Dal momento che siamo in regime di democrazia,
formale beninteso, e che vige il diritto alla parola e alla replica, sarebbe
ingiusto negarla ai personaggi dei romanzi. Solo che in genere questi lavativi
inveterati ne approfittano per lamentarsi del trattamento a loro giudizio
vessatorio che gli autori olimpicamente infliggerebbero loro. Non è il caso di
preoccuparsene: vezzeggiati come sono sempre stati, non fa meraviglia che in
luogo di affrontare i veri problemi non producano altro che piagnistei. Quanto
sarebbe meglio che tacessero allora e si dedicassero esclusivamente al loro
mestiere, preferibilmente in modo meno pietoso di quanto non sono abituati a
fare, da primedonne viziate. Perché se di qualcosa gli autori possono essere
accusati senza timore di smentita nei confronti dei loro personaggi non è certo
di crudeltà, bensì di eccessiva indulgenza. Che ciascuno di loro meriti tutto
ciò che patisce è il meno che si possa dire.
Al
termine della lettura di Madame Bovary,
per esempio, c'è qualcuno che non pensi che il veleno riversato da Flaubert su
ogni personaggio (ad eccezione della figura in tutti i sensi paterna del dott.
Larivière: ma si sa, il padre va onorato, quando non si è in grado di
sbarazzarsene) non sia del tutto giustificato? Che nemmeno il suicidio arrivi a
redimere Emma, e che anzi vada considerato, perché conseguenza e approdo
necessario della sua condotta, come la più definitiva e meritata delle
condanne? Quell’oca giuliva! E che dire di Charles, babbeo archetipico oltre
che compagno comatogeno, e per questo giustamente cornuto? Che stiano zitti
allora, se vogliono conservare quel residuo di dignità che a nessun morto è
lecito rifutare.
Eppure,
se a Emma Flaubert ha dato abbondantemente occasione di spiegarsi, forse
Charles qualche cosa da dire l’avrebbe. Possibile che non si sia mai accorto di
niente? che abbia continuato a vivere e a lavorare come un asino alla sbarra
senza riflettere nemmeno un istante sui comportamenti e i discorsi della moglie
che pure stava in cima ad ogni suo pensiero? possibile che un uomo che in fondo
il suo mestiere lo sapeva fare e lo faceva con dedizione, al di fuori di esso
non fosse capace di nessuna riflessione autonoma né di sentimenti che non
fossero totalmente aspirati e accecati dall’amore per la moglie? e,
soprattutto, possibile che un uomo capace di un tale amore fosse una assoluta
nullità in tutto il resto? Come spiegare che Flaubert non si sia accorto di
queste incongruenze e se ne sia sbarazzato in fretta, e facilmente, scaricando
la colpa sulla fatalità, che tanto ha le spalle larghe e il pregio di non
lamentarsi mai? La fatalità è fatalista, lo sanno tutti.
In
questo caso non c’è da stupirsi che qualcuno si sia fatto carico di queste
domande e abbia dato una voce ai pensieri e all’umanità che il suo creatore
aveva invece rifiutato al poveruomo. "Nessun babbeo è solo babbeo, pietrificato nel suo ruolo e non riscattabile dalla
sua dabbenaggine", dice infatti J. Améry, nel libro da lui dedicato
appunto a Charles Bovary medico di
campagna, ed è stato un errore da parte di Flaubert l’aver trascurato
questa semplice verità, un errore in primo luogo di realismo, vale a dire
proprio in ciò di cui giustamente è considerato maestro.
Flaubert, sostiene Améry, è stato cieco sulla
realtà di Charles Bovary perché accecato dal suo odio per la borghesia, grande
media piccola e piccolissima, alla quale non sopportava di appartenere senza
averne compreso la natura. Della borghesia vedeva solo la meschinità e la
stupidità, che estendeva poi a tutti gli aspetti della sua vita con un’acrimonia
maniacale che non può non destare sospetti. Niente si salva ai suoi occhi:
Homais, che con tutti i suoi difetti era pure un "uomo intelligente"e
un buon citoyen, viene ridotto a
squallida caricatura e le "verità palesi e irrefutabili" di molti
suoi discorsi trasformate in "grottesco chiacchericcio"; e mentre
"lo stesso Charles che ci presenta Flaubert possianmo immaginarcelo
felice", come il Sisifo di Camus, viene invece rappresentato solo come
"lo vive la moglie, un uomo goffo e tapino; e quel tanto di compassione
che l’autore qua e là generosamente gli concede è un’elemosina".
