato
di linea lombarda, di tessa, Tozzi, Proust, Gadda e Céline), ma ogni volta che
si riesce ad avvicinarglisi, Cucchi è già altrove.
Perché questi continui scarti da un lavoro all’altro,
come testimoniano anche da ultimo i frammenti di Glenn contenuti in Poesia
Tre di Guanda?
Perché ogni libro che corrisponde per un rapporto di
causa-effetto, quasi, ad un momento della mia vita, è concepito come qualcosa
di unitario, che ha una sua architettura che non coincide con l’ordine di
composizione ma forma una struttura che cerca di rispondere a certe esigenze di
equilibrio, di sviluppo dei temi e di progresso, compiuta la quale, o meglio:
esaurita l’esperienza su cui si basava, era inutile continuare. Trovo noiosi e
superflui quei poeti che magari scrivono cinque libri parlando sempre con la
stessa pronuncia e nei quali le poesie sono intercambiabili.
E’ forse per questa unitarietà che a proposito di Il disperso è affiorata più volte la parola romanzo?
Non è assolutamente vero che io volessi fare della
narrativa, semmai tutto il contrario. Cercavo di utilizzare materiali non
poetici, alcuni dei quali certo di derivazione romanzesca, per uso poetico, ma
non c’era nessun desiderio di raccontare delle storie: c’era piuttosto uno
slittamento continuo da una situazione all’altra, così che non una storia
veniva data, ma l’effetto della situazione.
Se si pensa nell’insieme la disseminazione dei motivi, tuttavia, una specie
di narrazione può risultare.
Certo c’è la presenza di mille movimenti narrativi, ma
non c’è mai una storia che inizia o si conclude.
Ogni poesia era una collezione di frammenti, spesse
volte disparati. Una volta resomi conto cioè che era inutile tentare di
prolungare un inizio efficace per continuare il discorso, ho cercato di
procurarmi un meccanismo che potesse consentirmi di mettere assieme le parti
disparate, apparentemente, di diversi discorsi, che in realtà erano poi lo
stesso discorso perché appartenevano allo stesso circolo spazio-temporale.
Il soggetto che attraversa questo circolo disperdendovisi è cioè impossibilitato
a ricondurre ciò che incontra a se stesso o a un ordine qualsiasi, si ha
l’impressione che sia un adolescente.
E’ vero solo in parte, in quanto ho scritto questo
libro da adulto, ma è possibile che le scoperte che andavo facendo allora
comportassero un affacciare il volto sul mondo di marca, più che
adolescenziale, giovanile. Il protagonista è retrocesso a una condizione di
ingenuità, di sradicamento e di emarginazione, è fuori da tutti i giochi ma
comunque passa in mezzo a tutti.
Incontra così una pluralità di voci che interferiscono l’una con l’altra,
oggetti e situazioni della vita quotidiana, “storie di quartiere, di casamento,
di scala” (Raboni) e tutta una proliferazione di percorsi interrotti e solitari
che solo raramente, e con segno differente, ritroviamo in Le meraviglie dell’acqua, il quale muove piuttosto da una relazione
e da un interlocutore privilegiati.
Semplificando si potrebbe infatti dire che l’argomento
centrale di questo libro è lo svilupparsi di un rapporto, le sue problematiche
e gli ostacoli che incontra. Il problema di partenza qui è quello di una
abilità e esistere e quindi di una idoneità a vivere, come indica anche il
titolo di una sua sezione: L’abilità dei
passi. C’è l’esigenza di esserci, di avere un rapporto più calmo e
equilibrato con l’altro, di riconoscere se stesso nel volto dell’altro, anche
se questo è un po’ narcisistico…
Ma non mi pare che questa esigenza resti poi aderente alla realtà.
Anzi, in certi casi c’è un atteggiamento fortemente in
contrasto con la realtà: il desiderio di abilitarsi infatti porta spesso a
cercare di rimuovere gli ostacoli, a fingere che non esistano per poter dire
(ma forse semplifico troppo): “siamo felici”. Per esempio, tutta la sezione Stazione Paradiso, è un tentativo di
rifiuto della realtà, tentativo miseramente fallito, come è ovvio che succeda o
come il finale poi denuncia.
Ciò che non comporta tuttavia, in molti casi, un ritorno più equilibrato
alla realtà.
Questo perché il soggetto è un imbroglione con se
stesso; parte sì verso la conquista di una normalità di rapporto (il quale
naturalmente è una metafora, anche se io non l’ho concepita come tale), ma poi
si perde nel vaneggiamento, come si vede in una delle mie poesie preferite, Dolce fiaba. E’ il vaneggiamento, la visionarietà,
l’allucinazione sono predominanti in questo libro, nei punti più suoi almeno.
Le meraviglie dell’acqua è stato accusato di poeticismo…
Il disperso veniva accusato del contrario, se è per questo; ma
sono discorsi che parlano della poesia come se fosse solo un affare letterario:
questo si trova già in tizio… Caio è andato più in là… Ma la “letteratura”,
anche la “buona letteratura”, è una cosa che danneggia la poesia. Io la trovo
insopportabile. O mi dici qualcosa che mi interessa, che riguarda la mia vita,
che mi emoziona, o altrimenti… quelli che fanno degli esercizi letterari o
della “buona letteratura” mi danno noia, mi asfissiano. Preferisco fare una
buona passeggiata.
Questo disprezzo per la “letteratura” mi fa tornare alla mente un
intervento in cui identificavi la poesia con la parola autentica e piena.
Sì, certo, la poesia è la parola che parla, che non è
muta o stereotipata, che ha in sé valori autentici… è uno dei pochi antidoti
all’annullamento della parola. La parola ha lo spessore di una lamina, si
consuma immediatamente, mentre la parola poetica è piena, ricca di senso che si
ciclica continuamente. La parola non deperibile. Basta vedere la tradizione
poetica italiana, che è mirabile e ricca quanto trascurata dalla cultura becera
di questi tempi, nella quale molti conoscono tutto dei nuovi filosofi, per
esempio, e magari non hanno letto Guittone o Jacopone…
… e la poesia del nostro Ottocento, della quale tu hai curato un’antologia
per Garzanti.
Che è stata in un certo senso una grossa scoperta per
me, che fino ad allora ero rimasto spesso legato ai luoghi comuni scolastici:
che si trattasse cioè, a parte alcune grandissime riuscite (delle quali
tuttavia era necessario scovare ad ogni costo i difetti), di un’accozzaglia di
imbecilli falliti, mentre invece non sono pochi i poeti importanti. Tanto che
se qualcuno, per esempio, mi assicurasse che il mio lavoro resterà come quello
di uno Zanella o di un Aleardi, al contrario di tanti io ne sarei lusingato.