Foto di Marcello Buffa con F. Lauretta e F. De Grandi (dett)
Scende i
tre gradini davanti alla casa come se sbarcasse da un elicottero, in fretta,
con la mano sul cappello perché non voli via e le braccia che trattengono
l’impermeabile già chiuso, la testa china meno a ripararsi dall’aria mossa
dalle pale che per la paura che, nonostante siano alte e ben fisse, possano
mozzargliela via di netto. Per strada la gente è esattamente quella che deve
esserci, né più né meno, e fa esattamente ciò che deve fare nel modo in cui
deve essere fatto: con naturalezza. Né si stupisce che per molte ore nella
camera non sia penetrato il benché minimo rumore, come di non aver incontrato
nessuno, per i corridoi e sulle scale, sia al suo arrivo che poco fa, uscendo.
Uscendo dalla camera non si chiedeva più niente, fossero solo domande sul
passato o previsioni sul futuro: esattamente il contrario di ieri notte al
telefono e lungo tutto il tragitto in macchina. Esattamente la stessa cosa
cioè. La macchina è ancora là, sull’altro lato della carreggiata, cento metri
più indietro, senza multe, intatta.
Non si
rimprovera più di aver aderito senza esitazioni, sorpreso di se stesso, a tutte
le richieste di quello sconosciuto che per caso aveva fatto il suo numero nel
cuore della notte; neppure se ne compiace, se è per questo: non avrebbe potuto
fare altro. Che sia veramente morto non cambia niente: è morto, ed è come se
non lo fosse. Morto per niente e per nessuno, nemmeno per lui che ad assistere
alla sua morte era stato espressamente chiamato. Non poteva rimproverarsi di
non aver chiesto aiuto prima né avvisato nessuno poi: era stata una delle
condizioni poste dallo sconosciuto, altrimenti non gli avrebbe dato
l’indirizzo. Chissà se l’aveva già rifiutato a qualcuno, o se proprio il suo
numero era stato il primo ad uscire dalla pressione casuale delle dita sui
tasti del telefono; chissà se qualcuno, chiamato prima di lui, non aveva
riposto la cornetta immediatamente, seccato, o subito dopo, spaventato. Lui
aveva risposto subito, di corsa come sempre non appena il telefono inizia a
squillare; era stato a sentire, aveva abbozzato qualche obiezione ma infine
aveva dovuto giurare, e aveva dovuto ripetere il giuramento ogni volta, ad ogni
nuova condizione. (“Lo giuri!” “Come può essere certo che manterrò il mio
giuramento?” “Lo giuri su ciò che ha di più caro.” “...” “Lo giuri! Lo giuri e
basta.” “Sì, lo giuro.”) Aveva giurato come avrebbe fatto chiunque, e lo aveva
fatto per primo semplicemente perché, adesso ne era certo, era capitato a lui
di essere chiamato per primo: come avrebbe potuto rifiutarsi, qualsiasi uomo,
ad una richiesta come quella? “Sto morendo, non c’è più niente da fare... Venga
da me, non deve fare niente, non la infastidirò con lamenti, non le chiederò
nemmeno un bicchiere d’acqua... Non dovrà consolarmi... nessuna parola. Ho solo
bisogno che qualcuno mi veda morire.” Ho bisogno!
“Va bene,
mi dia l’indirizzo, farò ciò che vorrà senza discutere, starò seduto sulla
sedia e la guarderò senza chiedere niente... L’indirizzo! Vengo subito, ma la
prego, non faccia sciocchezze. Mi aspetti, ci vorrà almeno mezz’ora, abito in
periferia.” “Che sciocchezze vuole che faccia? Non ho deciso io di morire. Sto
morendo e basta. Non mi faccia parlare oltre, per favore, non ce la faccio
più... Ma venga, si sbrighi”, e aveva riposto la cornetta. Le ultime parole un
comando, più che una preghiera, e l’ultimo gesto, quello che forse sarebbe
stato l’ultimo gesto volontario, un gesto minimo, dispendioso quanto inutile in
un certo senso, ma glorioso, anche per questo: di tutti gli interrogativi che
aveva suscitato la telefonata, e che di nuovo lo avrebbero afflitto nel
traffico intenso anche di notte in città, non era rimasta, mentre prima di
uscire si recava in bagno e quindi si lavava e asciugava con cura, come a
calmarsi, le mani, che quella duplice evidenza. “Ordine!”: solo questo riusciva
a pensare, sorridendo spaventato.