"L’eremita
di Croisset", specie quando si tratta dei borghesi, "non fa alcuno
sforzo per vedere gli esseri umani nella loro unicità e al contempo nella loro
dimensione sociale. (...) Commozione forse. Conoscenza: zéro." Solo per Emma "si infiamma il genio dell’uomo senza
realtà, del poeta in fuga", mentre non gli interessa affatto "occuparsi
criticamente del borghese", prigioniero della sua bassa misura e col
dovere come unico punto di riferimento. Invece, afferma l'autore di Intellettuale a Auschwitz, "il
soggetto borghese (...) possiede (perché le ha conquistate) anche la libertà e
la dignità, non solo quelle dell’ascesa sociale (...), ma anche quelle della
passione (... e) una soggettività che (Flaubert) ha arbitrariamente attribuito
solo a Emma; Emma che era lui stesso".
"Trattato come quantité négligeable" da Flaubert, nel libro di Améry Charles
Bovary "diviene cosciente di se stesso in quanto vittima e reggitore della
fatalité, in quanto uomo dell'abisso".
Nei suoi monologhi si chiede perché non ha mai "ampliato il campo del
possibile [cfr. Pindaro, III Pitica – NotaLG],
mai cercato con orgoglio borghese le sommità e gli abissi"; immagina di
vendicarsi di Léon e Rodolphe, accusa il proprio autore di avergli negato i
suoi "legittimi diritti di uomo e di borghese trasformandolo in uno
schiavo privo di volontà (...e) di aver infranto il patto che prima di
accingersi a narrare la (sua) storia aveva stretto con la realtà";
rivendica la forza del proprio amore per Emma e la gioia che ne ha ricevuto.
"Non si sa nulla dei diritti dell’uomo in fatto di indefinito e di estremo",
afferma, e lui non intende privarsene.
Difficile non condividere quanto il libro
sostiene in modo tanto appassionato e non rallegrarsi della riabilitazione
postuma di Charles e della giustizia resa anche ai pregi di quello che Améry
chiama il "soggetto borghese" e che sarebbe opportuno estendere a
tutti gli "uomini comuni." È vero, da questo punto di vista "Madame Bovary non è un romanzo morale",
e quella del suo autore è "l’inutile fatica della mancanza d’amore",
che si può forse tentare di spiegare, come ha fatto per esempio Marthe Robert
nella prospettiva psicanalitica nel suo En
haine du roman (Le livre de poche, 1984), ma non certo giustificare.
Eppure, riconosciuto questo, accettati i diritti della realtà e della storia, sarebbe
stolto negare quelli della finzione, quella di Flaubert non meno di quella di
Améry, e resistere alla sua logica e più ancora alle sue tentazioni. Allora
tutto torna a quadrare, passione e dabbenaggine, realismo e irrealismo,
crudeltà e pietà, e ciò che ogni autore ha deciso per ogni suo personaggio
torna a essere giusto che egli lo assolva sino in fondo. Senza recriminazioni.
III
Appunti su Flaubert - Améry
I
Flaubert disprezza la
normalità, la mediocritas. Non conosce indulgenza, e in questo è mediocre come
coloro che disprezza. Come era spietato con se stesso (con che
doveva essere perfetta), così lo era coi suoi personaggi: non ce n'è uno che si
salvi infatti, eccetto la figura in tutti i sensi paterna del dott. Larivière
ecc. Qualche fugace accenno di simpatia per alcuni popolani non cambia le cose,
semmai le conferma: contano così poco che gli si può anche gettare l'elemosina
di un po' di benevolenza.
II
Charles ama Emma almeno quanto
Emma ama (sogna) l'amore. La differenza non è di intensità, ma di direzione,
mentre è uguale la loro cecità quanto ai presupposti e alle implicazioni reali
del loro amore. Quello di Charles appare meno, sia perché Flaubert vi si
dilunga e applica meno, sia perché, essendo un amore coniugale e borghese,
viene giudicato a priori più prosaico, quasi insignificante, al limite del
non-amore, perché non apertamente passionale. Ma questo è un pregiudizio dei
tempi di Flaubert (e di Flaubert stesso che pure vorrebbe distanziarsene in
toto) e non solo dei suoi, anche dei nostri. Lo si verifica quando si parla di
casi di amore coniugale durevole e consolidato anziché avvilito dalla
convivenza: vengono descritti al pari di eventi miracolosi dei quali è
d'obbligo meravigliarsi e li si tratta nei termini del più vieto romanticismo,
come se ci fossero solo quelli, o come se solo quelli si addicessero al
"vero" amore. Eppure io conosco più Filemoni e Bauci che Werther e
compari, e me ne rallegro. Aveva ragione Flaubert quando affermava, con
l'ambiguità di un'ironia che nell'affermazione vorrebbe far intendere la
negazione per distrarre da quella denegazione che invece è, di essere M.B.;
aveva perfettamente ragione nella misura in cui lui stesso era incapace di
pensare l'amore in altri termini.
