02/05/24

La navigazione di San Brandano



Per l’Isola dei Beati il tour operator più indicato è il Padreterno. Non c’è bisogno di prenotazioni, itinerari programmati, mezzi di trasporto particolari e nemmeno di grandi disponibilità finanziarie: bastano una barca, la fede e la voglia di andare. E non sbagliare nume. Se ci si affida totalmente a lui, senza tentennamenti, si sarà provvisti di tutto, anche di qualche bonus imprevisto, assicurazione contro infortuni, protezione a 360 gradi contro ogni genere di nemici, incontri insospettati, spettacoli fuori programma, cibo gratis, misurato ma buonissimo. Avventura. E conoscenza. Perché si soffre e si impara. Il percorso non è rettilineo: ci sono prove, deviazioni, impedimenti, sacrifici, digiuni, fatiche, tentazioni e pericoli: tutti ampiamente ripagati però. Si ottiene “un premio ch’era follia sperar”, per dirla con uno che di fede ne aveva.

È esattamente quello che fa Brennan Mac Hua Alta, poi san Brandano, irlandese di stirpe regale nato pagano pare nel 484 e morto nel 578, che dopo la conversione si fa monaco e fonda decine di monasteri soggetti alla sua rigidissima regola, che segue lui per primo e fa rispettare con mano ferma ma misericordiosa. Un giorno sente parlare dell’Isola nota come Terra Promessa dei Beati da Barindo, un venerabile confratello reduce da un lungo viaggio a cui Brandano aveva chiesto: “Rivelaci la parola di Dio e solleva il nostro morale raccontandoci le divine meraviglie che hai visto nell’oceano”; e subito preso dal desiderio di raggiungerla, e dalla curiosità che “lo angustiava tanto che il suo volto era rigato di lacrime”, decide di partire. Ha già fatto numerosi viaggi per diffondere il suo credo e incontrare altri monaci e santi e è già in là con gli anni, ma non importa, l’impulso di andare è troppo forte. Fa i preparativi, allestisce una nave adatta e con 14 seguaci, poi diventati 17 in virtù di un ricatto morale (che costerà caro a due degli avventizi), parte lasciando nella costernazione i confratelli. La nave è un currach, un’imbarcazione tradizionale di origini celtiche usata ancora oggi, di legno e cuoio, con una sola vela, e a costruirla ci pensano Brandano stesso e i suoi monaci.

“Brandano e i suoi seguaci … costruirono una nave leggera, utilizzando per l’intelaiatura legno di bosco, …, la rivestirono di cuoio bovino tinto di rosso con la corteccia di quercia. E spalmarono esternamente di grasso tutte le giunture delle pelli, collocarono all’interno il cuoio sufficiente a rinnovare due volte il rivestimento della nave, grasso da spalmargli sopra, provviste per quaranta giorni … Sistemarono anche un albero al centro della nave, con una vela e quant’altro richiede la navigazione” e salparono.

 


Il currach è una barca di cabotaggio, come era in genere la navigazione a quei tempi, ma non mancavano intrepidi che con essa si inoltravano al largo alla ricerca di nuove terre e ricchezze o per spirito di scoperta, come l’Ulisse di Dante, che a quell’epoca era ancora bel lungi dal nascere e anzi pare che alle peregrinazioni di Brandano si sia un po’ ispirato per la sua Commedia (dico pare; non che è sicuro). Gli irlandesi, come altri popoli del Nord, non si facevano mancare la possibilità di inseguire, oltre alle ricchezze, gloria e incontri meravigliosi, e lo dimostrano due dei principali generi di narrazione orale della tradizione celtica, gli Imrama e gli Echtrai, che hanno come protagonisti eroi e santi di vario tipo e caratura che appunto per mare si avventurano. Brandano e il suo viaggio si ispirano anche a loro. I cristiani in Irlanda, convertiti pacificamente in massa e in fretta, assimilarono senza problemi la cultura precedente, nonostante il fervore della loro fede, e ne trassero giovamento, come giusto, e come sempre dovrebbe essere.

