20/05/24

Moroni, sommesso e sommo

Raccontano che Tiziano, ai funzionari veneziani in partenza per Bergamo che gli chiedevano un ritratto, rispondesse che avrebbero potuto trovare laggiù chi avrebbe fatto al caso loro nella persona di Giovan Battista Moroni, “che gli faceva naturali”. Un apprezzamento che sa di duplice sprezzatura, verso di loro che non meritavano il suo pennello, impegnato in soggetti di ben altra levatura, e verso il pittore bergamasco, relegato a bravo artista di ritratti, genere di levatura minore, per personaggi che la condividevano. Al suo studio bussavano imperatori, papi e regnanti vari e varie, che lo pregavano di averne uno di suo pugno, e che da soli bastavano a nobilitare anche il genere, a sua volta già innalzato dalla genialità del pittore.

Moroni invece non si vergognava di dipingere media e piccola nobiltà locale, notai, poeti di seconda e terza categoria, prevosti, badesse, artigiani cittadini e valligiani. Della val Seriana! Montanari. Che peraltro lo apprezzavano moltissimo, e che, al suo ritorno definitivo a Albino dove era nato nel 1521, dopo gli anni passati a Brescia alla scuola del Moretto e qualche successiva puntata a Trento in occasione dei lavori del Concilio che gli avevano procurato le prime importanti commesse, non si stancavano di chiedergli, oltre ai ritratti, pale d’altare e altre opere religiose che lui eseguiva con la massima diligenza, anche se, a detta degli esperti, con scarsa originalità e ancor minore immaginazione.

Chi volesse farsi un’idea di quanto approssimative fossero queste valutazioni, insieme alla conferma del livello eccelso dei ritratti, ha ora l’opportunità di farlo visitando la grande mostra che al pittore albinese hanno dedicato Le Gallerie d’Italia di Milano, Moroni, il ritratto del suo tempo, con ricco catalogo per l’eccellente cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino (edizioni Gallerie d’Italia | Skira). Mostra bellissima e completa, sia per la documentazione del suo intero percorso, sia per il numero e la qualità delle opere degli autori a cui si è ispirato, che ha copiato e con cui si è confrontato, a cominciare dal suo maestro Moretto, per passare da Lorenzo Lotto, Savoldo, Antonis Mor, Tiziano (tra cui il poco noto sorprendente “Ritratto del cardinale Filippo Archinto”), Tintoretto e Veronese, con opere sempre di altissimo pregio, e talvolta veri e propri capolavori che meriterebbero una visita anche da soli.


 

Moroni ha dipinto per quasi quarant’anni, ci sono rimaste più di duecento opere, aveva contatti con nobili lombardi e anche veneziani, il valore delle sue opere era riconosciuto, eppure è rimasto “totalmente sconosciuto alla letteratura artistica cinquecentesca” (Paolo Plebani).

Un’impresa non da poco. Non è nemmeno che sia caduto in disgrazia o sia stato messo in disparte e dimenticato (come Lotto): lui in grazia, a un certo livello perlomeno, praticamente non c’è nemmeno mai stato. La sua ribalta è stata rasoterra. Per secoli. Ma lì è sempre stata ben radicata, presso un numero ristretto ma tenace di amatori, fino alla riscoperta in grande stile a metà del secolo scorso, quando alcuni dei più noti hanno cominciato a dire che alcuni dei suoi ritratti sono tra i più belli di tutti i tempi, come “Il sarto” della National Gallery e il cosiddetto “Uomo in nero” del Poldi Pezzoli, entrambi presenti in mostra.


Non gli ha certo giovato, a parte la parentesi di Trento nei primi anni 1550 dove ha potuto conoscere e confrontarsi con la ritrattistica imperiale ufficiale per esempio di Tiziano e di Mor, l’aver circoscritto tutta la sua carriera all’area bergamasca, dopo il ritorno al paese d’origine nel 1555, dove ha ricoperto anche cariche importanti nella comunità locale e da cui non risulta essersi mai spostato per tutta la vita, contento di starci, “sommo e insieme sommesso, o sommo perché sommesso, albinese”, come scrisse Giovanni Testori.

 Se questo infatti ha condizionato il raggio e la qualità della sua committenza, non ha però minimamente influito su quella della sua pittura, che ha ben presto trovato proprio nella ritrattistica il suo ambito privilegiato, con un importante incremento della pittura religiosa soprattutto nell’ultimo decennio.

Come ha scritto Federico Zeri, i “personaggi del Moroni sono tutti attori comprimari di una storia che coinvolge l’intero tessuto sociale, […] è l’intima preoccupazione di prelati, responsabili di un grado gerarchico sentito come missione, ignara di cedimenti o compromessi”, che lui stesso condivide.