III
Mi fa piacere che Améry metta
l'accento sul fatto che Charles sia felice delle parole, per la verità non del
tutto attendibili date le circostanze (e il delirio), di Emma che riconoscono la
bontà come sua qualità fondamentale, e che ne sia orgoglioso. Non so come
Flaubert giudicasse veramente questa bontà; suppongo che adottasse anche nei
suoi confronti un atteggiamento ambivalente che propendeva verso il disprezzo,
come capita sempre quando si parla della bontà: una sottospecie della
fessaggine. Charles invece assume positivamente la bontà che gli viene
attribuita, senza curarsi, e non solo perché è "stupido", di
eventuali sottintesi o sfumature, e noi, in questo felicemente
"stupidi" al par suo, ce ne rallegriamo con lui.
IV
Nemmeno Améry, che da qualche
parte definisce Madame Bovary un
"insuperato inno alla sensualità", si sottrae al dovere della
professione d'amore per Emma, "che evase dal carcere della sua epoca e del
mondo, e che tragicamente finì sotto terra" ecc., e mi dispiace. Sono forse
io l'unico filisteo che non riesce ad amarla davvero, uguagliandomi in questo
ai benpensanti del suo tempo e di tutti i tempi? Preferisco quasi Rodolphe, che
le dà per qualche tempo il fantasma di cui è assetata e ne trae il beneficio di
una realtà che se poi si capovolge nella sua umiliazione come uomo è solo
perché non ha saputo assurmerla fino in fondo, trascinato dal brivido
dell'equilibrista sul filo epperò protetto dalla rete, che appunto in quanto
tale tuttavia non potrà mai costituire per lui il suolo, essendo fatta di buchi
(un discorso simile vale per Léon, ma con lui faccio un po' più fatica).
V
Odio per la borghesia che rende
tutti i suoi discorsi delle "banalità" idiote e le sue
"esperienze irrimediabilmente banali, anche quando sono tragiche".
(ma su queste pretese tragedie vedi appunto a Steiner...) Eppure, sostiene
Améry, "alla fine, che lui lo voglia o meno, questo romanzo della miseria
spirituale diviene un inno alla passione".
Non per me; questa passione mi
sembra altrettanto, se non più stupida della stupidità affibbiata agli altri
personaggi. Flaubert faceva bene a vergognarsi di queste sue fantasie, di
questo suo lato romantico giovanile col quale il romanzo intenderebbe fare i
conti, senza riuscirci (così come Flaubert non è riuscito a superare la
giovinezza, ed anzi l'adolescenza...). La grandezza del romanzo tuttavia risiede
in parte anche in questa contraddizione irrisolta e nella passione, questa sì
vera, che Flaubert mette nel tentare di risolverla, e non nell'uno o nell'altro
dei suoi corni. Che qualcuno disprezzi se stesso perché si sente preda di
simili ambizioni e fantasie, è il minimo che si richieda da lui. Fa solo bene.
VI
A voler essere giusti con
Flaubert gli si dovrebbero applicare le stesse misure che egli riserva ai suoi
personaggi, salvo poi non lamentarsi che vengano adottate anche con noi. Si
dovrebbe dunque mancare completamente di indulgenza e usare anche con lui e la
sua opera quell'ironia la cui "sfrenata cattiveria" trasforma
"verità palesi e irrefutabili" in un "grottesco chiacchericcio".
Ma si sarebbe veramente giusti?
Non sarebbe meglio evitare di cadere nella sua trappola e correre invece il
rischio di essere più intelligenti, e quindi anche più stupidi di lui?
So cosa vuol dire aver paura di
passare per stupidi: significa esserlo. Io ne sono un passabile esempio. Non
avere più il terrore della stupidità tuttavia non significa abbandonarsi ad
essa, quanto accettare senza rancore la parte che ci è toccata in dote al pari
di tutti gli altri. È questo "al pari di tutti gli altri" che
Flaubert invece non riesce ad accettare (forse perché pensava che implicasse
una somiglianza anche nel resto?). Il disprezzo che rovescia a camionate su
Homais non lo allontana da lui, semmai è una spia di una parziale, ma non per
questo meno profonda affinità, se non proprio identità. Perché dovremmo
disprezzare Homais, al di là di tutti i suoi difetti, in qualche caso veramente
ripugnanti, dei quali il suo creatore lo ha volontariamente corredato?
