A volte sospetto che mia moglie non abbia poi tutti i
torti quando sostiene che i miei amici sono tutti inaffidabili. Intellettuali,
scrittori, artisti, gente così. Non sono tanti, ma rientrano quasi tutti in
questa misteriosa e eterogenea categoria, il cui minimo comun denominatore è
uno solo: appunto che di loro non ci si può mai fidare. Non rispettano gli
orari, dimenticano le cose, sono trasandati, difettano di ogni intelligenza
pratica e quando agiscono combinano solo disastri: insomma, non garantiscono il
livello minimo di sicurezza richiesto dalle norme non dico della CEE (che
quelli sono aguzzini nazisti), ma anche solo di uno stato approssimativo, dai
contorni incerti e ancora in via di definizione, come l’Honduras, Zanzibar, il
banato di Laputa.
Niente di grave, per carità, se non che ultimamente
questo rischia di pregiudicare frequenza e libertà dei miei spostamenti. E’ che
si preoccupa, ci tiene a me e alla mia incolumità. Non vuole perdermi. Mi ama.
Quando ero più giovane, e di conseguenza quando era
più giovane anche lei, non sollevava obiezioni se, ogni tanto, prendevo e mi
facevo un viaggetto da solo. Per esempio quando, dopo aver fatto il commissario
interno agli esami di maturità, mi veniva in odio più del solito il mondo
intero e avevo bisogno di stare da solo e in assoluto silenzio in mezzo a gente
che mi ignorava e che io potevo guardare con lo sguardo tra il distaccato e lo
schifato di un arconte, o di qualche altro essere appena al disopra, o al
disotto, del genere umano. Di preferenza in un posto di cui ignoravo o potevo
fingere di ignorare la lingua (con le lingue straniere si può: basta non prestare
attenzione; mentre con la nostra devi proprio tapparti le orecchie, e, per
sicurezza, non guardare neppure in faccia). E sì che allora non c’erano nemmeno
i telefonini e talvolta era un problema persino chiamare casa, anche solo per
dire sono arrivato, sto bene, ho trovato un buon albergo (non prenotavo mai,
non sapendo in anticipo dove mi sarei fermato) e altre notizie essenziali,
giusto per far sentire la voce, il tempo di identificarla, perché il semplice
respiro, al telefono, non è riconoscibile (appunto per questo risulta
inquietante). Oltre non si andava; come oggi del resto. Le bastava che mi
facessi sentire ogni tanto: non per tranquillizzarsi, perché non era
preoccupata, ma per coronare la sua tranquillità con il mio affetto. Con
l’affetto elementare, ma fondamentale, che anche una pura chiamata, un saluto,
sprigiona.
Ma con il passare degli anni, ogni volta che
programmavo un viaggio la sua sicurezza è diminuita, e viceversa è cresciuta in
proporzione inversa la tabella con direttive e corollari e opzioni varie, che
ora contempla, tanto per fare un esempio, l’assenza di una notte, massimo due,
e per non più di due volte al mese, per gli spostamenti e impegni veloci o di scarso peso (una mostra, una presentazione, un convegno: meglio se con un telefono
o un indirizzo di riferimento o addirittura una persona di fiducia in loco), e
alto gradimento della presenza di uno o più accompagnatori per gli sporadici
viaggi più lunghetti, ma che non devono mai superare i 3-4 pernottamenti
tuttavia (il che ne ha limitato drasticamente il chilometraggio potenziale). Di
più senza di me non riesce a stare. E’ bello essere indispensabili in
quest’epoca di assoluta impermanenza.
Fino a pochi anni fa anche l’identità
dell’accompagnatore era secondaria. Praticamente andava bene chiunque fosse in
qualche modo autonomo e non analfabeta: quindi anche il mio più caro amico e
compagno abituale, che pure qualche dubbio sull’autonomia lo autorizzava
(parecchi, anzi); le bastava ritenere ancora perfettamente sano e autonomo
me (salvo in caso di incidenti, fratture e impedimenti motori e di qualsiasi
altra natura, persino legale, tipo custodia cautelare o sequestro ecc., che
allora avrebbero richiesto una persona di sicuro affidamento, esattamente come
oggi: ma chissà perché questi pericoli allora le sembravano meno incombenti;
forse è colpa della televisione). Stavo per scrivere sano e lucido, invece di autonomo, ma sotto
questo aspetto, cioè sulla mia
affidabilità, presenza di spirito, precisione, concretezza, accuratezza ecc.
(su tutto cioè, a parte la puntualità e la disponibilità, quest’ultima peraltro
anche eccessiva…), dubbi non poteva non nutrirne, date le mie sbadataggini,
dimenticanze, goffaggini e omissioni occasionali sì, ma non rarissime, che però
potevano essere ovviate quasi sempre dalla sua presenza e capacità manageriale,
che mi assicurava un veloce rimedio, sia pure con il bonus di un inevitabile
predicozzo che, data l’educazione sorbita da religiosi di varia caratura e
rigore, ero però allenato a sorbire e subito dimenticare (inconscio a parte).