Lo si vede dal particolare tenore dei ritratti, che conservano la stessa serietà e partecipazione di fondo, pudica e non sentimentale, e tutt’al più con qualche accenno di benevola ironia, che caratterizza tutto il suo percorso artistico, coerente pur nei cambiamenti che i tempi e le conoscenze hanno occasionato e che si notano non solo nella moda degli abiti a cui i committenti prestavano grande attenzione, ma anche nelle differenze stilistiche e di impaginazione, nei fondi e nella colorazione prima accesa anche se equilibrata, poi incentrata su sottilissime preziose e magistrali sfumature tonali di grigio e nero, poi di nuovo aperta a una gamma cromatica varia e brillante.

Quello che non cambia è il realismo del pittore, l’attenzione meticolosa, lenticolare a ogni dettaglio e sfumatura, alla varietà delle stoffe e delle epidermidi, alla singolarità delle acconciature e degli sguardi.

Le donne e gli uomini ritratti presentano tutti figure e volti composti, mai impassibili o algidi come in certi ritratti ufficiali spagnoli o manieristi, o viceversa marcatamente espressivi, e anzi le loro posture sono persino disinvolte in certi casi, rilassate, “naturali”. È gente seria, che al massimo si concede una leggera piega ironica, un velo di tristezza o un accenno di riflessività e di meditazione; ma più spesso ti guarda, e si dà a vedere, placidamente, o non guarda affatto, concentrata sui fatti suoi, ma non in modo altezzoso o scontroso: gente che ha da pensare e da fare, e che di conseguenza ci pensa e lo fa. A volte lo sguardo è severo, mai cupo però, o giudicante, come non giudica mai i suoi soggetti il pittore, che se evita di calcare il pedale dell’empatia, li guarda in modo oggettivo ma non freddo, e in genere come qualcuno per cui la loro presenza, e persino la loro compagnia, è una consuetudine, e non problematica, scontata quasi, la compartecipazione a un medesimo contesto di vita e di valori e di fede.

 Indossano abiti lussuosi, ma relativamente alla posizione sociale e alla carica; alcuni, specie quelli femminili, incluse le acconciature e i gioielli, sono a volte ostentati a dispetto di ogni disposizione suntuaria, mentre gli uomini sembrano più severi, senza esserlo veramente, perché le stoffe sono quasi sempre di gran lusso, ricercatissime per qualità e rarità, tutte meravigliosamente rese, che inducono l’irresistibile desiderio di toccarle, di palparle e accarezzarle (più loro delle epidermidi). Ma restano comunque abiti a volte un po’ elaborati da indossare, tanto da indurre a immaginare la vestizione come un breve cerimoniale celebrato con l’ausilio di un servo o di una cameriera da camera, ma abbastanza comode da portare, calde in quelle loro case dagli ampi locali e dagli alti soffitti, difficili da riscaldare, con i venti gelidi che percorrono le valli bergamasche da ottobre a maggio.  Anche certi ingombranti pantaloni rigonfi e elaborati, aperti su braghette in genere discrete, che l’uniformità del colore in parte smorza, tranne alcuni casi di esibizionismo un po’ ridicolo (ma sono perlopiù nobili cittadini, podestà, funzionari veneziani, paciosi ma un po’ vanesi).

A partire dagli anni ’60 comincia ad affermarsi il nero integrale, sul modello della monarchia asburgica, colore sobrio, ascetico, che allude a umiltà e penitenza, a onestà e lealtà, ma anche a potenza e autorità, “fusione perfetta tra fede e austerità, da un lato, e norme cortigiane dall’altro” (Simone Facchinetti)


Anche l’ambientazione si spoglia sempre di più, i locali e le pareti si fanno disadorni, quando non spariscono del tutto, anche in relazione al taglio del ritratto, ovviamente: ravvicinato, di tre quarti, “al naturale” a figura intera. L’aspetto celebrativo, se mai c’è stato (e comunque mai disgiunto da un inflessibile rigore realistico, pur senza indulgere al dettaglio sgradevole, sempre tenuto al livello di annotazione oggettiva, cioè di attenzione e di rispetto per la realtà: e quindi di cura), sparisce del tutto: restano le teste, i busti, i corpi di ogni persona rappresentata nella sua singolarità, con i suoi caratteri individuali e mai tipici o simbolici, la sua personalità senza orpelli, il suo sguardo, ciascuna bastevole a se stessa, inconfondibile, e perciò indimenticabile.

