14/05/24

Monet in barca





Quando si parla di Impression, lever du soleil (1872), il quadro di Claude Monet da cui per tradizione si fa iniziare l’Impressionismo, o quantomeno il nome, a essere presi in considerazione sono principalmente la luce, l’acqua, l’aria, i riflessi, i colori. Un’attenzione meno approfondita viene invece prestata al porto con i suoi edifici e macchinari e soprattutto alle numerose imbarcazioni, a che tipo sono, alla loro grandezza, forma e funzione, se non come termini di riferimento spaziali e per creare profondità in un contesto in cui la prospettiva classica è assente, sostituita da quella tripartita, dall’alto in basso, sul modello giapponese. Eppure sono lì, elemento non minore della composizione, a riempire lo spazio con la loro presenza, a dargli corpo, articolazione e linee di forza, suddivisioni, a intercettare lo sguardo, a farlo inciampare. Anche lo spettatore comune tende a trascurarle.


Poi un giorno, magari dopo aver osservato e analizzato tutto il resto, ancora in preda all’emozione dell’insieme, uno le vede e come colto da un improvviso stupore (illuminazione sarebbe troppo) si chiede che razza di imbarcazioni saranno mai, che cosa ci fanno lì di preciso, a parte il fatto ovvio che in un porto ci stanno di casa. Ma se non è uno specialista o del mestiere, gli vengono in mente solo parole generiche e un piccolo mazzetto dei sinonimi più diffusi che dicono tutti la stessa cosa. Variazioni, sfumature: non vere e proprie differenze che segnalano specifiche identità. Certo, in questo quadro, sono quasi solo sagome incerte, fantasmi. Ma una volta formulata la domanda, non è poi facile eliminarla, e dal momento che le imbarcazioni sono presenti in molte altre opere, si comincia a cercarle e a provare a riconoscerle.

Già i quadri realizzati nel 1869 a “La grenouillère”, quelli che veramente inaugurano l’impressionismo, quando Monet va a dipingere sul fiume in compagnia di Renoir avviando una consuetudine che resterà viva fino ai tempi di Van Gogh, Seurat, Bernard e oltre (vedi Guzzoni qui), ne sono zeppi.

  

E altre ne seguiranno, nei numerosissimi quadri fluviali e marini della sua opera, dipinte spesso con attenzione e grande cura, talvolta anche in primo piano, e non solo perché l’acqua e il mare sono tra i soggetti da lui preferiti. E così vediamo ogni sorta di pescherecci, barche tirate in secco per l’inverno, chiatte, rimorchiatori, cabinati di vario tipo, case galleggianti, carghi, bastimenti a vapore e velieri.

Monet non trascura nessuna delle tipologie, in un mondo che sta vivendo molti cambiamenti anche nella marina, sia mercantile che militare, e nelle differenti funzioni economiche, abitative e di loisir, lussuoso o modesto che sia. È la prima volta, tra l’altro, che si vedono nei quadri tante imbarcazioni da diporto. L’accesso al loro possesso e al loro uso è cresciuto con l’affermazione della nuova borghesia, del tempo libero, delle vacanze al mare e lungo i fiumi, e dell’aumento dei porticcioli e delle attrezzature turistiche, e anche la pittura ne prende atto, Monet tra i primi che non trascurava nessuno dei nuovi aspetti della vita moderna. Era facile raggiungere le rive più amene della Senna a pochi chilometri dalla città portandosi tutta l’attrezzatura in treno per dipingere la luce e i riflessi cangianti degli alberi e delle acque e i loro riverberi colorati sugli abiti e sull’epidermide dei borghesi in vacanza, mentre un numero sempre maggiore di barche da diporto e da regata percorreva il fiume. A partire dalla prima metà dell’800 si erano diffusi i circoli velici e ad andare in barca per piacere, prima appannaggio solo degli aristocratici come quelli dipinti da Watteau, si appassiona anche la massa crescente di borghesi grandi e piccoli che si possono spostare agevolmente per fuggire dal caos e dall’aria irrespirabile dalla città sovrappopolata, verso una natura intatta che poi però si ritrova affollata di consimili fuggitivi, come gli innamorati disperati che gremiscono le valli deserte nel Don Chisciotte.

 


Tra quelle dipinte a c’è anche la barca-atelier, una barca larga con una cabina e una tenda che poteva essere srotolata per proteggere dal sole, che il pittore aveva allestito per poter lavorare in mezzo ai riflessi e agli effetti di luce creati dal fiume, immerso nel quadro che andava dipingendo, come è stato a sua volta ritratto, con un effetto en abyme, dall’amico Manet che ogni tanto andava a trovarlo.


Chi osserva i quadri di Monet può quindi farsi un’idea anche dei cambiamenti dei natanti e della molteplicità dei loro usi e delle loro forme. In Impression, lever du soleil però, vien da pensare, non è poi così importante distinguerle e etichettarle, a meno di non essere visitati dal demone della nominazione, peraltro sempre benaccetto.

