Pur essendo di origine antica (longobarda per la precisione, come suggerisce il nome), fino a poco tempo fa Fara sembra avere vissuto fuori dalla storia. Ora ci è entrata, ma dalla porta sbagliata. In compenso ne sta di nuovo uscendo il fiume, grazie all'intervento del Parco Adda Nord, che ne protegge le sponde e i suoi boschi restituiti allo stato selvaggio e agli animali.
È l'unica cosa bella che c'è, ma quella è bella davvero.
Per il resto del passato, a parte i resti dell'abside della basilica voluta da re Autari nel VI secolo, non è rimasto nulla. I signori che l'hanno dominata non hanno lasciato tracce, se non di sconcertante modestia. Il vecchio nucleo del paese, fatto di piccole cascine e di case a ringhiera dai cortili ampi e luminosi, è stato in buona parte sventrato negli anni '70-80 per far posto a palazzine squallide e cupe quanto pretenziose e a un paio di parcheggi. Le altre sono quasi tutte in abbandono o stipate degli abitanti più anziani e soprattutto dei nuovi faresi di provenienza extracomunitaria, che non possono permettersi i nuovi appartamenti, costruiti a ritmo forsennato anche ora che nessuno compra più. Infatti il numero di quelli rimasti vuoti è sorprendente. Però si continua a costruire. Per impiegare i capitali, dare lavoro, usare il credito, non stare con le mani in mano, nella speranza di rientrare. Di tempo ce n'è.
La crescita del paese, che, dopo un secolo di stabilità sui 4000 abitanti, in poco tempo alla fine del secolo scorso li ha visti raddoppiare, è stata solo in cubatura. I servizi invece, già scarsi, sono diminuiti.
Nessuno degli abitanti recenti sente di appartenere al paese, che anzi spesso disprezza. Eppure molti, di provenienza dai paradisi dell'hinterland milanese, ci sono venuti per loro scelta. Ma in questo, anche se non lo sanno, non fanno che conformarsi ad esso.
La caratteristica fondamentale di Fara infatti, è, mi pare, la non appartenenza. Fa parte della bassa Bergamasca, ma i bergamaschi faticano a riconoscerla dei loro; dei milanesi, che stanno al di là del fiume, è lei a non voler sentir parlare. Il vescovo è quello di Milano, ma il rito è romano. Il dialetto è bergamasco ma senza le aspirate, e ha molti prestiti milanesi, ma senza le desinenze e la cadenza sbruffona. I faresi sono solo faresi. Alcuni faticano a essere pure questo. Il campanilismo è quasi assente. Stanno qui e tanti saluti. L'idea che siano gli altri a non volerli non li sfiora nemmeno. (Persino l'Adda sembra non appartenere in tutto e per tutto al genere dei fiumi: infatti il nome è femminile.)
Forse questo è dovuto anche al lungo isolamento, o a incontri e incroci solo tangenziali, mordi e fuggi. Lo stesso isolamento che l'ha tagliata fuori dalla storia. A parte l'onore di essere distrutta da Federico Barbarossa e in seguito da un altro paio di scalzacani, le cronache non riportano niente di significativo. I grandi macelli avvenivano ai suoi margini, gli eserciti e le ricchezze transitavano a pochi chilometri, attraverso i ponti dei paesi vicini, come oggi la ferrovia e le statali che uniscono Milano a Bergamo e Brescia. Di noi non importava niente a nessuno. Una bella fortuna.
L'unica traccia veramente significativa è la magnifica carcassa dello stabilimento che ha segnato la vita del paese per gran parte del secolo scorso, il Linificio e Canapificio Nazionale, che ha impiegato fino a 2000 operai e soprattutto operaie, spesso provenienti da fuori. Se si eccettua il fatto che ha tolto dai campi molte famiglie assicurando loro il minimo per la sopravvivenza anche nei tempi più neri, e una discreta attività a osterie e trattorie, la grande fabbrica non ha creato ricchezza. Le merci arrivavano e partivano trasformate senza fermarsi. Indotto zero.
Nel dopoguerra invece le cose sono cambiate e è stato tutto un fiorire di attività artigianali e di piccole industrie, molte delle quali attive ancora oggi. Fino a pochi anni fa, un disoccupato a Fara era una specie di eroe della resistenza (all'omologazione). Ora anche qui ce ne sono un po', non tanti, specie tra i giovani, che però si danno quasi tutti da fare con lavoretti precari. Spesso li cercano anche gli studenti universitari che potrebbero farne a meno, giusto per guadagnare qualcosa da soli.
I contadini, o sono spariti o sono cresciuti. Chi possedeva piccoli appezzamenti ai confini del paese, se non si è fatto incantare dagli spiccioli offerti negli anni '60, ha tratto beneficio dall'espansione. Con il ricavato delle vendite, alcuni si sono riciclati come imprenditori, con buon successo pure; altri si godono giustamente un minimo di agiatezza dopo generazioni e generazioni di miseria, in attesa che ci pensino i figli a prosciugarla in sciocchezze. Le premesse ci sono tutte. Si vive una volta sola, dicono. Così pare. Il cristianesimo è evaporato, come le nebbie che non ci sono quasi più.
Sarà per questo recente benessere che, dopo essere stati sempre ospitali, ora prevalgono quelli che vedono di mal'occhio ogni nuovo venuto. Hanno paura di essere troppo aiutati nell'opera di demolizione.
A parte questo i faresi sono gente pacifica, modesta, ordinata. Asciutta ma disponibile, appena cedono un po' le difese. Con un certo senso dell'umorismo persino, sia pure stringato. Gente solida, concreta. Niente più e niente meno. Sogni, pochi; ambizioni, diffuse ma tiepide, non abbastanza da dannarsi l'anima. Nessun farese si è mai distinto in qualche campo, nemmeno nel male. Non è poco. Anche se, ultimamente, astio e arroganza stanno crescendo come un po' ovunque. L'odio al momento è confinato alla sfera privata.
Di ragioni per stare qui non ce ne sono molte. Eppure sono pochissimi quelli che se ne vanno. Sarà perché ora tutti si possono allontanare quando vogliono e la metropoli è a mezz'ora di strada, traffico permettendo. Ma solo per un po'. Come quel mio amico a cui piace viaggiare e ha tempo e mezzi per farlo, ma resiste al massimo un paio di giorni e poi torna di corsa a casa, a dormire.
Nessun commento:
Posta un commento