24/05/24

Appunti su alcuni libri russi di Paolo Nori, in particolare per "Vi avverto che vivo per l’ultima volta" e sul suo modo di scrivere


Ci sono scrittori di cui non ci importa niente cosa scrivono. Possono dire tutto, anche ripetersi all’infinito, ma non cessiamo di leggerli e di ricercare ogni nuovo libro sicuri di non essere delusi, perché, al di là delle loro storie o invenzioni e persino delle sciocchezze che possono scrivere, è la loro voce che ci attrae, è la sua inflessione che non cessa di parlarci. Non sono gli stessi per ogni lettore. Alcuni lo sono per un grande numero, altri per meno. Paolo Nori, per me, è uno loro.

Peraltro Nori di sciocchezze ne ha scritte poche, come poche ne scrivono questi scrittori, perché niente può essere una sciocchezza se l’inflessione è quella giusta.

È divertente, come sempre, a volte comico, e ci sono anche, come sempre, punti commoventi, che ogni tanto salgono le lacrime e si fa fatica a respingerle.

C’è gente che Nori proprio non lo sopporta, invece. Sempre a parlare delle sue inezie quotidiane, di suoi ricordi ripetuti alla nausea. Anche quando parla di cose o figura di grandezza irraggiungibile, li tira giù a terra come un quarto di bue dal gancio della cella frigorifera e cerca di scaldarli non con il loro stesso fuoco, ma con il suo tiepido fiato di dispeptico.

E poi gli dispiace che dice che quello che stai leggendo è un romanzo, ma poi come sottotitolo dice che è una biografia, e la biografia di uno scrittore, o di una scrittrice, famosi (Dostoevskij e Achmatova, per esempio), per attirare l’attenzione dell’eventuale lettore, che infatti coi casca, come il sottoscritto, e che questo è un modo un po’ troppo furbo di agire, che sarebbe un modo un po’ furbo di dire che è, poco o tanto, disonesto, un modo disonesto di agire, tanto più che poi ci sono cose che ripete, Nori intendo, da un libro a un altro, e a volte anche all’interno dello stesso libro, a volte dichiarandolo e altre no (troppo furbo!), che è una cosa che una volta a me avrebbe dato fastidio, ma tanto!, perché io allora, ero giovane, se c’era una cosa che non sopportavo era la ripetizione, così come la citazione, tanto più se mascherata, o indiretta, o peggio, inconsapevole, e invece ora non mi disturba neanche un po’, e anzi mi piace, se fatta in un certo modo, cioè che non sia identica anche quando lo sembra, fatta con furbizia insomma, un po’ almeno, e cioè con arte. E mi sembra che questo Nori lo faccia.


Molte cose che ci sono in questi ultimi due libri ci sono, infatti, pari pari già nel precedente I russi sono matti, che pure come sottotitolo dice in modo che ai detrattori parrà di sicuro furbesco, Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 (Utet, 2019, 223 p.), e invece è un repertorio di aneddoti e citazioni sugli scrittori e sulla storia della cultura e della società russa, con qualche riferimento alla letteratura in senso classico, ma si legge bene lo stesso, almeno io l’ho letto volentieri, è anche impaginato, come tutti i libri di Nori, in modo gradevole, e pazienza per la storia della letteratura russa, qualcosa si impara comunque, e non se ne esce disgustati, o annoiati, o disgustati e annoiati, come capita spesso con altri libri che magari volevano farti divertire o riflettere su cose serissime che purtroppo affliggono il mondo già di loro.

 


Chi cerca una biografia deve rivolgersi altrove (nella nota bibliografica, Nori ne suggerisce e commenta brevemente alcune), però a me sembra che alla fine del libro, della Achmatova ne sappiamo abbastanza. E anche di Nori, diranno i maligni. È vero. Ma io credo che quel saperne abbastanza della Achmatova, e in un modo vivo, parziale ma vivo, dipende anche dal fatto che ne veniamo a sapere abbastanza (cioè ancora troppo, non solo per i maligni) di Nori. Che cioè il modo vivo in cui veniamo a conoscere (o a ri-conoscere, per chi già un po’ la conosceva) la poeta russa (così voleva essere chiamata lei; non: poetessa) è legato al modo in cui Nori ci fa conoscere la sua vita, il suo modo di vivere, e quello che gli succede in rapporto al suo, al nostro, tempo, e al rapporto di questo con il tempo in cui ha vissuto lei. Perché diventa una persona vivente che si viene a conoscere da un personaggio che è vivente e ha qualcosa a che fare non con l’autore vivente, ma con il modo in cui l’autore rende vivente il personaggio che gli assomiglia, con la lingua e il tono e il respiro con cui ne parla. Così, a chi vuole sapere i fatti della vita della grande poetessa russa (io preferisco poetessa), e la storia della sua opera e anche qualcosa della sua opera, è meglio che legga altro; chi invece Nori gli sta simpatico per come parla e racconta le sue cose, sue del personaggio che si è costruito e di cui scrive, e di come questo personaggio vive gli autori di cui parla e la loro opera ecc., allora io direi che questo libro è da leggere.

 

Non c’è alternanza vera e propria tra le parti dedicate a AA e quelle in cui il narratore parla delle cose che gli stanno succedendo e dei suoi ricordi di altre che gli sono successe o ha scritto: questo modo di comporre il libro, di mettere le cose insieme e dargli forma, mi sembra indicativo di come la storia della poeta russa e i suoi versi, e quella della Russia dei tempi in cui ha vissuto e delle persone che ha sposato, amato, conosciuto ecc. e quella del narratore e dei tempi che stiamo vivendo, la guerra della Russia all’Ucraina, i modi in cui noi la affrontiamo comodamente indignati sulla poltrona di casa o dello studio dove leggiamo e scriviamo, ecc. si intrecciano, del modo in cui Nori (e il suo narratore) e noi (i suoi lettori) viviamo o possiamo (potremmo) vivere questi giorni, questi anni: siamo già al secondo, dopo lo scombussolamento del Covid, e ancora la fine non si vede: e quella che si intravvede non è quella che vorremmo, e potrebbe essere anche davvero la fine, la fine-fine, per molti di noi, tantissimi, quasi tutti.

È una forma che si maschera da disorganizzazione, se non da confusione. È un bel modo di portare dentro le storie e farle comunicare tra di loro e di portare a condividerle il lettore. È un artificio molto scaltro, o meglio: molto abile, di costruire un libro. Roba vecchia, si dirà: l’artificio che si nasconde nella naturalezza, nella mimesi della confusione del quotidiano; e invece è calibratissimo. Quasi sempre, perché un materiale così mobile a volte rischia di sfuggire di mano; questo lasciare porte e finestre aperte perché l’imprevedibile entri, può comportare che a volte sia l’imprevedibile a portarti fuori, a portarti così lontano che a un certo punto ti chiedi: ma allora dove sono? Perché mi sono lasciato condurre qui, che davvero va be’, è anche interessante (a parte che alcune cose le ho già lette: che le ripete, lo ripeto), ma insomma, c’entra poco: se non c’era, il libro era più piccolo di sicuro, ma forse anche migliore. Con tutto che è bello e piaciuto molto e ci sono tante cose che mi hanno fatto ridere, e anche riflettere e alcune persino commuovere.


 

 

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