Siamo sempre prossimi al “luogo dove il
profumo della memoria [sta per svanire], là, vicino al confine del deficit dove
inizia il nulla del dimenticato”, scrive Aldo Zargani in apertura del suo
bellissimo racconto “Profumo di lago”. Proprio per questo, per il “terrore”
che gli fa l’oblio, all’insegna della lotta contro di esso, lo scrittore pone tutta la sua
opera narrativa e la sua attività di saggista e testimone, anche se non indulge
in alcun modo a posizioni vittimarie, pur avendo subito lui e la sua famiglia
le conseguenze delle leggi razziali e molti suoi parenti e amici la
deportazione e la morte nei lager nazisti. Il dovere di testimonianza non è mai
disgiunto infatti da un preciso impegno civile, sempre centrato sul qui e ora
della vita, in una prospettiva idealmente positiva e propositiva che non si è
lasciata spezzare né dalle vicende recenti della storia né da un’inflessibile
lucidità che in altri facilmente si traduce in amarezza e disillusione. Come
dice Claudio Vercelli, “non si è vittime se si è soggetti attivi del
cambiamento”.
Quasi tutti i suoi testi sono di
matrice autobiografica, ma vengono presentati come romanzi e racconti. Il primo
e più importante romanzo, Per violino
solo, racconta le peripezie della famiglia Zargani, genitori e due
figlioletti, negli anni che vanno dall’emanazione delle leggi razziali, dal fallito
tentativo di emigrare nella speranza che il padre musicista trovi lavoro in
Svizzera e dal conseguente ritorno a Torino e all’inasprimento delle condizioni
di vita specie dopo l’entrata in guerra, fino, passando per la forzata
clandestinità, alla fine del conflitto: anni che coincidono con l’infanzia e
l’ingresso nell’adolescenza del piccolo Aldo. La sua storia prosegue con Certe promesse d’amore, che copre i
primi anni nel dopoguerra, dal ritorno a scuola ai campeggi dei boy scout e
alle Colonie Collettive Ebraiche di Rieducazione Agricola, fino all’ingresso
nell’età adulta segnato dalle prime esperienze lavorative e dalla fine dei
progetti di emigrazione e soprattutto dell’amore con Dlilah, con cui avrebbe
dovuto trasferirsi in Israele. Queste vicende sono poi sviluppate e integrate
dai numerosi racconti che Zargani è venuto pubblicando su giornali e riviste
cartacee e sul web, toccando eventi anche più recenti.
La memoria infatti non si ferma alla
tragedia della guerra e alle sue ripercussioni macroscopiche, ma deve comprendere anche ciò che la segue, le
conseguenze ma prima ancora le varie sequenze che lo hanno caratterizzato, il
seguito come è venuto costruendosi nel quotidiano e nel personale, nella storia
“minore” ma non per questo meno importante in cui la famiglia Zargani è immersa
e da cui è condizionata, via via, a raggio sempre più ampio: dalla nuova casa
nel quartiere operaio alla Trieste della famiglia così simile e diversa, perché
credente e osservante, di Dlilah; dall’arrivo in città delle brigate ebraiche
inglesi al ritorno dei sopravvissuti dalla clandestinità e dai lager; dalle
speranze del sionismo socialista alla controversa edificazione dello stato di
Israele.
La paura non ancora dell’oblio, lo
spaesamento, l’incertezza relativa al proprio statuto prima ancora che al
proprio futuro, i dubbi relativi alla propria effettiva condizione anche quando
la realtà si incarica di puntualizzarla con ferocia (come nel caso dell’arresto
dei genitori) e il conflitto sempre aperto con un’autopercezione che tarda ad
accettarla pienamente, restano comunque il cielo sotto il quale Zargani è
cresciuto, dopo una prima infanzia serena che fortunatamente ha lasciato una
traccia permanente nella sua personalità, e la tonalità di fondo del capolavoro
Per violino solo e di molti racconti.
