Silenziare non
è chiedere silenzio, o indurvi qualcuno perché posto di fronte a una verità
condivisa; no, è il gesto di imporre il silenzio: dove accanto e forse più
dell’oggetto dell’imposizione o delle circostanze che la renderebbero
necessaria (a teatro, in un’aula…), a importare è il gesto stesso. Perché tutto
sta lì: ancora prima dei suoi effetti, tutto sta già nel potere di pensare il
gesto, di pensarlo legittimo e doveroso, e poi di effettuarlo. L’uso del verbo
mette l’accento sull’azione. Sulla sopraffazione.
Non so se chi
adotta il termina silenziare ci pensa (magari è una persona ragionevole,
aperta), però io ho come idea che chi lo usa è qualcuno che a fare silenzio
invece non è disposto, che il silenzio nemmeno sa cos’è, e che anzi del silenzio
ha paura.
Silenziare
vorrebbe dire, per costui, ridurre al silenzio chi parla o può parlare al posto
suo: non chi parla contro di lui, ma chi con il suo solo aprir bocca sottrae
spazio alla sua parola; chi, parlando, chiede ascolto e, così facendo, distrae
dall’ascolto del suo discorso, lo interrompe o offusca, se addirittura non lo
cancella. Lui invece vuol parlare sempre, non vuole che il silenzio si insinui
nelle sue parole e, insieme, insinui il sospetto che il troppo pieno della sua
voce galleggi su un vuoto di senso sempre incombente: che il senso delle sue
parole non sia quello di ciascuna di esse e del loro insieme, ma quello del
puro dire, l’urgenza fàtica di tenere la linea, di tenerla sempre occupata: di
accaparrarsene la proprietà. La proprietà esclusiva.
Vuole
silenziare, chi è uso ad alzare la voce. Chi grida e non sente ragioni. Chi
grida perché ragioni non vuole sentirne. Chi ha la forza dei polmoni (dei
microfoni, delle frequenze, del patrimonio, della gerarchia) e non tollera che
un inferiore, uno zero, un altro, alzi la mano, chieda: posso?, e apra, con la
sua prima, semplice parola, un altro mondo.
Pomarancio, Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio
Sopra, foto mia non ricordo dove (Parma? Padova?)
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