Con il tempo però l’identità e il conseguente gradiente di affidabilità sono
diventati fattori decisivi per la serena accettazione persino di un viaggio un
po’ fuori dai parametri e addirittura senza l’inderogabile preavviso di mesi o
almeno settimane.
Ora la mia cara consorte esige che vada in giro con
gente giovane; sono ammesse anche le femmine, ma solo per spostamenti
giornalieri senza pernottamento, se di specchiata moralità o con fidanzato a
carico; o anche con pernottamento, uno solo – massimo un paio, se sono in due,
con gli impliciti assunti a) che io sono innocuo; b) che sono troppo giovani
per me o scarsamente attraenti; c) che dormono nella stessa stanza loro due
(analisi che non fa una piega, peraltro); ma ancora meglio se il compagno è
giovane, cioè dai 30 ai 50, e maschio, con implicita assenza di sospetti: a) su
mie eventuali tendenze o occasionali tentazioni gay; b) che in due potremmo
fare bisboccia ancor più allegramente. Il massimo apprezzamento si riscontra
quando mi aggrego a una coppia (eventuali birichinate a tre rientrano
nell’impensabile puro: anche per me). A escludere i gruppi, invece, ci penso
io: la mia tolleranza arriva a due, anche perché poi fanno comunella e io posso
starmene per conto mio ogniqualvolta ne sento il bisogno (cioè spesso: con
tutto che sono un compagnone…).
Ma mica sempre è facile trovare accompagnatori con
questi requisiti. Anzi, mica sempre è facile trovarne, per gli spostamenti e i
viaggi che intendo fare io, con uno straccio di requisito qualsiasi. Tanto che,
a petto di queste asperità, talvolta, kafkianamente, rinuncio. Sempre che non
sia indispensabile.
Fortuna che spesso a chiedermi di fare un viaggetto
con loro sono proprio gli amici, e non viceversa! Nel qual caso, se ci sono
ostacoli, non è difficile aggirarli con raffinate mediazioni e strategie che
sarei sciocco a divulgare. Magari qualcuna a pagamento.
Ho di questi amici che gli piace andare a spasso con
me. Che trovano stimolante la mia conversazione quasi quanto io trovo
stimolante la loro (intellettualmente, sia chiaro), o perché li faccio ridere;
quanto volontariamente non saprei… Che mi attribuiscono competenze che non mi
sono mai sognato di vantare, né di avere se è per questo; mentre loro ne hanno
eccome, spesso in campi diversi dal mio, ammesso che io ne abbia uno, nel qual
caso gradirei esserne informato. Brava gente che, mentre io li vedo con occhio
spietato (e proprio per questo li ammiro pure), un po’ mi idealizza, con molta
generosità. Sfido io! Se no che amici sarebbero? Il guaio è che, coltivando
interessi analoghi ai miei, che erano già obsoleti quando ho cominciato a
coltivarli (e io pensavo il contrario!), hanno un’età molto vicina alla mia, e
anzi, più spesso maggiore (quando hanno cominciato a coltivarli loro non erano
ancora obsoleti infatti, e forse è per questa ragione che loro sono bravi e
noti e professionali, mentre io, disilluso quando già ero contaminato a morte,
no), e perciò spesso con le mie stesse propensioni alle dimenticanze e inadeguatezze
ecc., ma, essendo loro professionisti, con un grado ancora maggiore di
inaffidabilità rispetto del mio. Non so se mi spiego.
Ieri mi telefona uno di costoro. Uno che, agli occhi
della mio collegio arbitrale domestico, staziona in permanenza sul podio della
suddetta categoria, e che perdipiù, tra tutti i miei amici, è il meno
rispondente al requisito dell’età. Bene, proprio costui, uno scultore, mi
chiama per dirmi che il giorno dopo va a Roma per preparare una mostra, che ha
un piccolo appartamento in centro a sua completa disposizione (leggi: niente
spese d’albergo) e che poi va a vedere una grande mostra di Tiziano alle
Scuderie del Quirinale. Ora, a me piace andare alle mostre da solo, ma se
proprio ne devo vedere una in compagnia, questo amico staziona sul podio anche
della mia, di classifica. (Magari il motivo lo spiego un’altra volta, perché
qui la tiritera sta già diventando troppo lunga di suo: infatti sto scrivendo
solo ora, dopo quasi 4 cartelle, quella che doveva essere la seconda, massimo
terza frase di quello che doveva essere un semplice appunto: la telefonata
dell’amico con l’invito a vedere la mostra di Tiziano, intendo.)
Ne parlo con la mia amata consorte, perché in questo periodo avevamo in programma alcune cosucce da sbrigare insieme, e stranamente lei non avanza nessuna obiezione. Ma proprio nessuna. Nemmeno un timido se, un ma, tanto per non perdere l’allenamento. Anche la più banale, come la mancanza assoluta di preavviso e del tempo necessario ad abituarsi all’idea del distacco. Vai pure, che è da un po’ che non fai un giro, mi dice senza notare il mio sguardo allibito. Segue qualche piccola raccomandazione, ma ridotta all’osso, il minimo per mantenere viva la fiammella dell’apprensione di chi ama (si dice così, vero? Sì, si dice così: perché è vero) e delle relative rassicurazioni. Allora comunico al mio amico che lo accompagno, e già che ci siamo ci accordiamo anche sugli orari del ritorno e sui biglietti del treno, che ci pensa sua moglie a prenotare dato che io sono fuori casa e non ho accesso al pc. Bene, sarà fatto.