Spesso la persona ritratta sembra colta mentre attende a qualche normale attività (leggere, tagliare una stoffa, scrivere, pregare, redigere o studiare atti notarili…), ma nessuna ti guarda infastidita per l’interruzione, e sempre ti accoglie tranquilla, con una pazienza connaturata, al massimo con un po’ di curiosità, per vedere chi sei, cosa vuoi, cosa può fare per te, cortese, mai sopra le righe né con familiarità ostentata, piuttosto con pacato distacco, distesa e misurata, quasi che fosse lei ad attestare la nostra esistenza e non noi a contemplare la sua.

È tutta gente a cui non viene difficile vivere, che sta confortevolmente in se stessa, o così sembra, che sa chi è e cosa fa e deve fare e non si spinge molto oltre, e che accetta ciò che le tocca e lo affronta serenamente; e anche se sono incorsi in malattie e sventure, e c’è chi è solo con due bambini piccoli che hanno fatto pensare che fosse un vedovo (cosa non certa, nonostante il gesto protettivo del padre e la tristezza negli occhi della bimba e lo sguardo un po’ perso del bimbo: entrambi bellissimi, che possono stare alla pari della meravigliosa “Bambina di casa Redetti” della Carrara di Bergamo, purtroppo assente a Milano), o chi porta i segni della vecchiaia o di qualche imperfezione o malattia, non lo danno a vedere come un triste trofeo, non lasciano trasparire, se non in forme pudiche, lievi, le devastazioni e le ansie, così come non si fregiano esteriormente delle cariche e dei ruoli o delle professioni, o solo di quel tanto di valore sovrapersonale che esse comportano, per non sminuirle. Gli basta il decoro, la dignità a cui ciascuno ha diritto per il semplice fatto di stare al mondo. Il resto è benvenuto, quando c’è; e non rimpianto, se non è arrivato o si è eclissato.


Nessuno ha l’inquietudine e il mistero di certi ritratti del Lotto, o l’imponenza, l’eroica monumentalità, non solo per ragioni ufficiali di rappresentanza o di carica, di quelli di Tiziano, eppure a volte vien da pensare che proprio lì risiede il loro mistero. Che proprio in quello consista la loro importanza. Possibile che nemmeno un’ombra di turbamento o di trepidazione, la traccia di un dolore, di un’angoscia, di una disillusione per un’ambizione mancata o dell’ansia per una agognata e da raggiungere, li sfiori o abbia lasciato un segno, una ruga, una piega amara o sprezzante sulle labbra o una pesantezza nelle palpebre? Hanno una naturalezza compiuta e spontanea, non “soddisfatta” o ricercata o orgogliosa, come se non potesse essere altrimenti: una naturalezza animale.

Sono facce che si possono vedere in giro nella bergamasca anche oggi, Roberto Longhi aveva ragione a farlo notare, persone che conosciamo, che hanno l’aria di famiglia. Non c’è nessuna idealizzazione, non sono belle, ma neanche particolarmente brutte; alcune hanno la pelle arrossata dall’aria fresca delle valli, segnata dal tempo cronologico e meteorologico, le rughe o viceversa le guance pienotte, tese, più che cadenti, eccetto alcuni preti e funzionari. Le donne sono bellezze provinciali, come le chiamava Jacob Burckhardt, di raffinatezza più ambita che incarnata, anche quando stracariche di abiti e di gioielli preziosissimi; nessuna è estenuata, pallida o languida, o solo esile, piuttosto il contrario: floride le giovani, matronali quelle più mature, in salute, che non indulgono a stravizi ma certo non si negano niente, tranne quando il calendario liturgico lo esige.


 Gli stessi lineamenti li troviamo anche nei fedeli che ci indicano le scene della passione o gloriose che visualizzano mentalmente per favorire le loro preghiere, secondo i dettami dei libri di esercizio spirituali già in voga prima di quelli di Ignazio di Loyola e raccomandato dalla dottrina post-tridentina, come pure nei santi e nelle sante che si differenziano da loro solo per la postura (e neanche sempre) e per gli attributi iconologici: niente a che vedere con le sante rapinose del Veronese e di altri veneziani o con quelle raffinate, dal gesto raffinato e lo sguardo spesso velato di malinconia che il Lotto ha disseminato per le valli bergamasche e che certo Moroni aveva presenti.

