Marco
Ercolani è psichiatra e quindi non sorprende che la follia occupi un posto rilevante
nel suo lavoro di scrittore e critico. Sorprendono invece la varietà dei modi
in cui il suo rapporto di medico e artista con essa è stato declinato e la molteplicità
delle forme che ha assunto: mai come ambiente, fonte di storie o serbatoio di
personaggi o aneddoti, ma sempre spazio mutevole indagato al limite, in bilico sul
filo tra follia e opera, esperienza e studio, malattia e sintomo, persona e
paziente, cercando di preservare a ciascun corno della dicotomia la sua
specificità e autonomia, il rispetto per la voce che gli è propria e insieme la
possibilità di un passaggio dall'uno all'altro: ponte, porta, segno, empatia. Vale
a dire attenzione che rifiuta al folle il ruolo di astrazione, ma anzi riceve
proprio dalla sua individualità lo stimolo a riconoscere in sé un identico
spazio e a provare a rispondere alle sue radicali interrogazioni senza stemperarle,
ma anche senza idealizzarle dimenticando che è dalla follia che provengono:
dalla malattia e dal dolore da cui il folle chiede di essere liberato. E questo
sia che il rapporto con la follia prenda poi la forma di riflessioni
saggistiche (come in L'opera non perfetta
– Note su arte e follia 1999-2009,
Nicomp L.E., 2010), sia che riporti, come quadri circoscritti, ma senza
cornice, i deliri, le voci e le esperienze, fatti e misfatti, dei malati (come
in Anime strane, Greco&Greco,
Milano, 2004 e Sento le voci, La vita
felice, Milano, 2009, scritti in coppia con la moglie Lucetta Frisa), ovvero
che essi abbiano il ruolo di attori e interlocutori diretti come nel recente Turno di guardia (Il Canneto Editore,
Genova, p. 113, E. 7). Sottolineo malati e folli, perché tali sono e li chiama
Ercolani, senza ricorrere a eufemismi o palliativi di sorta: sono malati,
pazienti, che patiscono e non hanno più
la pazienza di sopportarlo, anche se a volte non manca chi,
"guarito", rimpiange la malattia: "Non sarei dovuto guarire. Ora detesto la vita. Non sarei dovuto finire
così. Prima c'erano ventisette ponti, trecento odori, seicento colori. Ora
niente. Sto dentro un appartamento e aspetto di morire." (Ma se è
guarito, che ci fa al pronto soccorso in piena notte? Forse che la
"guarigione" non è che una forma più accettata ma non meno dolorosa
di malattia?)
Se però
il rapporto di Ercolani con la malattia è sempre personale, non è mai dato di
trovarlo in prima persona nelle sue opere: anzi, la sua cura è sempre stata di
eclissarsi, di annullarsi, non solo come forma di pudore e rispetto per la
sofferenza, ma come igiene dello sguardo e precisa strategia di scrittura, come
aveva fatto in molti dei libri precedenti non a caso spesso imperniati sul tema
dell'apocrifo e sui diversi stili che ne conseguivano.
Le cose
cambiano invece, e con esiti molto felici, proprio in questo Turno di guardia, dove lo psichiatra, che
i turni li fa (li patisce) in un ospedale di una grande città, è in primo piano
non solo come soggetto dell'enunciazione e portatore dell'esperienza
professionale nonché di artista e studioso, ma anche come bersaglio di
considerazioni sarcastiche o aggressive, oltre che di richieste, imploranti o
imperative, da parte del tragico campionario umano ai cui bisogni egli cerca di
assolvere, ritrovandosi spesso impotente, nelle infinite notti di guardia, in
turni anche di 12 ore che a volte si susseguono per giorni e giorni senza
pause.
