C'è
un sacco di cose che mi importano ma di cui non scrivo mai. Perché? Forse
perché mi importano, e anche molto, a livello razionale (sociale, etico ecc.),
ma non mi coinvolgono a quello in cui si trova tutto ciò che mi importa tanto
da doverne scrivere.
Questo
significa che buona parte di ciò che è razionale non merita di essere scritto
(da me almeno)? E che ciò che scrivo non è (in buona parte) razionale? E infine
che solo ciò che merita è così forte che ne devo scrivere? O viceversa che è
solo la compulsione a scrivere (e la conseguente decisione, che tale non è) a
decidere del merito? Questo mi dovrebbe dire qualcosa sulla mia vita? È la mia vita che è fatta così?
Non
credo: nella mia vita sono piuttosto razionale, a volte fin troppo; o lo sono
stato, perché negli ultimi anni mi sembra di esserlo meno, e non mi dispiace
affatto. Rimpiango di esserlo stato prima? Neanche per sogno. Il rimpianto è
ridicolo (vedi come sono razionale?). E poi credo che si debba essere
razionali, tra esseri umani: cioè giusti. E a partire da lì, andare oltre, ma
nella stessa direzione: cioè buoni. Non fare del male, e fare del bene.
Ma
significa anche che scrivere, per me, è dover scrivere, non: voler scrivere. Se
non devo, non scrivo. La fonte di questo dovere può essere anche esterna e
occasionale, ma se non c'è, non comincio nemmeno. Ci sono gli scrittori
professionisti, per quello. Io non decido. Rispondo. Obbedisco. E se il comando
è debole, tergiverso, fingo di non sentire. Lo metto alla prova, in un certo
senso. Lo sfido. Cosa hai detto? Non capisco. Quel cane allora, a volte, finge
anche lui di non esserci stato. Di essere stato altro. Un suggerimento magari.
O un cortese invito. Me ne frego della cortesia io! (Solo in questi casi, sia
chiaro.) In rare occasioni mi lascio prendere dalla compassione e cedo, ma poi
mi disprezzo. Mai più, mi dico. Se ci ricasco, devo avere delle scuse davvero
buone (sempre la gentilezza...). Però di solito, quasi sempre, aspetto. Voglio
un ordine. Ordino che l'ordine sia una
supplica. Una supplica imperativa! Sembra un ossimoro. Eppure ogni supplica lo
è (e viceversa: ci si può sempre rifiutare, e in mille modi). E non c'è nemmeno
bisogno che sia espressa in quanto tale. Basta la presenza. L'affacciarsi.
Basta quello a strapparmi le viscere. È
doloroso, spesso. Almeno all'inizio. Poi, uno è più leggero. Le viscere pesano.
Profumato, quasi (le viscere puzzano).
Ma
potrebbe anche voler dire che in realtà scrivo solo ciò che posso, e per pietà
(stavolta di me stesso) trasformo questo posso in un devo. Tanto chi se ne
accorge? Ammesso che qualcuno legga ciò che scrivo. E che legga con attenzione,
per soprammercato. Magari qualcuno c'è. Io leggo così, di solito. Con la stessa
attenzione che, teoricamente, pretendo per ciò che scrivo io. Leggo come se a
scrivere fossi io. Però ricavando soddisfazione (e un po' di sana invidia) solo
quando posso ammettere spassionatamente che io, di scrivere così (o quello),
non sarei capace. Praticamente quasi tutto. Allora l'invidia diventa
ammirazione.
E
dire che mi credo uno disincantato! E lo sono, via. Ma non quando leggo. Quando
leggo sono schizofrenico: disincantato spesso, e altrettanto spesso,
contemporaneamente, con stampata in faccia la meraviglia. Per fortuna non mi
vedo! A volte, molto raramente, mi meraviglio nel leggere ciò che ho scritto
io. Fosse così sempre! Un io che non sono più, però. Anche solo un io del
giorno prima. Ma guarda, mi dico, non male quel
Luigi Grazioli!
Questo
che ho appena scritto, però, ora non lo leggo. Temo che questo Luigi Grazioli resti troppo deluso. Per oggi mi basta di
aver obbedito. Oggi preferisco essere felice.
(pezzo piuttosto vecchio, mai usato, mi pare)
bellissimo, bloggo anch'io! grazie, Luigi
RispondiEliminaGrazie a te, Chiara, della costante e benevola attenzione. Un abbraccio!
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