Il mare della Navigatio, trattandosi dell’Irlanda, è l’oceano, che a quei tempi e a quelle latitudini è un regno poco conosciuto, dove anche il noto è sfuggente e nasconde misteri, che si amplificano non appena si abbandonano, a volte di gran fretta per sfuggire a pericoli improvvisi, le rive note e ci si inoltra nelle acque aperte: luogo concreto, mare reale di cui i naviganti hanno esperienza e di cui conoscono pericoli e caratteristiche, ma anche oceano mitologico con la sua geografia incerta e i suoi mostri certissimi.

Il currach, ottimo per viaggi lungo la costa e per la pesca, in mare aperto, se appena le acque si agitano, è un trabiccolo che può facilmente mutarsi in una trappola. Ciononostante pare che gli irlandesi, spinti dal miele tossico dell’avventura, avessero compiuto già importanti esplorazioni e fatto scoperte, come l’Islanda e forse il Labrador, anche prima dei Vichinghi. Lo dico per informazione, ma qui importa poco. Il santo frate non è interessato a lasciare il suo nome a qualche terra sconosciuta, anche se poi una fantomatica Isola di san Brendano sarà nei secoli avvistata e persa, raggiunta e abbandonata per non essere più ritrovata, ma in compenso ampiamente sognata e raffigurata qua e là sulle carte nautiche, come tante altre isole, reali e immaginarie, affiorate e presto sprofondate, fino ad epoche successive ai viaggi di Colombo e di altri nobili esportatori della vera e sola fede. (Oggi è completamente sparita dall’orizzonte, tanto che non compare nel bellissimo Atlante delle isole remote di Judith Schalansky, Bompiani, 2021.)


Quello che Brandano vuole è vedere l’Isola dei Beati, o quantomeno il Paradiso Terrestre, raggiungere e curiosare un po’ qua e là secondo quanto Dio vorrà predisporre per lui.

Più che un andare, un dirigersi o anche solo un cercare, il suo e quello dei compagni è infatti un vagare affidato fiduciosamente a venti e correnti: alla provvidenza insomma. È un muoversi alla cieca: un navigare nella fede. Nella nebbia della fede. Partono infatti nella nebbia, e la nebbia, per impedire di determinare coordinate e annotare rotte, circonda molti dei luoghi in cui si imbattono, inclusa la meta agognata. Hanno una destinazione, precisa nella loro mente ma vaghissima nell’ubicazione, improbabile razionalmente quanto certa nelle convinzioni: cercarla è una quête vera e propria, un viaggio che sarà di espiazione e purificazione e perfezionamento, e insieme un accostamento alla morte in vista della salvezza, ma non c’è piano, nemmeno narrativamente. La loro è peripezia allo stato puro, in una “tensione ascetica e insieme eroica verso l’Altro, il sovrannaturale e l’infinito”, come scrive M. Fumagalli Beonio Brocchieri. Si va, si ha l’inflessibile certezza che si arriverà, e poi capiti quel che capiti.

