05/02/16

Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura (1983)

Si guarda spesso con diffidenza agli interventi critici e alle proposizioni teoriche di uno scrittore, sia quando parla delle proprie opere sia quando si occupa delle opere altrui. Nel primo caso la diffidenza nasce dal duplice ma contraddittorio postulato che l’opera, una volta conclusa, non appartiene più all’autore che a qualsiasi lettore, e che anzi l’autore, proprio in quanto tale, è nella posizione meno favorevole per interpretarla e giudicarla; nel secondo sorge invece dalla supposizione che sia impossibile allo scrittore non proiettare opinioni, idiosincrasie e tendenziosità personali che offuscano la lettura e intralciano il presunto dovere di obiettività della critica.
Eppure avviene spesso che proprio tali “debolezze” costituiscano anche, da altra prospettiva, il punto di forza, nonché la molla del fascino, di tanti saggi critici di grandi scrittori. Non si spiegherebbe altrimenti perché li si ricerchi con tanta insistenza né perché li si legga con tanto piacere e profitto, come avviene con le recentemente pubblicate Lezioni di letteratura tratte dagli appunti preparatori ai corsi che Vladimir Nabokov tenne a Cornell tra il 1948 e il 1958. dal momento che è difficile trovarvi grandi costruzioni teoriche, e anzi si ritiene che uno scrittore, chissà perché, non dovrebbe elaborarne, e che non sempre è bastevole la semplice curiosità aneddotica, comunque non disprezzabile per quanto concerne tic e confessioni né per il desiderio di vedervi dispiegati specifici strumenti del mestiere, deve esserci qualcosa d’altro.
L’opera di ogni grande scrittore è una rilettura più o meno implicita della tradizione e come tale è essa stessa la vera teoria della letteratura, ma dato che i riscontri sono spesso criptici e di rado diffusi, è naturale che rivestano tanta importanza le sue analisi dirette e i suoi interventi critici. Questi possono allora essere considerati non inutili aggiunte o preziosi svolazzi arbitrari, quanto piuttosto l’altra faccia, forse secondaria ma pur sempre notevole, del suo lavoro creativo.
E’ quel che non capisce John Updike quando si scandalizza, nella prefazione al libro, che Nabokov abbia introdotto lo Stevenson di Il Dottor Jekill e Mister Hide nel novero dei grandi autori (Austen, Dickens, Flaubert, Proust, Kafka e Joyce) da lui presi in esame: non ha capito che una rilettura originale della tradizione comporta una ridistribuzione dei ruoli e dei valori, e non ha capito nemmeno Nabokov e l’importanza che egli attribuiva alla narrazione e alla fluidità sonora della frase (per sorvolare sull’incomprensione di Stevenson stesso).
Le lezioni di Nabokov non sfuggono alla regola. Pensate per fini didattici e non per la pubblicazione, ma spesso preparate con cura anche se non sempre approfondite e organizzate in modo compiuto, accanto a qualche contraddizione superficiale presentano  tuttavia una notevole coerenza di fondo, nella quale anche i suggerimenti pratici di lettura e l’insistenza su certi principi che oggi possono apparire ridondanti acquistano una loro precisa collocazione.
Né ci si deve far sviare dal tono brillante e a volte pettegolo che pure rende quanto mai accattivante la lettura. “Un libro è come un baule stipato di roba. Alla dogana la mano di un funzionario vi si immerge sbrigativamente, ma chi cerca tesori ne esamina ogni filo”. E nemmeno si deve prestare troppa attenzione alla reiterata denegazione della teoria che, unitamente a quella di ogni realtà oggettiva e utilità concreta, costella di nobile quanto snobistico distacco più di una pagina. Nabokov ha infatti ben radicata in mente una sua ontologia della letteratura che permea ogni movenza delle sue analisi, spesso addirittura in modo palese, tanto da assumere in alcuni casi cadenze dimostrative nei luoghi classici dell’inizio e della fine delle varie lezioni.
Accanto infatti ad affermazioni dogmatiche e a messe in guardia di evidente utilità pedagogica (i libri vanno solo riletti e non letti; allegorie, simboli e generalizzazioni sono idiozie; la letteratura insegna poco o nulla e non serve a niente e non va confusa con la realtà, così come il lettore non deve identificarsi con i personaggi ecc.), e a volte insinuata persino in esse, affiora una concezione della letteratura come realtà suprema: “la letteratura non si occupa di qualcosa: è la cosa in sé, l’essenza”.
Essenza che è inganno e finzione e insieme natura, dato che la natura è essa stessa inganno e finzione, e che ha nei sensi il punto di partenza e di arrivo (da una parte infatti la letteratura “non produce vera arte se non parte dai sensi”, e dall’altra questa non si coglie se non si lascia “che sia la spina dorsale a prendere il sopravvento, Benché si legga con la mente, la sede del piacere estetico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la forma più alta di emozione che l’umanità abbia raggiunto”), e nella visione del particolare, che solo le parole e lo stile fanno essere, il luogo di manifestazione. Tutto il resto, più che esserne escluso, ne dipende, e solo al suo interno trova la giusta collocazione: se infatti “il mondo di un grande scrittore è di fatto una democrazia magica, dove certi personaggi assolutamente secondari (...hanno) il diritto di vivere”, non si vede perché ne debbano essere esclusi quei valori morali e intellettuali, i sentimenti, la satira e la critica sociale ecc., che Nabokov sembra rigettare ma in realtà si limita a ridimensionare (e a usare lui pure per i suoi fini).
Si può dire che essi acquistino rilevanza solo in quanto non se ne arrogano presi a sé stanti, solo cioè se più che calarsi nei particolari, che presupporrebbe una loro trascendenza, ne vengono sprigionati e sono perfettamente integrati nella struttura narrativa elaborata dallo scrittore, che deve essere prima “incantatore”, poi “tessitore” e solo per ultimo, quando si dà il caso, “maestro”.
Di conseguenza anche la lettura deve procedere secondo queste linee direttrici, come appunto Nabokov fa e insegna a fare. Se generalmente procede per riassunti e seguendo scrupolosamente la trama, non è tanto, o soltanto, per scrupolo pedagogico, ma perché la prima esigenza è la perfetta aderenza al testo preso per se stesso e il riassunto, che egli dà in modo magistrale, è il primo passo verso il reperimento della struttura (“le mie lezioni sono, tra l’altro, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie”) e delle fondamentali caratteristiche stilistiche e formali secondo modalità né episodiche né impressionistiche né astratte, nel cui quadro anche le altre componenti di ogni singola opera potranno essere poi messe in rilievo.
Così Nabokov giunge a dare insieme una lettura esauriente dei vari testi e, senza discostarsi da essi, una panoramica articolata dei problemi e delle implicazioni dell’arte romanzesca (per esempio i nuclei tematici in Dickens, i metodi compositivi e le strutture in Flaubert, le difficoltà nella delineazione dei personaggi in Stevenson ecc.) e può dispiegare il suo entomologico acume su tutte quelle “inezie” di cui la letteratura consiste e la sua stessa scrittura è così ricca.

Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Garzanti, Milano, 1982, p. 450, £ 16.000



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