27/10/15

Junichiro Tanizaki, La croce buddista



Una delle costanti della tradizione narrativa giapponese, dicono gli studiosi, è la debolezza nella costruzione: abbondano le digressioni scoordinate, seppure dotate di un’autonoma bellezza, e anche l’attenzione ai più minuscoli particolari, che conferisce alla narrazione un tono di realismo e di concretezza, non riesce a inquadrarsi in una struttura coerente, finendo anzi per contrastare con il quadro generale che resta vacillante e nebuloso. E’ una debolezza solo secondo la nostra prospettiva, tuttavia, se per molti secoli nessun giapponese se ne è fatto un problema, e quindi doveva emergere solo dopo l’impatto con la cultura occidentale.
Eppure quando verso la metà dell’Ottocento si è verificata l’invasione di questa cultura, caotica e spesso di terz’ordine, sono state soprattutto le suggestioni di natura etica, sociale e contenutistica a imporsi, cosa insieme strana e comprensibilissima in un Paese tanto tradizionalmente attento alla forma da esserne a volte soffocato. 
E’ solo mezzo secolo dopo che i problemi di struttura e di intreccio vengono in primo piano, Con Junichiro Tanizaki (1886-1965), considerato il maggior prosatore giapponese moderno, che non a caso sulla cultura occidentale si formò, per non rinunciarvi neppure quando nella maturità operò un suo personale recupero della tradizione.
Della sua vasta produzione buona parte è già nota anche in Italia (per esempio Due amori crudeli, La gatta, La chiave, Il diario di un vecchio pazzo), ma forse nessun libro illustra con maggiore precisione, nel bene e nel male, le difficoltà connesse a questo aspetto del suo lavoro come La croce buddista, che ora Lydia Origlia ha egregiamente tradotto per Guanda.


Sebbene anche questo romanzo, pubblicato a puntate su una rivista tra il 1928 e il 1930, presenti infatti in diversa angolazione e con ulteriori apporti molti dei motivi che pervadono tutta l’opera di Tanizaki, sono proprio le preoccupazioni di intreccio e simmetria a spiccare con maggior risalto, come già suggerisce il titolo stesso.
La croce gammata infatti ha meno a che fare con il contenuto che con le reciproche posizioni e relazioni dei quattro protagonisti, uniti a due a due in legami “normali” (matrimonio e fidanzamento) ma intrecciati e tendenti l’uno verso l’altro come i bracci della croce, in un moto rotatorio che porta ciascuno a ricoprire successivamente le posizioni di tutti gli altri fino all’esaurimento delle varie combinazioni.
Sonoko la giovane donna che narra in prima persona e con la finta andatura del parlato, con i suoi inceppi e recuperi e delucidazioni a posteriori, i dettagli della sua storia ormai resa pubblica dai giornali a un maestro identificabile con il romanziere , è sposata con Kotaro e ha una relazione lesbica con la bellissima Mitsuko, a sua volta fidanzata con Watanuki, che però è impotente; tutti vogliono, prima o poi, Mitsuko, che tuttavia è sempre la prima a muovere verso di loro e non ne può fare a meno mentre sembra dominarli; ognuno inganna e è ingannato dall’altro, se ne serve e cade nella trappola che l’altro gli tende; chi cerca poi abbandona e chi respinge implora; l’uomo concreto scopre l’ideale, quello che sventola sublimità cela nefandezze; il destino appare come facile scusa e tutti vengono trascinati da un destino diventato puro meccanismo senza causalità; ogni motivazione ricopre una verità che diventa a sua volta infingimento quando si manifesta, in un susseguirsi vertiginoso di colpi di scena, marce indietro e rivelazioni fasulle, tanto che non si può nemmeno stabilire se il suicidio finale di Sonoko, di suo marito e di Mitsuko è un nuovo fallimento o se la sopravvivenza di Sonoko è frutto di una definitiva macchinazione, ancor meno decifrabile di tutte le altre che costellano il libro. Come spesso avviene in Tanizaki, nel quale raramente il gioco delle finzioni e delle maschere non finisce per distruggere la possibilità spessa di una verità originaria o verificabile.
Ma ognuno di questi movimenti è insieme necessario (simmetria oblige) e immotivato, più o meno profondamente a seconda dei casi, e così il racconto, al di là del susseguirsi ossessivo di interpretazioni che cambiano faccia ad ogni evento, rigurgita di ex machina (dei o avvenimenti)
fintamente presentati come dati di fatto.
Si assiste insomma a una specie di gioco al massacro da cui tutti i protagonisti escono variamente distrutti, mentre chi nel gioco serviva  soltanto la cameriera che narra lo scandalo ai giornali) diventa uno dei motori esterni della distruzione, e chi è semplice spettatore (il maestro) è in realtà colui che tiene tutti i fili (narrativi) proprio mentre sembra limitarsi a trascrivere e basta, con la sola aggiunta di qualche delucidazioni puramente “oggettiva”. Come detto, gli eventi scorrono spesso senza nessun principio di causalità; nessun destino, prendesse pure la forma del caso, riesce a reggerli né li domina, se non sotto la forma di esigenze a volte automatiche di struttura e di simmetria che nelle mani del maestro sono, e in certi casi restano.
Eppure, nonostante questo, il libro conserva spesso una sua notevole forza. Non solo per la bellezza delle figure femminili assolutamente concentrate nella loro passione, o per l’estrema sottigliezza delle analisi che finisce per proiettare sulla narrazione realistica le cadenze del labirintico rigore della follia, o per la descrizione stratificata e approfondita, insieme lucidissima e casta, delle perversioni e delle morbosità: sono tutte caratteristiche costanti dello stile di Tanizaki, tanto più preciso quanto più complesso e indecidibile il suo mondo.
Forse avviene che l’indecidibilità del suo mondo diventa quella dei suoi libri. Perché alla fine si profila sempre un nuovo dubbio: e se anche la meccanicità fosse voluta? se La croce buddista non fosse anche una rivisitazione sistematica di quella letteratura popolare della quale a volte, con certi capovolgimenti spettacolari e con certe movenze effettistiche, affetta l’andatura? se non fosse anche una risposta sistematica e geometrica di quella cronaca scandalistica di cui i protagonisti sono, fino a un certo punto, le vittime? Fino a un certo punto, naturalmente. Perché di nuovo non è sicuro che sia proprio lo scandalo a determinare la decisione del suicidio; semmai l’accompagna per un’altra maschera.
12-04-1983




Junichiro Tanizaki, La croce buddista, Guanda, Milano, 1983, p. 149, £ 9.000

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