Sebbene
non fosse pratico del quartiere, aveva trovato la via con imprevista facilità:
un senso unico con poche vetture a cavallo del marciapiede sinistro, tra le
quali aveva subito parcheggiato anche la sua. Il numero era uno dei tanti di un
lungo caseggiato che occupava mezza via, intervallato ogni venti metri da tre
gradini sormontati da porte identiche che davano in un piccolo atrio privo di
portineria, dalla quale partivano scale che conducevano ai piccoli appartamenti
dei primi piani o alle singole stanze divise da brevi corridoi degli ultimi,
come quella che doveva cercare lui. Le indicazioni erano state chiare, per
fortuna, perché altrimenti, non avendo incontrato anima viva per tutte e cinque
le doppie rampe di scale, avrebbe dovuto bussare, necessità alla cui sola
ipotesi si era sentito in forte imbarazzo, a qualcuna delle molte porte dalle
quali filtravano quasi esclusivamente voci televisive, allegre in genere,
sovreccitate.
La
camera, come preannunciato, era aperta e la lampada sul comodino accesa. Lo
sconosciuto, accuratamente quanto semplicemente vestito, eccetto le scarpe nere
disposte sull’angolo destro dello scendiletto, era sdraiato sopra la trapunta
nella posizione dei cadaveri già composti, la testa rivolta al soffitto, le
braccia allineate lungo i fianchi e le gambe distese. Solo i piedi erano
leggermente divaricati. Entrando, la prima impressione, colpevole, era stata di
essere giunto troppo tardi; non solo, ma che qualcuno lo avesse preceduto,
qualcuno che forse, aveva pensato con subitaneo rancore, era ancora nella
stanza e stava osservando la sua sorpresa, a propria volta meravigliato del
nuovo venuto. Non c’era nessuno, naturalmente: constatò, subito rivolgendo il
rancore contro se stesso, vergognandosi. Aveva allora accennato ad accostarsi
al letto, ma l’altro, aprendo gli occhi senza piegarsi a guardarlo, gli aveva
ricordato i patti. “I patti!”, aveva pensato come ad annullarli, tra l’ira e la
pietà, o l’angoscia; ma si era fermato.
L’uomo
non era vecchio, quindici-vent’anni più di lui al massimo, e i suoi lineamenti,
come il suo corpo, non presentavano i segni di nessuna visibile malattia: un
volto liscio, sbarbato da poco, al massimo nel pomeriggio, le guance non
smunte, le labbra non deformate da nessuna smorfia. La sua stessa immobilità,
quieta e non rigida a ben vedere, sembrava quella di uno che stesse riposando
in una posizione un po’ cerimoniosa, ma non scomoda. Il respiro era regolare,
anche se lieve e come separato dai polmoni, senza ripercussioni sul torace. Gli
occhi erano chiusi, e non sarebbero più stati riaperti, nemmeno per rincuorarlo
o per controllare che fosse ancora lì e sveglio.
Lui si
era quindi seduto sull’unica sedia della stanza, una sedia di metallo e fòrmica
verde alquanto scomoda, collocata già rivolta verso il letto accanto ad uno
scrittoio addossato alla parete di fondo, sul quale era poggiato un piccolo
posacenere di plastica, vuoto e pulito. Esattamente di fronte alla porta che
lui aveva subito chiuso a chiave, c’era una finestra sprovvista di tendine
oltre i cui vetri, che dalla sua prospettiva del letto incorniciavano solo il
capezzale con la testa come decollata dello sconosciuto, gli avvolgibili
sembravano più sigillati che chiusi. Non osando fissare direttamente quel corpo
refrattario fin nella sua stessa posizione, per un po’ ne aveva sbirciato
soltanto il parziale riflesso nella finestra, la cui sfocata mediazione lo
rassicurava. Poi i tratti di quel profilo, forse a causa del loro isolamento,
si erano sempre più precisati acquisendo una nitidezza, e quasi una lucentezza,
che avevano finito con l’aumentare la sua inquietudine, tanto da sentirsene
perseguitato.