"Homais è un uomo intelligente..."
Perché chi vuole essere un "buon"
marito, un "buon" cittadino o un "buon" professionista deve
per forza essere trattato come un imbecille, e quindi irriso o
"smascherato"? Semplicemente perché non può essere un eroe? Ma lui
non vuole esserlo. È semplicemente la paura del ridicolo dello
scrittore che lo costringe (poiché di coazione si tratta) a farne un burattino
o uno stupido; è il suo idealismo di fondo, le sue (denegate) ambizioni
aristocratiche (fosse pure un'aristocrazia dello spirito)...
VII
Améry ha ragione quando
sostiene che Emma non è la vittima delle sue letture, nella misura in cui non
sceglie, perché Flaubert gliel'ha imposto, ma viene travolta dal destino del
corpo e della bellezza. Se non fosse stata bella, le sue fantasie sarebbero
rimaste tali e al massimo l'avrebbero condotta a qualche nevrosi da casalinga o
amorazzo col postino di bocca buona (i postini si accontentano...); invece Emma
è bella, cioè desiderabile, e può verificare ogni momento il desiderio che
provoca negli altri: prima in colui che diventerà suo marito e poi in persone
che, anche per ceto, sembrano venire incontro alle sue fantasie. E se queste
fantasie non ci fossero state? Sarebbero state create dal desiderio degli altri
in forme diverse. Perché tale è il destino del corpo che non è mai solo tale.
(Anche per Flaubert il corpo è sì sesso, ma anche malattia e cibo – cfr. J.P.Richard –, e nessuno di questi tre
aspetti è mai solo materiale...)
Emma si trova all'incrocio di
differenti correnti, tutte più forti di lei, che le incarna, alla lettera,
senza avere la capacità, e nemmeno la possibilità di controllarle, nemmeno in
piccola misura. Non è realistica, Emma, non per questo però, semplicemente
perché, come del resto Charles, Flaubert ne ha fatto un personaggio in tutto e
per tutto romantico, nel senso più deleterio del termine, impermeabile al
principio di realtà, ottuso alle esigenze della concretezza che anche la
persona meno dotata sente e cerca di affrontare come può. Se la grandezza di
Emma risiede in questa unilateralità, da lì originano anche i suoi limiti
(almeno nella prospettiva "realistica" di Améry, qui modificata a mio
uso e consumo).
VIII
Appunti presi prima di leggere Améry
È vero che dopo Auschwitz (ma
anche prima) il sentimento della dignità del dolore (e di conseguenza il nostro
atteggiamento di partecipazione e pietà) è cambiato: tanto più appare insensato
(e noi tanto più responsabili ci sentiamo) quanto più oggettivamente abbiamo la
possibilità di alleviarlo (e non lo facciamo). È vero
anche che l'insensatezza (e la dignità), e di conseguenza la pietà, sono
proprie di ogni esistenza, anche della più banale (tanto più, anzi), eppure
fare di Charles un eroe non sarebbe meno insensato che farlo di Emma. Emma
merita più disprezzo, da un certo punto di vista, ma anche per Charles basta la
pietà che molto sobriamente, con pochi cenni (quando parla con Rodolphe),
Flaubert "prodiga" anche a lui.
E poi, siamo talmente
vulnerabili, anche alla pietà, durante la nostra esistenza, che un atteggiamento
più distaccato e razionale almeno in letteratura diventa auspicabile. La pietà
per la storditaggine francamente sembra gettata via, quando diventa una
rivalutazione in toto, o quasi, dello stupido o dello stordito.
Per esempio, nemmeno il suicidio
salva Emma; anzi, è la conseguenza e l'approdo necessario della sua condotta,
che ne viene in tutto e per tutto confermata. A dispetto di alcuni momenti più
"umani" (?), col suicidio Emma mette la ciliegina sulla torta delle
sue fesserie: non è una redenzione, ma la definitiva condanna. Che non va però
fraintesa con un'autocondanna (sarebbe l'apertura di uno spiraglio, forse la
salvezza), ma considerata come una condanna vera e propria, e giusta, da parte
di Flaubert (e anche nostra). Emma è peggio delle oche giulive, e la
letteratura ha le sue responsabilità, in questo Flaubert aveva ragione (ma
aveva ragione anche S. Lec quando diceva che è assurdo incolpare la letteratura
di permettere ai prigionieri di evadere, – almeno
fino al momento in cui la letteratura stessa non si trasforma in una prigione
ancora peggiore da quella da cui aiuterebbe ad evadere).
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