Il fatto è che, quand’anche si ispirava e prendeva a prestito, o addirittura copiava (in particolare dall’antico maestro Moretto), motivi e figure dei suoi quadri religiosi, sempre il pittore albinese li declinava a modo suo, scostandosi in apparenza lievemente (soprattutto nei primi decenni) e poi sempre più, ma in nessun caso vistosamente. Non era interessato, o forse non era versato, a ricercare clamorose innovazioni formali, e tuttavia è difficile non riconoscerli come di sua mano una volta che li si incontra. La sua spiritualità non ha faticato ad aderire ai dettami del Concilio di Trento, che prescrivevano rappresentazioni semplici dirette, di facile lettura e immediata adesione, più riflessiva che scomposta e commossa, o alle richieste di committenze dal gusto tradizionale e desideroso di impianti a volte arcaici, come i polittici, ma non mancano, accanto alla maestria dell’esecuzione fin nei minimi dettagli, soluzioni originali e innovative che si fondono senza attrito con essi, come nell’“Ultima cena” di Romano di Lombardia o nelle “Crocifissioni”, in particolare quella di Albino.

 



Si prenda ad esempio il “Cristo portacroce” (1575-77), tutto concentrato in se stesso, preso dalla propria pena, dal peso non solo fisico che sta sopportando in perfetta solitudine, in un paesaggio spoglio, vuoto, senza fedeli o spettatori, senza nemmeno rivolgere a chi osserva quello sguardo straziante, venato di sangue, che caratterizza altri Portacroce dal taglio ravvicinato, con quasi la sola corona di spine e un frammento della croce, come quello giorgionesco della Scuola di San Rocco o quello tizianesco dell’Ermitage, struggente al limite del sopportabile.

Ma a caratterizzare queste opere è il ruolo che vengono ad assumere i cieli e le atmosfere e in genere l’importanza assegnata al paesaggio, spesso stupendo, che richiama anche solo in alcuni dettagli quello reale dei luoghi dove erano esposte.

In particolare a colpire è la presenza quasi ubiqua del massiccio roccioso della Cornagera rappresentato da varie angolazioni in molti scorci paesaggistici o negli sfondi delle opere religiose e delle pale d’altare, anche se può essere letta (e in un certo senso forse  è) come una firma indiretta, un emblema geologico, crea nel fedele un effetto di appaesamento, che si traduce nella cifra di una comunanza di luogo e di identità, e di comunità, di partecipazione allo stesso credere e sentire, tra autore, committenti e fedeli valligiani, che uscendo dal luogo sacro dove hanno pregato davanti all’immagine si ritrovano nello stesso spazio che vi avevano visto rappresentato, e come in quello avevano riconosciuto lo spazio fisico della propria vita, in questo ritrovavano la stessa sacralità che elevava e benediceva la loro (modesta, spesso povera, quasi sempre tribolata) quotidianità.

Nelle Crocifissioni, specie quella di Albino, il cielo è spesso cupo, l’atmosfera satura di umidità, il temporale imminente, rappresentato con sublime maestria, mai vista prima (neanche in Giorgione, vien da dire), ma se il cielo sta per scatenarsi, se il buio  è a un passo dal coprire ogni cosa, pensa il fedele che conosce il racconto evangelico della Passione, è perché il sacrificio del Redentore sta per compiersi, e che quindi non deve avere timore, e anzi rallegrarsi, ringraziare con la preghiera, perché allora anche la sua salvezza diventa possibile.

 

 Moroni 1521-1580, Il ritratto del suo tempo, a cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino, Gallerie d’Italia – Piazza della Scala, Milano

6 dicembre 2023 – 1 aprile 2024

 

Catalogo, Edizioni Gallerie d’Italia | Skira, 24 × 28 cm, 344 pagine, 200 colori, € 38,00

 

 

Didascalie

1 – Giovanni Battista Moroni - Il cavaliere in nero, Museo Poldi Pezzoli, Milano 2 - Giovan Battista Moroni, Il sarto, 1572-75, National Gallery, Londra

2. Tiziano, ritratto del Cardinale Filippo Archinto 1558

3 - Giovan Battista Moroni, Ritratto di Isotta Brembati, 1555-57, Collezione Lucretia Moroni in concessione al FAI

4 – Allestimento mostra Giovan Battista Moroni, sala con ritratti, © Ph. Roberto Serra Giovan Battista Moroni, Il

5 - Moroni - Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (il cavaliere in rosa) 1560, Collezione Lucretia Moroni in concessione al FAI

6- Allestimento mostra Giovan Battista Moroni, Sala con Ritratto di uomo con e figli e Ritratto di giovane donna- © Ph. Roberto Serra

7 - Giovan Battista Moroni- Devoto in contemplazione

8 – Giovan Battista Moroni, Cristo portacroce, Chiesa della Madonna del Pianto, Albino

9 - Giovan Battista Moroni, Crocefisso adorato dai santi Bernardino e Antonio da Padova. Albino, Parrocchiale di San Giuliano 


 


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