Si era
perciò deciso ad affrontare quello che credeva il suo vero compito, ma per
tutta la notte quell’assenza di sguardo stampata sul vetro aveva gravato su di
lui, attraendolo con la forza della sua totale estraneità quanto più si
sforzava di abolirla fissandone la fonte, che continuava a giacere impassibile
sul letto; ma quando periodicamente, non riuscendo più a resistere a quella
duplice esclusione, tornava a guardare verso la finestra, quei tentativi di
instaurare con l’immagine il rapporto che il moribondo, con evidente paradosso,
aveva già rifiutato a priori al telefono (“Non dica niente, non mi tocchi, non
si avvicini nemmeno... Ciò che le chiedo è solo di essere presente, per il
resto faccia ciò che le pare, purché non mi concerna...”), lo lasciavano ancor
più frustrato, accrescendo in tal modo la sua inquietudine che, per essersene
l’origine resa inaccessibile, si dilatava progressivamente a tutto ciò che i
suoi sensi e il suo pensiero potevano raggiungere alla ricerca di un po’ di
pace.
Dell’uomo
sul letto cominciava allora a curarsi sempre meno; il disagio e la paura che
all’inizio lo avevano spinto a cercare nella camera qualche indizio da cui
dedurre notizie sulla sua persona, sulla verità della sua condizione e sulle
motivazioni della sia richiesta (ma naturalmente non aveva trovato nulla:
nessun foglio sul comodino, sul tavolo che lui continuava a chiamare scrittoio
o nel portarifiuti; nessun oggetto sugli scaffali e sul ripiano del lavandino;
un’anta dell’armadio era stata lasciata apposta socchiusa per segnalare che non
c’erano valigie né indumenti, e certo neppure nelle tasche del vestito si
sarebbe trovato qualcosa, men che meno documenti), si erano lentamente
affievoliti, ma se non aveva più bisogno di rassicurarsi con quelle banali
curiosità, non per questo si sentiva più capace di sostenere la situazione in
modo appropriato con la dovuta continuità. Ma c’era un modo appropriato di
sostenerla? Le istruzioni ricevute, anche se non le avrebbe mai violate, erano
solo un insieme di divieti che delimitavano uno spazio vuoto, bordi che
tuttavia, mentre gli fornivano un appiglio, qualora avesse insistito a farvi
ricorso lo avrebbero trattenuto per sempre al di qua dell’esperienza che
credeva gli fosse destinata. E invece la sua meta, se mai una ce n’era, non
poteva che trovarsi in qualche punto di quello spazio non segnato da alcuna
direzione ed ora anche privo di quello che supponeva il suo nucleo buio di
gravità, il suolo contro il quale, quando avesse trovato il coraggio di
lasciarsi cadere, avrebbe potuto infine posarsi, anche a costo di infrangersi,
cioè la sua stessa convinzione di essere seduto di fronte ad un uomo che stava
per morire, o meglio: che stava morendo.
Non che
in esso ravvisasse un simulatore, come aveva per un attimo sospettato non
appena, entrando, lo aveva visto sdraiato tutto ben composto sopra la trapunta,
quasi che qualcuno avesse inscenato una truce pagliacciata al solo scopo di
coprirlo, chissà perché proprio lui, di ridicolo: era la sua situazione ad
apparirgli sempre meno tragica e ad assumere anzi un che di patetico. Era stato
chiamato in questa camera, lui che per caso o per inconfessata volontà era
sempre giunto tardi anche alla morte dei suoi cari, non per vedere una storia
compiersi, la fine di qualcosa che aveva avuto un inizio o che fosse situabile
in un contesto di qualsiasi genere, bensì semplicemente il morire di un uomo
che per lui esisteva e sarebbe poi esistito solo per il morire al quale era
stato chiamato ad assistere, il morire in
sé, se qualcosa del genere è possibile, nella sua purezza riluttante ad
ogni sentimento (“E soprattutto, le ripeto, non cerchi di aiutarmi o di
consolarmi... Non mi compatisca, non cerchi di capire, non si identifichi...
Guardi e basta.”), come un animale ne vede morire un altro di un’altra specie,
ma con la consapevolezza dell’uomo, che si presume differente, e invece si
ritrovava spettatore del povero tentativo di un povero essere che si sforzava
di raggiungere qualcosa dalla quale sarebbe stato per sempre escluso, qualcosa
che la sua stessa messinscena probabilmente gli avrebbe rivelato, se solo avesse
potuto vedere il proprio profilo nel vetro senza distruggerlo nell’atto di
guardare. Ciò che credeva di star per raggiungere morendo era già là, ed egli
si stava solo dibattendo a cercare una soglia che era condannato a mancare per
sempre per il semplice motivo che, anche ammesso che esistesse, una strada che
potesse condurvi non c’era, o che comunque a lui, e forse a lui solo, era
preclusa.