Paura per i genitori, per il fratello e per sé, ma anche la capacità presto
acquisita di tenerla a bada e non darla a vedere, tanto che di rado viene
apertamente tematizzata o giunge a determinare i gesti e le parole del piccolo
Aldo, che sono invece spesso caratterizzati, che sia stato proprio così o anche
una proiezione della personalità attuale del narratore, da lucidità e ironia, a
volte spinta fino a risvolti comici, magari caustica, e però mai cinica e
rinunciataria o pessimista. La famiglia durante le sue drammatiche peripezie, e
il figlio maggiore con essa, conservano sempre un principio di speranza, che nel
giovane Aldo evolve poi in ideali politici socialisti, e, anche dopo le
disillusioni che hanno costellato gli ultimi decenni (Israele incluso, pure
molto amato), in un sentire umano che si diffonde sulla vita anche nei momenti
in cui maggiore sarebbe la tentazione di buttarlo a mare.
E di vita e vitalità sono ricolmi i
suoi libri, e non paradossalmente, a dispetto dell’atmosfera di pericolo e
morte incombenti su tanti personaggi che infatti poi sono caduti vittima del
nazismo e del suoi tirapiedi repubblichini, ma perché la narrazione avviene dal
punto di vista a volte smarrito, spesso impaurito, ma sempre vitale di un
ragazzino, e anche perché è la memoria affettuosa dell’uomo anziano che
continua a rievocare i suoi morti, più che nel tono del lutto, in quello
dell’amore che conserva in vita anche chi non c’è più (come avverrà anche per i
sopravvissuti persi nella distanza dello spazio e del tempo, come la
fidanzatina Dlilah e suo fratello e gli amici dell’adolescenza, in Certe promesse d’amore). E tutte vive
sono infatti le figure minori e marginali che costellano i suoi testi (il
pastore, la cameriera Livia, la zia Lina, certi sacerdoti e insegnanti, i
taglialegna, i genitori di Dlilah: figure, alcune, con tratti che si direbbero
schulziani, se non fosse che l’ambiente ebraico evocato, di ceto più borghese e
laico che popolare, non ha nulla di quell’enciclopedia della stramberia poetica
che è lo shtetl orientale, almeno in certi suoi scrittori e artisti come I.B.
Singer e Chagall), tutte memorabili e quasi mai bozzettistiche, perché tutte scaturite
dal principio del ricordo e dall’imperativo della giustizia. Gli stessi imperativi
che spingono Zargani a cercare nella memoria anche solo bagliori di figure
scomparse di cui si intravedono solo dei nomi sulle lapidi del cimitero torinese,
perché se salvare anche solo una vita, come dicono il Talmud e sulla sua scorta
anche il Corano, equivale a salvare il mondo intero, questo dovrebbe valere
anche per la vita degli scomparsi, soprattutto di coloro di cui più rischia di non
sopravvivere nessuna traccia.
Se il discorso è non di rado scanzonato
e amabilmente irriverente, è però anche pervaso da una partecipazione insieme
dolente e disincantata e da una costante attenzione al dettaglio umano che
individualizza e dà a ciascuno il suo, in una notevole varietà di gradazioni
sotto le quali scorre, a volte messa in sordina, ma sempre presente, mai sopita,
la corrente profonda della tragedia, che ogni tanto riaffiora per brevi tratti,
buia eppure abbacinante, violenta ma non clamorosa, mai calcata e spettacolare
(ciò che, invece che accentuarne la forza, la edulcorerebbe rendendola più
accetta), silenziosa, piuttosto.
