Si guarda
spesso con diffidenza agli interventi critici e alle proposizioni teoriche di
uno scrittore, sia quando parla delle proprie opere sia quando si occupa delle
opere altrui. Nel primo caso la diffidenza nasce dal duplice ma contraddittorio
postulato che l’opera, una volta conclusa, non appartiene più all’autore che a
qualsiasi lettore, e che anzi l’autore, proprio in quanto tale, è nella
posizione meno favorevole per interpretarla e giudicarla; nel secondo sorge
invece dalla supposizione che sia impossibile allo scrittore non proiettare
opinioni, idiosincrasie e tendenziosità personali che offuscano la lettura e
intralciano il presunto dovere di obiettività della critica.
Eppure
avviene spesso che proprio tali “debolezze” costituiscano anche, da altra
prospettiva, il punto di forza, nonché la molla del fascino, di tanti saggi
critici di grandi scrittori. Non si spiegherebbe altrimenti perché li si
ricerchi con tanta insistenza né perché li si legga con tanto piacere e
profitto, come avviene con le recentemente pubblicate Lezioni di letteratura tratte dagli appunti preparatori ai corsi
che Vladimir Nabokov tenne a Cornell tra il 1948 e il 1958. dal momento che è
difficile trovarvi grandi costruzioni teoriche, e anzi si ritiene che uno
scrittore, chissà perché, non dovrebbe elaborarne, e che non sempre è bastevole
la semplice curiosità aneddotica, comunque non disprezzabile per quanto
concerne tic e confessioni né per il desiderio di vedervi dispiegati specifici
strumenti del mestiere, deve esserci qualcosa d’altro.
L’opera
di ogni grande scrittore è una rilettura più o meno implicita della tradizione
e come tale è essa stessa la vera teoria della letteratura, ma dato che i
riscontri sono spesso criptici e di rado diffusi, è naturale che rivestano
tanta importanza le sue analisi dirette e i suoi interventi critici. Questi
possono allora essere considerati non inutili aggiunte o preziosi svolazzi
arbitrari, quanto piuttosto l’altra faccia, forse secondaria ma pur sempre
notevole, del suo lavoro creativo.
E’ quel
che non capisce John Updike quando si scandalizza, nella prefazione al libro,
che Nabokov abbia introdotto lo Stevenson di Il Dottor Jekill e Mister Hide nel novero dei grandi autori (Austen,
Dickens, Flaubert, Proust, Kafka e Joyce) da lui presi in esame: non ha capito
che una rilettura originale della tradizione comporta una ridistribuzione dei
ruoli e dei valori, e non ha capito nemmeno Nabokov e l’importanza che egli
attribuiva alla narrazione e alla fluidità sonora della frase (per sorvolare
sull’incomprensione di Stevenson stesso).
Le
lezioni di Nabokov non sfuggono alla regola. Pensate per fini didattici e non
per la pubblicazione, ma spesso preparate con cura anche se non sempre
approfondite e organizzate in modo compiuto, accanto a qualche contraddizione
superficiale presentano tuttavia una
notevole coerenza di fondo, nella quale anche i suggerimenti pratici di lettura
e l’insistenza su certi principi che oggi possono apparire ridondanti
acquistano una loro precisa collocazione.
Né ci si
deve far sviare dal tono brillante e a volte pettegolo che pure rende quanto
mai accattivante la lettura. “Un libro è come un baule stipato di roba. Alla
dogana la mano di un funzionario vi si immerge sbrigativamente, ma chi cerca
tesori ne esamina ogni filo”. E nemmeno si deve prestare troppa attenzione alla
reiterata denegazione della teoria che, unitamente a quella di ogni realtà
oggettiva e utilità concreta, costella di nobile quanto snobistico distacco più
di una pagina. Nabokov ha infatti ben radicata in mente una sua ontologia della
letteratura che permea ogni movenza delle sue analisi, spesso addirittura in
modo palese, tanto da assumere in alcuni casi cadenze dimostrative nei luoghi
classici dell’inizio e della fine delle varie lezioni.
Accanto
infatti ad affermazioni dogmatiche e a messe in guardia di evidente utilità
pedagogica (i libri vanno solo riletti e non letti; allegorie, simboli e
generalizzazioni sono idiozie; la letteratura insegna poco o nulla e non serve
a niente e non va confusa con la realtà, così come il lettore non deve identificarsi con i personaggi ecc.), e a volte insinuata persino in esse,
affiora una concezione della letteratura come realtà suprema: “la letteratura
non si occupa di qualcosa: è la cosa in sé, l’essenza”.
Essenza
che è inganno e finzione e insieme natura, dato che la natura è essa stessa
inganno e finzione, e che ha nei sensi il punto di partenza e di arrivo (da una
parte infatti la letteratura “non produce vera arte se non parte dai sensi”, e
dall’altra questa non si coglie se non si lascia “che sia la spina dorsale a
prendere il sopravvento, Benché si legga con la mente, la sede del piacere
estetico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è
certamente la forma più alta di emozione che l’umanità abbia raggiunto”), e
nella visione del particolare, che solo le parole e lo stile fanno essere, il
luogo di manifestazione. Tutto il resto, più che esserne escluso, ne dipende, e
solo al suo interno trova la giusta collocazione: se infatti “il mondo di un
grande scrittore è di fatto una democrazia magica, dove certi personaggi
assolutamente secondari (...hanno) il diritto di vivere”, non si vede perché ne
debbano essere esclusi quei valori morali e intellettuali, i sentimenti, la
satira e la critica sociale ecc., che Nabokov sembra rigettare ma in realtà si
limita a ridimensionare (e a usare lui pure per i suoi fini).
Si può
dire che essi acquistino rilevanza solo in quanto non se ne arrogano presi a sé
stanti, solo cioè se più che calarsi nei particolari, che presupporrebbe una loro
trascendenza, ne vengono sprigionati e sono perfettamente integrati nella
struttura narrativa elaborata dallo scrittore, che deve essere prima
“incantatore”, poi “tessitore” e solo per ultimo, quando si dà il caso,
“maestro”.
Di
conseguenza anche la lettura deve procedere secondo queste linee direttrici,
come appunto Nabokov fa e insegna a fare. Se generalmente procede per riassunti
e seguendo scrupolosamente la trama, non è tanto, o soltanto, per scrupolo
pedagogico, ma perché la prima esigenza è la perfetta aderenza al testo preso
per se stesso e il riassunto, che egli dà in modo magistrale, è il primo passo
verso il reperimento della struttura (“le mie lezioni sono, tra l’altro, una
sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie”) e delle
fondamentali caratteristiche stilistiche e formali secondo modalità né
episodiche né impressionistiche né astratte, nel cui quadro anche le altre
componenti di ogni singola opera potranno essere poi messe in rilievo.
Così
Nabokov giunge a dare insieme una lettura esauriente dei vari testi e, senza
discostarsi da essi, una panoramica articolata dei problemi e delle
implicazioni dell’arte romanzesca (per esempio i nuclei tematici in Dickens, i
metodi compositivi e le strutture in Flaubert, le difficoltà nella delineazione
dei personaggi in Stevenson ecc.) e può dispiegare il suo entomologico acume su
tutte quelle “inezie” di cui la letteratura consiste e la sua stessa
scrittura è così ricca.
Vladimir
Nabokov, Lezioni di letteratura, Garzanti,
Milano, 1982, p. 450, £ 16.000
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