Ci sono autori che ogni tanto leggo o
rileggo, un libro tra i preferiti o che avevo trascurato se sono morti, o
quello appena uscito, o uno degli ultimi che avevo lasciato da parte apposta
per quando ne avrei avuto voglia, se grazie al cielo sono ancora vivi. Sono
quasi tutti di quegli scrittori che tutti dicono: “ancora? ma sono sempre
uguali! cioè, al massimo cambia qualcosina, poco poco, ma poi… letti un paio
basta e avanza… tre, to’, se proprio ti sta simpatico…”. Ma a me è proprio
questo che mi piace, quel poco, quel quasi nulla che detto da loro, perché sono
loro, cambia quasi tutto. Che poi non è nemmeno il cosa, ma il come, cioè il
fatto che a dirlo, quel cosa, anzi, a dire, a parlare, sono loro.
A volte uno vuole che chi parla è come
se non ci sia, che non lo si senta; non vuole una voce che si riconosce, nessun
tono o inflessione: è raro, ma ci sono giorni che riconoscere chi parla dietro
le cose che dice, sentire la sua voce nelle cose che racconta, dà sui nervi. “E
questo cosa cazzo vuole? Taci! Lasciami sentire la storia, lascia parlare lei!”
Dico la storia, ma potrebbe essere altro, anche se di solito è una storia.
Quasi sempre sono storie. Quasi tutto lo è. Cioè, mi pare.
Altri giorni invece, di storie, anche
se quasi tutto lo è, non ne vuoi proprio sapere, e quello che vuoi è proprio e
solo una voce, con quel timbro, quelle pause, quella cadenza, un marchio
d’origine (per esempio di uno che anche se abita a Bologna da vari anni, dove
fa l’editore, parla quasi sempre di Parma, della sua gente e della sua storia,
attuale e passata – elezioni oggi, partigiani ieri – e parmigiano è il suo modo
di sentire la lingua, la lingua che è il suo modo di vivere e di sentirsi vivo,
specialmente quando un’“offesa”, cioè una serie di piccoli ictus, fanno sentire
più vicino, e con più tenerezza, il corpo che comincia a cedere, gli organi che
perdono colpi…). Roba così.
Gli autori di cui sto parlando sono
così. È come telefonare a un amico. Che puoi star senza per un bel po’, ma a
volte ti vien voglia di vederlo, o almeno sentirlo. E allora gli telefoni.
Niente videochiamate o chat: telefono. Che tu lo sai magari come sta, pensi di
saperlo: cioè, l’ultima volta stava benissimo e non si capisce perché adesso debba
stare male… mica voglio fare il menagramo… lo sai, lo so, come sta, ma insomma,
qualcosa gli sarà pure capitato… anche che gli è capitato che non gli è
capitato niente, non so se mi spiego… e allora lo chiamo, lo chiami,
quest’amico, che anche se non ha niente da dirti sei però contento che sta
bene, che non gli è capitato niente, perché di solito quando capita qualcosa,
sicuro che bene bene non è, e insomma quello che ti interessa non è tanto
questo… cioè sì, anche: è un amico… ma parlare con lui, sentire la sua voce,
quella voce che è la sua… non una registrata, la sua.
Chiami, senti che la linea è libera e
poi un rumore, il rumore del silenzio prima che qualcuno risponda, e quel
qualcuno che risponde è lui, che ti dice: “Sì?”, o qualunque altra cosa che gli
venga da dire, e tu pensi: è lui, e, prima ancora di parlare, sei contento. Tra
gli altri, a me, questo capita con Paolo Nori. Ho letto il suo ultimo libro, La banda del
formaggio, e sì, ci sono cose che prima non avevo mai letto,
interessanti oltretutto, di più: che mi hanno proprio colpito (piccole storie
di luoghi e persone, episodi: un senso forte della malattia e della morte e
insieme una vitalità, un’insofferenza che è una forma indiretta di affezione,
il calco di un attaccamento che resiste a tutto ciò che vorrebbe renderlo
insignificante: i libri, l’amicizia, il fare, le parole e il modo di usarle),
cose che hanno lasciato un segno, nel corpo, nell’occhio, ma pure il resto
c’era, sì, c’era tutto, e mentre leggevo, anche quando erano cose tristi, e ce
n’erano, mi sentivo leggero e ero contento. Triste e contento e leggero.
(Queste
righe le dedico a un amico che non posso più chiamare per sapere se sta bene.
Lo so come sta purtroppo.)
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