12/01/16

Ero poco più di un ragazzo (Ricordi di copertura.1)



Ero poco più di un ragazzo quando ho visto Nagisa Oshima accoccolarsi sui calcagni per rispondere a un critico molto preparato che gli aveva chiesto come mai usava spesso le inquadrature con la camera a fil di terreno o di sott’in su: “è che noi giapponesi siamo molto piccoli”

lo stesso giorno, fermi sotto il solleone su un marciapiede di Pesaro, ho spiegato per mezz’ora a un uomo in jeans cosa avrei fatto per migliorare un peraltro bel film-documentario sui Black Panthers, scoprendo solo prima dei saluti che lui era il regista

una decina di giorni prima, a Venezia, mi sono ritrovato seduto accanto a Paola Pitagora alla proiezione di un film di Norman Mailer, seduto poche poltroncine più in là, che continuava a guardare la giovane, bellissima Paola, che invece io fingevo di non sapere chi fosse

mentre l’anno successivo, a Cannes, davvero non sapevo che quello seduto a un paio di poltrone alla mia destra era Joseph Losey, che si sarebbe alzato alla fine della proiezione del suo film che avrebbe poi vinto il festival, The go-between con l’ancor più bella ancorché piccolina Julie Christie, mentre io ero meravigliato che tutti si fossero girati ad applaudire dalla mia parte, magari addirittura me

in quei giorni giravo per le sale con in tasca la Fenomenologia dello spirito, che ripassavo nelle pause dopo i pasti e tra un film e l’altro, e che mi sarebbe servita per almeno tre esami, uno dei quali con Enzo Paci, in licenza di quarantott’ore da soldato, dove sarei andato il mese dopo perché a suo tempo mi ero stufato di fare la fila per il rinvio negli uffici strapieni dell’università

mentre l’autunno precedente avevo superato l’esame di ammissione alla Scuola civica di Cinema di Milano, corso regia, con una sceneggiatura da Borges, una recensione di Il mucchio selvaggio e un saggio su Straub, discussi con un allibito Pietro Banchi, scuola che avrei lasciato entro pochi mesi, dopo aver litigato a più riprese con il docente di tecnica cinematografica, che ovviamente non capiva un cazzo

già da un paio d’anni dirigevo cineforum al liceo e in paesini della zona, e non mi sentivo affatto un cretino


a Cannes c’ero andato assieme a Sandro Zambetti, che mi presentava come il futuro della critica cinematografica italiana (grand’uomo, con le illusioni dei grandi uomini)
mentre invece a Pesaro avevo visto seduti fuori da un barettino Pasolini e Leonetti che discutevano amabilmente, o forse no, non ricordo, perché l’unica cosa che mi colpì, nonostante lo avessi già visto al cinema, era quanto era repellente Leonetti di persona

qualche anno prima, esattamente 50 anni fa, me ne sono reso conto solo oggi, mi sono innamorato di Bob Dylan, di cui avevo comprato il 45 giri di “Like a rolling stone” che sentivo e risentivo alla nausea nella sala ancora vuota della casa nuova, amore che dura tuttora

pochi mesi dopo ho acquistato Bringing it all back home, che però non è stato il mio primo long playng: quello è stato Aftermath, dei Rolling Stones, qualche settimana dopo aver finito la IV ginnasio, nel luglio del 1966: sono andato a comprarlo a Treviglio in bici, ero emozionatissimo

questo è successo un paio d’anni prima degli altri amori che durano tuttora (Kafka, Gombrowicz, Borges... questo un po’ intiepidito), mentre quelli che amavo allora, a 15 anni, sono spariti quasi tutti e non hanno retto alle riprese successive (per esempio Kerouac, o certi americani e italiani)

poi un giorno sarei andato a Milano a sentire Arbasino e gli avrei chiesto l’autografo, concesso con signorile perplessità, sul libro di un altro che avevo in tasca

qualche tempo prima, o appena dopo, sarebbe saltata la pubblicazione del mio primo libro per intercorso fallimento della casa editrice, Il formichiere

evento che si sarebbe ripetuto con il secondo e il terzo dei miei libri, ma per cause diverse che non è il caso di rivangare: lo dico solo perché avendo fatto leggere il secondo ad Alfredo Giuliani, che lo aveva apprezzato, ho incontrato a casa sua, a Bologna, quello che, ritrovato di nuovo a Bergamo tre-quattro anni dopo, sarebbe diventato il mio migliore amico, Lucio Klobas

due ore prima, proprio con Giuliani e Giorgio Celli ero andato a pranzo in una trattoria vicino a un binario morto dove per la prima volta ho mangiato del prosciutto con brioches salate appena sfornate fatte a mano lì sul posto, davanti a noi, con mia somma meraviglia, tanto che me lo ricordo ancora, e abbiamo bevuto non poco e poi siamo tornati in centro con la 500 zigzagante di Celli, che aveva la barba piena di briciole e unto e il maglioncino girocollo blu senza camicia sotto tutto macchiato e mai lavato, e lui mi avrebbe fatto anche un po’ schifo, non fosse stato così simpatico

e due ore prima ancora ero stato a sentire una lezione su Savinio di Giuliani, che non avevo mai incontrato prima ma a cui avevo mandato il dattiloscritto del mio secondo romanzo che ora non trovo più, e alla fine gli avevo fatto una domanda e lui dopo mi avrebbe detto “ah, mi pareva che non potevi essere un mio studente!”, e io ero contento

e prima ancora ero arrivato con la mia classe a Bologna per la prima gita gestita in autonomia da me, nel ‘78, e, dopo aver portato gli studenti un po’ in giro per il centro, da perfetto sconsiderato li avevo lasciati in Piazza Maggiore dicendo che sarei tornato per le due per andare insieme in stazione che poi sono arrivato tardi e naturalmente il treno l’abbiamo perso e non sapevamo come avvisare le famiglie di non aspettarci in stazione all’ora prefissata, e gli studenti, qualcuno ne incontro ancora dopo quasi quarant’anni, si ricordano quel viaggio come il primo veramente libero della loro vita e tra i più belli

e un’altra volta che avevo portato gli studenti mi pare a Torino, al ritorno era già buio e eravamo così allegri e c’era una tale nebbia che abbiamo sbagliato stazione e di nuovo non si sapeva come avvisare i genitori di venire a quella dopo, dalla quale abbiamo telefonato a casa di uno di Treviglio che è andato poi alla stazione a avvisare i genitori di venire a Verdello che eravamo tutti lì, a ridere, tanto che nessun genitore si è incazzato e ridevano anche loro e solo una mia collega era un po’ in imbarazzo, perché le colleghe, si sa, sono più puntigliose e si imbarazzano per niente

nel frattempo ero diventato di ruolo e mi ero sposato,

ma ero sempre ancora poco più di un ragazzo


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