Dementi,
barboni, tossici, alcolizzati, suicidi mancati o potenziali, paranoici e
schizofrenici, tanti stranieri: stranieri tutti. E straniero, altro, è anche lo
psichiatra stesso, lo psichiatra che è scrittore e che come tale è talvolta riconosciuto,
e stigmatizzato, deriso e accusato, dai suoi pazienti, a cui cerca di prestare
le cure più urgenti in notti "interminabili" in cui la fatica e il
sonno si accumulano, combattuti da un lato con letture, film in dvd, testi da
scrivere e referti da stilare o consultare; e soprattutto intralciati,
dall'altro, dalle chiamate dal pronto soccorso, casi urgenti da ascoltare o
sedare, voci che urlano nei reparti, a volte in ululati ininterrotti, e altre
come grida isolate, ma più lancinanti, a intervalli regolari, con scansioni
esatte, cronometriche, ed effetti più catastrofici sul decorso del tempo, che
negli intervalli non si distende in pausa e sollievo, ma si riempie dell'attesa
angosciosa del loro ritorno inesorabile.
Brevi
storie scandite in capitoli che spesso non superano la pagina, destini chiusi
in poche frasi, in dialoghi rabbiosi ma che celano la supplica nella negazione
che alla rabbia dà voce, o in brevi monologhi, definizioni e esemplificazioni
illuminanti delle malattie e dei loro sintomi (deliri, allucinazioni, crisi
epilettiche, di panico, di violenza...), e sintesi di grande efficacia
espressiva e di disincantata ma partecipe saggezza, o come condensato, o meglio:
precipitato esperienziale. Mai però riducendo a simboli i folli, sempre invece
"esseri veri che producono finzioni", che "vivono, giorno
dopo giorno, secondo dopo secondo, la percezione di un mondo disintegrato, un
mondo che non sentono neppure legato al proprio dolore psichico, ma che
avvertono come disastro continuo, concreto, reale, fissato nelle cose, ripetuto
nel tempo".
Ma la
ricchezza di questo libretto non si limita a questo: essa deriva anche dall'intreccio
delle storie con la riflessione che Ercolani non cessa di esercitare sul
proprio lavoro: lavoro duplice, in cui scrittura e psichiatria rimandano l'una
all'altra e quasi si confondono, perché la prima non va senza la competenza e la
strumentazione della seconda, e viceversa queste non possono trovare
espressione senza la riflessione e la consapevolezza delle forme,
dell'artificio e delle implicazioni della prima.
Chiedersi
come parlare ai pazzi quando non c'è tempo di fare nessun discorso, come
affrontare l'urgenza delle ferite invisibili e che non si esprimono se non
indirettamente, e spesso attraverso il rifiuto e il silenzio, non può essere
disgiunto dal chiedersi come dare voce a questi incontri, come trarre
esperienza dai loro insegnamenti senza cercare insieme le forme, il linguaggio
e le modulazioni e intensità adeguate; e come, infine, conservare ogni istante la
consapevolezza di avere di fronte un essere umano singolare e dell'unicità del
dialogo che esso richiede, impedendo al contempo che "la conoscenza di
destini eretici o infelici influenzi il lettore con irrilevanti sentimenti di
compassione". La partecipazione si nutre anche di distanza; la terapia, di
riconoscimento e uso della differenza. Se "aver avuto terrore e non
volerlo più provare è la giustificazione segreta del delirio", il medico, da
parte sua, anche se "per ogni mondo parallelo" prova sempre
"un'ostinata tenerezza", deve però aiutare il malato a dargli "una logica" e chiedergli "di
delirare con prudenza", di non
lasciarsene sopraffare, incerto di riuscirci lui stesso quando, stremato, esce
"dai muri della stanza di guardia come dalle pareti di uno specchio".
Di uno specchio, aggiunge, che "è crepato", in cui si può mettere "la
testa dentro", ma da cui è possibile, per lui, "guardare anche fuori. Affacciar[s]i all'altro mondo
con la testa semidecapitata dal cerchio delle loro, delle [sue] visioni". Come noi dal cerchio
delle nostre, all'uscita dallo specchio di questo libro.
Marco
Ercolani, Turno di guardia, Il
Canneto Editore, Genova, p. 122, € 7
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