Ma forse
era proprio a questa eventualità che aveva pensato telefonandogli: se quella
strada non poteva percorrerla lui, non era escluso che fosse invece accessibile
a qualcuno che, non avendo con lui rapporti che ne turbassero l’attenzione, del
suo scacco fosse testimone. In questo caso l’appello non era stato una
richiesta, il richiamo ad una responsabilità o in qualunque altro modo si
volesse poi specificarla, , né l’ammissione di una mancanza, bensì l’effetto di
una sovrabbondanza estorta al più essenziale venir meno, uno dono. Una
vocazione.
Questo
però gli viene in mente solo adesso, adesso che sta guardando compiaciuto
all’imbottigliamento della corsia che porta in centro mentre lui scivola
tranquillamente verso casa; si abbatte su di lui come una lama che gli toglie
il respiro e quasi lo fa sbandare. Nella camera invece la percezione
dell’inutilità di quel dibattersi gli aveva ridato l’abituale senso di
sicurezza che già mentre rispondeva al telefono aveva perduto. Si era quindi
finalmente rivolto allo sconosciuto col distacco che supponeva gli fosse stato
richiesto e lo aveva visto, per la prima volta, libero dall’ansia e da
qualsiasi pensiero, come quel sereno moribondo che era: un uomo che,
semplicemente, trapassava. Tutti i
sensi di quella che fino a quel momento aveva ritenuto, più che un eufemismo,
un’ignobile menzogna, si erano allora materializzati davanti a lui ed egli
aveva infine capito, con indicibile sollievo, che ciò a cui stava assistendo
non era che la conferma della possibilità di quello che, ora lo sapeva, era
sempre stato il suo sogno più grande, taciuto persino a se stesso; meglio
ancora: che stava assistendo non ad una morte qualsiasi, e nemmeno ad una morte
simile a quella che egli aveva sempre auspicato per sé, ma precisamente alla
propria morte desiderata.
Mentre
indugiava su questa rivelazione, con gesto automatico, si era tolto le sigarette
di tasca e ne aveva accesa una, ma il piacere della prima boccata si era
immediatamente convertito nella consapevolezza della propria irredimibile
indegnità. Aveva spento in fretta la sigaretta e, biascicando una specie di
preghiera di cui dopo si sarebbe sgradevolmente sorpreso, era tornato a
guardare verso il letto, ma subito si era accorto che lo sconosciuto nel
frattempo era morto. Era morto veramente, ed egli, proprio quando seguendo alla
lettera le sue istruzioni si era convinto di aver conseguito la meta che gli
era stata indicata, o quanto meno di essere giunto alla sua soglia, non aveva
assolto invece quell’unico compito per il quale era stato chiamato. Vedendo non
solo la propria morte, ma la possibilità di una morte ideale in quella
dell’altro, l’aveva mancata, mancando contemporaneamente anche la propria, e di
entrambe era rimasta la realtà di una totale, ingiustificabile desolazione.
Che fosse
veramente morto, non aveva nemmeno avuto bisogno di verificarlo da vicino; gli
era bastato scorgere la testa leggermente inclinata, la bocca socchiusa e gli
occhi finalmente spalancati verso la propria immagine, in una duplice assenza
di sguardo che il vetro restituiva solo all’estraneo che lo fissava attonito
per evitare un’ultima volta l’ingombro del corpo: non lo avrebbe toccato,
avrebbe lasciato tutto com’era al suo arrivo. Si era quindi vuotato il
posacenere in un fazzoletto, lo aveva ripulito e se n’era andato.
Ora,
mentre passa tra i primi campi della periferia, pensando a quella testa, la
immagina rivolta verso Oriente, come secondo tradizione chi è pronto per
l’ultima chiamata, ma di poco, come chi sa che non verrà, eppure le lascia uno
spiraglio aperto. Scuote il capo, lo ruota sul collo indolenzito e guarda gli
arbusti che costeggiano la strada. Sul bordo di un’ampia curva sopraelevata, e
poi ancora per un centinaio di metri, colonne e colonne di moscerini, immobili
e vibranti, scandiscono l’architettura invisibile dell’aria. A casa prepara un
caffè; quindi va in camera, si sdraia sul letto e accende una sigaretta.
Tra una
fumata e l’altra, ogni tanto l'occhio scivola sulla propria testa ritagliata dal vetro della
finestra.
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