Ritorno ai miei impegni. Appena ripresi mi accorgo che
già da subito un dubbio aveva preso a gironzolarmi per la testa, a giri
bassissimi; ma, essendo concentrato su altre importanti faccende (una partita a
scopa d’assi), avevo trascurato di metterlo a fuoco. Prima ancora che riesca a
farlo, il mio amico, incurante che mi sto giocando la reputazione con i miei
sodali dell’osteria, mi comunica che è tutto a posto: treni prenotati, posti
vicini, costo inferiore al previsto. Benissimo, ma lasciami finire la partita,
cazzo!
E’ solo dopo questa terza telefonata che il dubbio si
precisa: com’è che io non ho mai sentito parlare di una mostra di Tiziano così
importante? Possibile che nessun giornale o notiziario o pagina web ne abbia
ancora parlato? E intanto confondo un sei con un sette, e gioco la carta
sbagliata. Appena tocca il piano del tavolo mi accorgo dell'errore e ho un lievissimo moto involontario di
contrazione facciale. Il mio socio, che non perde una sfumatura e soffre semmai
di iperintepretazione, mi guarda basito. Dentro di sé, si chiede senza dubbio
se tener conto della giocata o piuttosto della velocissima contrazione che non
gli è sfuggita. E poiché è uno serio, ma non minchione, gioca come se mi fossi
sbagliato cercando di rimediare al mio probabile errore. Ma il danno è fatto.
Dovrò scusarmi. E senza fare riferimenti ai suoi molteplici errori del passato
immediato e lontano. Tanto sarebbe inutile: lui errori non ne fa. Non sono
eventi che passano sotto silenzio quelli! (La mostra, e anche gli errori.) Ma
non mi preoccupo troppo, perché in questo periodo sono ben altri gli argomenti
di cui tutti parlano in ogni luogo e modo, ed è appunto per questo che io ho
seguito la cronaca ancor meno del solito: quindi la mostra potrebbe benissimo
essermi sfuggita (come la carta).
Una volta tornato a casa però, una ricerchina la
faccio, e il mio timore trova conferma: non c’è nessuna mostra di Tiziano. Non
ancora perlomeno. Apre tra dieci giorni, infatti. E’ la seconda volta oggi,
dopo la conferma dei miei timori pre-elettorali sui quali però mi rifiuto di
dire una parola in più, che sarei molto più contento di avere torto! Vuol dire
che vedrò qualcos’altro.
Comunque a mia moglie non glielo dico. Va bene darle
ragione tra me e me (cioè qui: per dire…), ma non apertamente, non al
punto, cioè, da sputtanare i miei amici. E’ una reticenza che evita discussioni
inutili, anche se innocue, e non offre argomenti a recriminazioni future,
altrettanto inutili e innocue. La vita di coppia è fatta anche di queste
misericordie. Anche lei omette. Per amore ovviamente. E l’amore, si sa, è
ingiusto: lei, piuttosto che spiattellarmi in faccia la mia sostanziale
inaffidabilità, rovescia sugli altri anche la quota di mia pertinenza (ne tiene
qualche spicciolo di riserva anche lei però, per la legge del non si sa mai),
sui miei amici soprattutto, i quali, se hanno una colpa, è proprio quella di
considerarmi amico loro. Loro sanno che su di me non possono contare a occhi
chiusi (diversamente da mia moglie che sa di poterlo fare sempre), che sono più
le volte che mi tiro indietro di quelle che rispondo presente; eppure continuano
a chiamarmi, a chiedermi se li accompagno, se ci vediamo, se mi va di fare
questo per loro o assieme a loro, o addirittura se possono fare qualcosa per
me: continuano a tenermi le porte aperte, o socchiuse, e io, appena vedo uno
spiraglio, mi ci intrufolo e: eccomi qui!, dico. Proprio non ce la fate senza
di me, eh? Sfruttatori!
didascalie
1 – Amici inaffidabili (Museo degli scrittori a
Dublino)
2 – Federica e Michele alla biblioteca nazionale di
Dublino
3 – Specimen di amico inaffidabile (Federico D.L.)
4 – Cosa mi aspettava a Roma (avevamo dimenticato
che era il giorno dell’ultimo saluto del Papa)
5 – Antonio e ‘l Brüsa al bar
6 – Barocci, Visitazione – nella magnifica Chiesa
Nuova
7 – Meravigliosa pancetta egizia (musei vaticani)
8 – Autoritratto con Busto di Olimpia Maidalchini
Pamphilj, di Alessandro Algardi (devo la precisazione del mio momentaneo vuoto
di memoria, che avrei colmato di persona a tempo debito, a Federico De
Leonardis, scultore e architetto, che a quei tempi sarebbe stato infilzato o
avvelenato ancora giovane. Oggi trova persino chi gli vuole bene: io per esempio.
No comment please). Galleria Doria Pamphilj
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