Ma la memoria e la rievocazione di un
periodo così denso di eventi e drammi, e speranze e problemi, non sono il solo
motivo di interesse dell’opera di Zargani: la novità risiede invece nel punto
di vista e nel dettaglio delle vicende narrate, alcune peculiari della famiglia
Zargani, altre già note per ricostruzioni storiche o finzionali ma raramente presentate
con tale forza e efficacia. Penso in particolare alla storia di una famiglia in
fuga, clandestina, tra rischi di delazione e protezioni a volte trovate in
luoghi e persone assolutamente insperati, come in pretura o nel carcere, il
rifugio in un collegio di salesiani per figli, in montagna per i genitori. Ma
penso anche, per esempio, al racconto , in “Dies irae”, della visione a guerra
appena terminata dei documentari della Combat Film sui campi di concentramento
e sulle impiccagioni dei criminali nazisti e dei loro complici, e sulle umiliazioni
inflitte alla popolazione tedesca per la sua connivenza: “Per odiare li
volevamo vedere, per godere della loro umiliazione, gioire della loro
vergogna”, travolti da ira e stupore: “Passioni, smisurate e devastanti, che
riempivano la mia mente di bambino.” Nessun buonismo di principio: più che il
perdono, e anche più che la giustizia, il ragazzino, e gli adulti con lui, è la
vendetta che desidera e così, senza sensi di colpa ma anche senza scuse o
giustificazioni, l’anziano scrittore racconta queste passioni, per capire le
proprie reazioni ma soprattutto perché così è stato, per lui e per molti di
quelli che riempivano quelle sale, tra i quali avrebbe potuto benissimo esserci
anche il lettore, fosse vissuto allora, uscito da quelle esperienze. “E ciò
avvenne per l’unica volta nella mia vita, perché l’ira e lo stupore mi hanno saziato
per sempre nella lontana estate di quando avevo 12 anni”, aggiunge Zargani; ma
il lettore non ci crede, perché, se non l’ira, almeno la capacità di stupore
che si riscontra in molte sue pagine non è ascrivibile solo al bambino di
allora, ma viene dritta dritta dall’adulto che scrive: non è il ricordo, sono
il presente del ricordare, e la sua qualità, la sua grana, che cambia di
chimica e intensità da individuo a individuo. Ricordare non basta.
C’è sempre un mistero nel punto da cui
provengono le storie, là dove motivazioni coscienti e cause esterne e
spiegazioni esistenziali o razionali, per quanto giuste e necessarie (la lotta
contro l’oblio e le distorsioni, la morte che si avvicina, e perché “è bello,
dopo le disgrazie, raccontare”...) non sono così decisive, e dove si radicano
invece lo sguardo e quel timbro peculiare che conferiscono realtà, perché
raggiungono il cuore vivo della comprensione, alle vicende e figure rievocate,
e rendono la necessità davvero tale, incarnata.
Quando la forza di questo impulso e dello
sguardo infantile che vive in diretta ciò che narra anche nel tempo dello
scrittore ormai maturo (perché tutte le età convivono in ogni qui e ora), si
affievolisce e prevalgono le altre motivazioni, la rievocazione diventa
“sentimentale” e “letteraria”, come in certi passaggi di Certe promesse d’amore, e il discorso si allenta e indebolisce. Forse
questa forza (la necessità) è legata a un trauma sempre vivo, alla dolorosa
sorpresa di ritrovarsi da un giorno all’altro discriminato, senza che nulla
all’apparenza sia cambiato attorno, al trauma di sentirsi ed essere vittima che
è rimasto senza vera spiegazione, al di là di tutte quelle che sono state avanzate
da storici e sociologi e psicologi (e aguzzini o persecutori indifferenti),
senza riuscire a trovare una vera ragione lungo tutta l’esistenza. Come senza
spiegazione resta la domanda fondamentale di tutti i sopravvissuti al lager, ma
anche, nel caso di Zargani, di coloro che sono scampati persino alla
deportazione, sul perché proprio loro si sono salvati quando così tanti attorno
a loro non sono tornati. Forse proprio questo ha tenuto vivo lo sguardo sul
mondo del bambino che doveva crescere in fretta e capire come comportarsi, come
dissimulare e essere savio e diligente a scuola, senza troppo apparire,
prudente e circospetto, pur restando ottimista, aperto, nel solco
dell’imprinting positivo ricevuto in dote dall’amore non solo famigliare nei
primissimi anni, in una costante tensione tra incanto e delusione, bellezza e
stortura, ingenuità dell’età e indispensabili strategie di sopravvivenza,
mentre più tardi, nell’adolescenza e nelle tracce che essa ha lasciato, questa
tensione si è in parte allentata, di modo che la scrittura si è ritrovata a
dover compensare, facendosi più “bella”, più accurata, desiderosa di
sorprendere e di piacere, e in realtà proprio così indebolendosi, rendendo a
tratti meno serrata la narrazione e più frammentario il discorso, costruiti,
forzati per “fare romanzo”.
