Una
delle costanti della tradizione narrativa giapponese, dicono gli studiosi, è la
debolezza nella costruzione: abbondano le digressioni scoordinate, seppure
dotate di un’autonoma bellezza, e anche l’attenzione ai più minuscoli particolari,
che conferisce alla narrazione un tono di realismo e di concretezza, non riesce
a inquadrarsi in una struttura coerente, finendo anzi per contrastare con il
quadro generale che resta vacillante e nebuloso.
E’ una debolezza solo secondo
la nostra prospettiva, tuttavia, se per molti secoli nessun giapponese se ne è
fatto un problema, e quindi doveva emergere solo dopo l’impatto con la cultura
occidentale.
Eppure
quando verso la metà dell’Ottocento si è verificata l’invasione di questa
cultura, caotica e spesso di terz’ordine, sono state soprattutto le suggestioni
di natura etica, sociale e contenutistica a imporsi, cosa insieme strana e
comprensibilissima in un Paese tanto tradizionalmente attento alla forma da
esserne a volte soffocato.
E’ solo
mezzo secolo dopo che i problemi di struttura e di intreccio vengono in primo
piano, Con Junichiro Tanizaki (1886-1965), considerato il maggior prosatore
giapponese moderno, che non a caso sulla cultura occidentale si formò, per non
rinunciarvi neppure quando nella maturità operò un suo personale recupero della
tradizione.
Della sua
vasta produzione buona parte è già nota anche in Italia (per esempio Due amori crudeli, La gatta, La chiave, Il
diario di un vecchio pazzo), ma forse nessun libro illustra con maggiore
precisione, nel bene e nel male, le difficoltà connesse a questo aspetto del
suo lavoro come La croce buddista,
che ora Lydia Origlia ha egregiamente tradotto per Guanda.
Sebbene
anche questo romanzo, pubblicato a puntate su una rivista tra il 1928 e il 1930,
presenti infatti in diversa angolazione e con ulteriori apporti molti dei
motivi che pervadono tutta l’opera di Tanizaki, sono proprio le preoccupazioni
di intreccio e simmetria a spiccare con maggior risalto, come già suggerisce il
titolo stesso.
La croce
gammata infatti ha meno a che fare con il contenuto che con le reciproche
posizioni e relazioni dei quattro protagonisti, uniti a due a due in legami
“normali” (matrimonio e fidanzamento) ma intrecciati e tendenti l’uno verso
l’altro come i bracci della croce, in un moto rotatorio che porta ciascuno a
ricoprire successivamente le posizioni di tutti gli altri fino all’esaurimento
delle varie combinazioni.
Sonoko
–
la giovane donna che narra in prima persona e con la finta andatura del
parlato, con i suoi inceppi e recuperi e delucidazioni a posteriori, i dettagli
della sua storia ormai resa pubblica dai giornali a un maestro identificabile
con il romanziere
–, è sposata con Kotaro e ha una relazione lesbica con la
bellissima Mitsuko, a sua volta fidanzata con Watanuki, che però è impotente;
tutti vogliono, prima o poi, Mitsuko, che tuttavia è sempre la prima a muovere
verso di loro e non ne può fare a meno mentre sembra dominarli; ognuno inganna
e è ingannato dall’altro, se ne serve e cade nella trappola che l’altro gli
tende; chi cerca poi abbandona e chi respinge implora; l’uomo concreto scopre
l’ideale, quello che sventola sublimità cela nefandezze; il destino appare come
facile scusa e tutti vengono trascinati da un destino diventato puro meccanismo
senza causalità; ogni motivazione ricopre una verità che diventa a sua volta
infingimento quando si manifesta, in un susseguirsi vertiginoso di colpi di
scena, marce indietro e rivelazioni fasulle, tanto che non si può nemmeno
stabilire se il suicidio finale di Sonoko, di suo marito e di Mitsuko è un
nuovo fallimento o se la sopravvivenza di Sonoko è frutto di una definitiva
macchinazione, ancor meno decifrabile di tutte le altre che costellano il
libro. Come spesso avviene in Tanizaki, nel quale raramente il gioco delle
finzioni e delle maschere non finisce per distruggere la possibilità spessa di
una verità originaria o verificabile.
Ma ognuno
di questi movimenti è insieme necessario (simmetria oblige) e immotivato, più o meno profondamente a seconda dei casi,
e così il racconto, al di là del susseguirsi ossessivo di interpretazioni che
cambiano faccia ad ogni evento, rigurgita di ex machina (dei o avvenimenti)
fintamente
presentati come dati di fatto.
Si
assiste insomma a una specie di gioco al massacro da cui tutti i protagonisti
escono variamente distrutti, mentre chi nel gioco serviva soltanto la cameriera che narra lo scandalo
ai giornali) diventa uno dei motori esterni della distruzione, e chi è semplice
spettatore (il maestro) è in realtà colui che tiene tutti i fili (narrativi)
proprio mentre sembra limitarsi a trascrivere e basta, con la sola aggiunta di
qualche delucidazioni puramente “oggettiva”. Come detto, gli eventi scorrono
spesso senza nessun principio di causalità; nessun destino, prendesse pure la
forma del caso, riesce a reggerli né li domina, se non sotto la forma di
esigenze a volte automatiche di struttura e di simmetria che nelle mani del
maestro sono, e in certi casi restano.
Eppure,
nonostante questo, il libro conserva spesso una sua notevole forza. Non solo
per la bellezza delle figure femminili assolutamente concentrate nella loro
passione, o per l’estrema sottigliezza delle analisi che finisce per proiettare
sulla narrazione realistica le cadenze del labirintico rigore della follia, o
per la descrizione stratificata e approfondita, insieme lucidissima e casta,
delle perversioni e delle morbosità: sono tutte caratteristiche costanti dello
stile di Tanizaki, tanto più preciso quanto più complesso e indecidibile il suo
mondo.
Forse
avviene che l’indecidibilità del suo mondo diventa quella dei suoi libri.
Perché alla fine si profila sempre un nuovo dubbio: e se anche la meccanicità
fosse voluta? se La croce buddista
non fosse anche una rivisitazione sistematica di quella letteratura popolare
della quale a volte, con certi capovolgimenti spettacolari e con certe movenze
effettistiche, affetta l’andatura? se non fosse anche una risposta sistematica
e geometrica di quella cronaca scandalistica di cui i protagonisti sono, fino a
un certo punto, le vittime? Fino a un certo punto, naturalmente. Perché di
nuovo non è sicuro che sia proprio lo scandalo a determinare la decisione del
suicidio; semmai l’accompagna per un’altra maschera.
12-04-1983
Junichiro
Tanizaki, La croce buddista, Guanda,
Milano, 1983, p. 149, £ 9.000
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