Il percorso è casuale ma anche rituale, e l’assenza di riferimenti spazio-temporali trova nel tempo liturgico una compensazione che sublima l’assenza di altre mappe. Il percorso è imprevedibile ma i santi navigatori si imbattono in “stazioni” impreviste per collocazione e ordine di incontro, alcune delle quali però marcheranno un tragitto circolare, ripetitivo, per sette anni scanditi in 4 tappe fondamentali in corrispondenza delle maggiori festività religiose (Passione e morte di Cristo, Pasqua, Pentecoste, Natale). Itinerari e incontri che si ripeteranno in ordine obbligato a ridosso di quelle date, come lo è ogni rito una volta instaurato e definito, mentre per il resto la navigazione resterà fortuita e sorprendente, così da appagare la curiosità e la sete di conoscenza del sant’uomo e da permettergli al contempo di rendere anche in questo modo grazie a Dio per le meraviglie del suo creato. Per questo, gli svelerà un giovane che incontrerà nell’Isola del Beati, Dio lo avrà tenuto per mare per 7 anni: “Non hai potuto trovarla prima, perché Dio ha voluto mostrarti molti dei suoi segreti nella vastità dell’oceano”. Sette anni non sono un numero casuale, tutto è legato alla numerologia sacra: tre, sette, quaranta, ma anche venti e ottanta, sono i giorni di viaggio, quelli di sosta, quelli di smarrimento nelle nebbie, di bonaccia e di tempesta e così via. Durante il viaggio, il repertorio del fantastico e del miracoloso verrà scandagliato a fondo, come il mare, e i monaci approderanno e celebreranno Messa sul dorso di una balena dotata di un bel nome proprio (Giasconio); arriveranno a un’isola di grandi uccelli bianchi che si riveleranno angeli che parteciparono alla ribellione di Lucifero macchiandosi solo di lievi colpe, che ci piacerebbe tanto conoscere nel dettaglio, evitando in tal modo la condanna eterna;  o un’altra popolata di pecore candide gigantesche perché mai munte o con un albero dai frutti dolcissimi bastevoli a sfamare l’equipaggio per giorni; santi eremiti del mare confinati da decenni su isolette poco più grandi di uno scoglio dove il tempo scorre lento e si invecchia pochissimo. E avrà l’occasione di incontrare e dialogare con Giuda relegato su uno scoglio nei periodi festivi, direi in trasferta premio dall’inferno se non temessi un’ironia gratuita quanto crudele, uno dei personaggi a cui è dedicato più spazio e più toccanti, a cui non viene rifiutata quel poco di misericordia che il dolore suscita nell’uomo di fede anche davanti al peccato più grande; e di assistere al combattimento di mostri marini e grandi uccelli nelle acque e nel cielo vicini alla nave, chi volto all’offesa e chi in difesa dei naviganti. E in certi momenti il mare diventerà così trasparente che fin nei suoi più lontani fondali si potranno scorgere innumerevoli pesci come “greggi sparse in mezzo ai pascoli: un intero popolo di pesci, tutti acciambellati con la testa che toccava la coda” (come dei gatti); o si incontrerà un’altissima colonna di cristallo, certo un iceberg, curiosamente ricoperta da una rete argentea, durissima, di materiale ignoto, a maglie larghe circa due metri; e ancora isole disabitate con tavole apparecchiate e celle con i letti già fatti; altre dalle altissime scogliere e senza approdi, e infine un’isola con montagne infuocate eruttanti lava (come l’Islanda) traforate di grotte-fucine da cui escono bagliori di fuoco e poi esseri mostruosi giganteschi che, come i ciclopi, scaglieranno massi infuocati contro la povera navicella e i suoi occupanti che riusciranno a fuggire a malapena: l’Inferno con i suoi demoni.


Il viaggio, tutto mondano in apparenza sulla superficie continua del grande oceano, apre così finestre sull’Aldilà, che si rivela non essere altrove, ma qui, anche se non si conosce dove sia e come raggiungerlo. Quello di Brandano non è un viaggio verticale, come quello di Dante, ma orizzontale: il trascendente non è un’altra dimensione, è solo un altro luogo del nostro mondo. Il divino e il diabolico sono qui, da qualche parte, la loro lotta si dispiega sotto i nostri occhi, i mostri vengono sconfitti, o addomesticati, ai demoni il sant’uomo può, in nome di Dio, comandare (come quando ordina loro di non vendicarsi su Giuda per la notte o scaccia quello che si era impossessato di uno dei tre frati profittatori). Resta qualcosa che è inattingibile, ma le sue tracce, la sua azione e i suoi effetti, sono presenti qui, nelle meraviglie e negli orrori del mondo.

Alla fine l’Isola dei Beati tanto anelata viene raggiunta, ma di essa poco o niente ci viene detto. Niente degli abitanti e delle loro consuetudini, poco del territorio e del clima e di tutte le delizie che è presumibile vi abbondino: solo che l’isola è immensa e in gran parte preclusa ai visitatori. Probabilmente non hanno i requisiti per il pass, essendo ancora vivi. Vengono ammannite al lettore, comunque sazio di prodigi e bellezza, le informazioni di routine più classiche, che si sarebbero potute desumere anche da altri racconti analoghi: quelle risapute, che si dicono per non dire niente. Per nascondere. O ammiccare. Per destare la curiosità e innescare il desiderio. Così che, allora, per saperne di più, non resta che fabbricarsi la propria barchetta e prendere il mare per cercare l’Isola di persona. Sperando di trovarla. Di esserne degni. 


 

 

 

 



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