Come è noto Monet non rappresenta ciò che vede, ma la sua impressione di ciò che vede, il modo in cui ciò che c’è lo impressiona, e impressiona proprio e solo lui, persona come le altre ma come ciascuna da tutte le altre differente, dandoglisi a vedere e insegnandogli a vedere sempre meglio, sempre di più. Per questo, nei suoi primi anni di attività, molti rigettano ciò che dipinge: perché quello che vedono, non corrispondendo alle loro impressioni che essi scambiano per la visione oggettiva della realtà, per loro è solo confusione che offusca ogni cosa, e di fatto la rende invisibile: mentre per Monet è l’invisibile in ciò che lo impressiona ciò egli, e lo spettatore con lui, deve imparare a vedere standogli in mezzo, e non di fronte, da fuori (da cui la necessità, e non il vezzo, del plein air) e che di fatto egli stesso comincia a vedere solo dipingendo.

Non è quindi alle imbarcazioni che Monet pensava in primo, e forse nemmeno in secondo o in terzo luogo, mentre creava Impression. E infatti anche i tratti che le caratterizzerebbero sono in quest’opera confusi, quasi cancellati, per lasciar luogo solo a linee e macchie di colore, perlopiù scuro. Forse in questa occasione non si è nemmeno preoccupato di rappresentarle nella loro specificità, come se non le avesse viste una per una, ma affogate nell’insieme, nella vibrazione della luce che si fa strada nella foschia del mattino, tra la nebbia e i fumi dell’inquinamento industriale e portuale emanati dalle ciminiere delle fabbriche e dai battelli a vapore, e nella infinita frammentazione dei riflessi che ne derivano. Non sarebbe pertinente chiederselo, quindi. Ma chi decide cosa è pertinente e cosa no? Intanto quelle imbarcazioni, quelle navi, le loro sagome, i loro corpi, ci sono. Uno guarda il quadro e le vede. Non può fare a meno di vederle. E poi è poco probabile che l’occhio così sensibile di Monet non le abbia guardate bene, e che, una volta viste, le abbia trascurate in modo così enfatico. Se dipinge luce colore e riflessi, e non cose; se va oltre esse e le trasforma in masse e linee di colori mutevoli, deve però averle viste, deve averne fatto una qualche esperienza prima di optare di dimenticarle, o di fare a meno dei loro tratti individualizzanti: prima di decidere che stavolta non avevano tanta importanza e di astrarre da loro. Non si opera un’astrazione dal nulla. E comunque loro sono lì, e nessuno le toglierà dal quadro, nessuno le cancellerà. Sono lì, e lo spettatore, con tutte le volte che ha visto, e anzi guardato, scrutato il quadro o le sue riproduzioni, forse non subito, forse solo con una coscienza vaga, ma infine vede anche loro. Vi si sofferma con attenzione. E da quel momento non riesco a dimenticarle. Non può fare a meno di pensarci, anche se fino a poco fa non era mai andato oltre. Ma una volta formulato l’interrogativo, gli diventato impossibile evaderlo. Che razza di barche e navi sono?, si ripete. Non si raccapezza. Fa fatica a orientarsi, come se brancolasse nel buio. Accecato dalla luce, ondeggia al movimento dello scafo, si aggrappa alla ringhiera, abbraccia l’albero maestro.

Tutte le cose che sono rappresentate nel quadro, sono meno cose avvolte dalla luce (fossero pure le luci della notte), che occasioni per vedere la luce che si materializza grazie ad esse mentre insieme le dà a vedere e le sgretola, le disarticola fino quasi a dissolverle, come dissolto è lo spazio, inteso come ambiente, come ‘contenitore’, scatola prospettica.

Barche, battelli e navi si confondono con le acque e l’aria, affogano nel colore, quasi smaterializzate, eppure restano lì, presenti, ancorate nell’immagine, necessarie, che affiorano come sono, che vengono all’esistenza attraverso l’azione del loro in un secondo tempo, in un tempo sempre successivo, ri-apparire, il quale però, a ben guardare (sì, proprio a ben guardare), è il loro reale manifestarsi, il loro venire ad apparire che è insieme il loro venire ad essere. Indispensabili nel loro stesso venir meno. La luce senza ostacoli è invisibile. Monet lo sa benissimo: non a caso in molte tele le imbarcazioni conservano una consistenza materica, anche se in Impression e in altre opere ancora tutto sembra disfarsi e diventare ombra, apparizione incerta, larvale.

Infine però qualcosa si comincia a distinguere e a riconoscere: ci sono due o forse tre velieri, un peschereccio, una sagoma che sembra una chiatta sulla sinistra, tre barche da pescatori, una che forse fa da guida alle grosse navi che escono dal porto quando la marea lo permette, altre piccole sagome che sembrano vele di imbarcazioni da diporto o da regata, come quelle presenti in altri quadri, che pullulano di barche da pescatori, chiatte e imbarcazioni da canale a fondo piatto con randa per il trasporto del carbone e di altre merci, e poi bastimenti, rimorchiatori, barconi da abitazione, dinghi, flying dutchman, yacht a 2 vele, cutter, feluche, mercantili a vela e a vapore, barchette e canoe con graziose signore ai remi… Una volta iniziata a passare in rassegna la vasta produzione del pittore, si scoprono decine, se non centinaia di quadri con questo soggetto, e lentamente qualcosa si viene a sapere. Si vedono le loro peculiarità. Si riconoscono forme e grandezze e funzioni. Si cercano e trovano nomi. E alla fine, le cose vanno a posto. E per un momento è tutto in ordine.





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