Se un
discorso, un romanzo, un film o una qualsiasi opera di qualsiasi arte,
videogiochi inclusi, prefigurano un mondo futuro, o alternativo, o qualche loro
aspetto, come peggiori dei corrispettivi attuali o passati, non se ne parla mai
come di previsioni ragionevoli o verosimili, come quasi sempre è, bensì di distopia.
Con elogi e riprovazioni, a seconda. Come se chi disegna questi scenari,
rincarando la dose del martellamento quotidiano di notiziari e giornali, lo
facesse solo per spaventare o per qualche oscuro scopo –
tra cui primeggia quello peraltro luminosissimo di fare soldi –, di minaccia, scoraggiamento, manipolazione e, di
conseguenza, di asservimento. Ovvero, nella versione progressista, di monito
sulla direzione che stanno imboccando le cose, già piuttosto in là nel percorso
anzi, e presto irreversibile se non si prende coscienza della situazione e non si
agisce di conseguenza, presto e bene!
Mentre
invece il più della volte si tratta del solito meccanismo blandamente catartico
(la paura in territorio protetto, con l'airbag) e consolatorio, come se la
rappresentazione scongiurasse la realizzazione, e la presa di coscienza dispensasse
dall’azione.
Più la
distopia è cupa, maggiore è la soddisfazione, il sollievo.
Ciò che dovrebbe
fare davvero paura, invece, non è la distopia, ma l’utopia. Che difatti è stata
tanto negata, e smantellata, ridotta in polvere dichiarata subito sottile,
pericolosissima, da essere stata cancellata anche come semplice parola. Rimossa
dal lessico in uso. Dai vocabolari è più difficile, per ora.
Ciò che a
me fa davvero paura, invece, è la sua totale assenza. La sua sparizione da ogni
orizzonte. (La sparizione di ogni orizzonte.) Ciò che resta, oggi, è il suo
caput mortuum, il terrore come programma: il programma, facilmente
realizzabile, del terrore. Reale. E anche immaginario. E l’accettazione, sia
che si accetti di subirlo sia che si voglia reagire estirpandolo, della sua
logica e della sua topica. Né dis- né u-. Il vero luogo del presente.
Ad Reinhardt nel suo studio
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