Tuttavia la forma “romanzo”, e non quella
del memoriale o dell’autobiografia, è necessaria non solo per un dovere di
onestà, per compensare le lacune dovute alla distanza temporale e le
distorsioni che i ricordi sempre comportano (con una dichiarazione paradossale
di adesione alla verità di quelli falsi per come sono percepiti nel momento
stesso del racconto, piuttosto che a quella, riportata tuttavia in nota, della
realtà documentata): lo è anche, contrariamente a quanto è avvenuto per
scrittori come Primo Levi che scrivendo a ridosso del trauma l’hanno adottata
per tener lontano l’incandescenza della materia e non lasciarsi travolgere da
ciò che appariva come indicibile, per lo scopo opposto di non privare di forza
e incandescenza un materiale che rischia di apparire lontano e inficiato dalle
magagne della memoria, e soprattutto di raffreddarsi eccessivamente nella
consuetudine delle rievocazioni e nella distanza del discorso storico da una
parte e nel sempre incombente buio dell’oblio dall’altra. Gli ultimi testimoni
stanno scomparendo e quindi ribadire e consolidare la testimonianza si fa più
urgente, mentre il discorso storico prende sempre più, e giustamente, il sopravvento;
ma proprio questo apre un nuovo spazio per un diverso rapporto tra memoria e
finzione, letteraria e anche filmica, come dimostrano esempi recenti (cfr. Il figlio di Saul), per esplorare
territori che esulano dalla ricostruzione oggettiva e nondimeno sono
indispensabili per capire cosa è successo e favorire comprensione e adesione.
Il romanzo permette
inoltre a Zargani di restare nel concreto e di non abbandonare mai il campo
delle singolarità anche quando è di vicende collettive che narra, evitando di
proiettare su persone e fatti circoscritti un’aura eccezionale e al contempo
esemplare, o di renderli metaforici di una condizione generale o assoluta, e attribuisce
al singolo e allo specifico ciò che gli spetta e che esso solo può trasmettere,
perché è di esso, della sua molteplicità e delle sue infinite connessioni che
la realtà e la storia sono fatte. Di qui la necessità, cioè il dovere ma anche
il compito faticoso, di connettere. Compito collettivo ma prima ancora soggettivo,
che ciascuno può decidere di assumere o di lasciar cadere. Con una frase che da
sola basterebbe a farmelo amare, Zargani dice: “La sintassi è la sede del
libero arbitrio”. Si tratta di un’affermazione importante non per vezzo
letterario o estetizzante, ma perché l’accento sulla sintassi è appunto quello
sulla connessione, sulla consapevolezza della pluralità e della gerarchia, sia
pure mobili e sempre da verificare, dei rapporti tra le azioni e le cose della
vita, e sulla assunzione della responsabilità di provare a riconoscerli e
istituirne laddove sembra che le cose giacciano irrelate una accanto all’altra,
come se fossero semplicemente date e non, anche, effetto della molteplicità dei
gesti e dei sentimenti e delle idiosincrasie e paure e pregiudizi degli uomini.
I romanzi e i racconti di Zargani, pur così leggibili e capaci di trasmettere
anche “un intimo senso di consolazione, come dice Olivier Favier, di questa
molteplicità e delle sue differenti stratificazioni sono costituiti. Non si
tratta solo dei diversi registri della scrittura, ma della sintassi stessa
della forma dei testi, dei vari modi e ritmi del loro montaggio, di come si
susseguono e fondono e contrastano i piani temporali e i punti di vista dei
personaggi e del narratore, e come si combinano la narrazione e la riflessione
e il commento, l’allora e l’ora del discorso, che sono anche i modi in cui
prendono posizione verso la realtà passate e presente e insieme danno al
lettore gli strumenti e lo spazio per trarre le sue deduzioni e costruire a
propria volta la sua sintassi, razionale possibilmente, attento al dovere di
verità e non chiuso alle risorse dell’immaginazione, vigile e lucido, e però
sempre emozionato, divertito e commosso. È in questa assunzione di
responsabilità, verso i viventi e i morti, verso la memoria e il suo
radicamento nel presente, che risiede la libertà dell’arbitrio, e giustamente. La
grammatica è il luogo della regola, la sintassi lo spazio della libertà.
Zargani onora entrambe e implicitamente sollecita il lettore a fare
altrettanto.
a:
Profumo di Lago, Dies irae e Olivier Favier :
a
Per violino solo: https://www.mulino.it/isbn/9788815134110
a Il figlio di Saul: http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/nell-occhio-del-ciclone-saul-fia-di-laszlo-nemes
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