Negli
anni '90 in Cina c'è stata una grande campagna per raccogliere sangue per gli
ospedali che ha provocato danni infinitamente maggiori dei benefici auspicati.
La raccolta, infatti, era spesso demandata all’iniziativa privata di persone
senza scrupoli che, oltre a sottopagare i donatori, contadini poverissimi
attratti dal guadagno apparentemente facile e inesauribile, non usavano la minima
precauzione igienica, con il risultato che nella sola regione di Henan più di
un milione di persone sono state contagiate di Aids.
Yan
Lianke, scrittore cinquantenne già tradotto da noi con il romanzo satirico Servire il popolo (Einaudi, 2006) fortemente
osteggiato e poi proibito in patria, è originario di questa regione e ha voluto
rendere testimonianza dello strazio e delle conseguenze che questa tragedia ha
prodotto sul suo popolo.
Lo ha fatto concentrando il proprio sguardo sulle
vicende di un piccolo villaggio e della famiglia che di questo immondo mercato
era stata la principale promotrice: dal patriarca, bidello della scuola ma
autorità culturale del villaggio e come tale ascoltato, che aveva convinto in
totale buona fede i compaesani a aderire alla campagna; ai suoi due figli, uno
contagiato, che darà poi vita a una struggente e trasgressiva storia d’amore
adulterina con una giovane pure malata, e l’altro che della raccolta si farà
cinico profittatore fino a raggiungere posizioni di ricchezza e potere anche
nel capoluogo, non importa se pagando l’ascesa con la perdita del figlio
maschio dodicenne, avvelenato dai compaesani per vendetta.
Proprio da questo ragazzino la storia viene
raccontata, scandita come in un controcanto visionario dai sogni del nonno, che
prefigurano nel dettaglio gran parte degli eventi che sconvolgeranno pian piano
non solo l’unità della famiglia, ma tutte le usanze e le regole millenarie del
villaggio, dove la coesistenza in apparenza pacifica della cultura tradizionale
con i cambiamenti storici portati dal comunismo viene completamente dissolta
dalla diffusione del contagio e dalla logica sfrenata del mercato che vi è
sottesa.
Non c’è nemmeno bisogno che Lianke insista
esplicitamente sulla portata simbolica di ogni azione o evento tanto è forte
questa potenzialità già nella lettera del discorso. Il passaggio dall'immobile mondo
rurale del villaggio agli sconvolgimenti che la Cina sta vivendo, con
l'irruzione dell'Occidente e del denaro, e con la diffusione della corruzione e
la mercificazione di ogni cosa e relazione e valore; la proiezione di ogni
evento fin nelle sue minime implicazioni dal livello aneddotico a quello
storico e da locale a sovranazionale; il ribaltamento del mondo dei vivi in
quello dei morti e viceversa, fino alla loro sovrapposizione e confusione (la
vendita delle bare, la speculazione edilizia dei cimiteri e la corsa
all'accaparramento delle postazioni più panoramiche e salubri per la vita
eterna e le dimore dei morti, il loro lusso sfrenato, da antichi imperi...),
avvengono spontaneamente anche per il lettore occidentale.
Ciò che invece viene perso da questi è altro: e si
tratta di una perdita difficile da valutare, ma che è facile presumere grande
se la si rapporta alla misura e all'intensità di ciò che la lettura riesce
comunque a trasmettere.
Dubbi di cui è difficile venire a capo. Per
esempio: nella descrizione dei luoghi e delle cose riesce impossibile non
intravedere (intuire, ma non percepire) una convenzionalità che comunque non
soffoca, per noi, la semplicità e si traduce in incanto (quello di un'ingenuità
riconquistata: che non è poco), mentre per un cinese la sua eventuale bellezza è
più facile che derivi dalla stratificazione: di evocazioni, citazioni magari
esatte e quasi rituali, differenze, scarti o addirittura sorprendenti
innovazioni.
Ignota
la lingua originale, che le traduzioni da quelle occidentali a volte lasciano
invece trasparire, e con essa persi i ritmi, confuse le forme e incerti persino
molti dei riferimenti più prossimi, a volte intuibili ma sfrondati di sfumature
e implicazioni, e comunque poco assimilati, restano solo ripetizioni,
variazioni, pause e cambi di ritmo, molto efficaci peraltro: richiami evidenti
a cadenze della narrazione orale; ma quale tra le tante possibili formule e
forme, è impossibile dirlo. Come è difficile decidere quale significato e
valore formale e strutturale attribuire ai numerosi passaggi che a noi
richiamano un realismo di stampo quasi ottocentesco.
E
infine: quanto l’espediente del narratore morto e il particolare ruolo dei
sogni sono personali creazioni di Lianke, e quanto invece si raccorda a
modalità di narrazione consolidate o plausibili nella stratificata e millenaria
tradizione cinese? Confesso che a me appaiono un po’ forzati, soprattutto il primo.
Quanto
del tono complessivo di distanza e insieme di partecipazione, di ingenuità che
si trasforma spesso in saggezza, deriva dal fatto che voce narrante è di un ragazzino,
perdipiù morto? Che lo fosse, non mi sembra necessario, anche se per certi aspetti
la parte finale del libro lo giustifica. Non del tutto, però. Resta un sospetto
di arbitrarietà eccessiva (o forse sono io che non ne posso più del ricorso
alla voce infantile per abborracciare una prospettiva inedita e presuntopoetica;
ma anche qui: forse in Cina non è lo stesso).
Non
è troppo intelligente, colto e smaliziato (e peggio: fintoingenuo) per essere
un dodicenne? Oppure è la morte a rendere intelligentissimi?
Difficile
saperlo. I morti, secondo me, sono così intelligenti che non hanno nemmeno
bisogno di farlo sapere. Si accontentano di esserlo. E i vivi? Che si
arrangino!
Yan
Lianke, Il sogno del Villaggio dei Ding,
trad. it. Lucia Regola, Nottetempo, 2011, p. 450, E. 20
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