Angela mi chiede se vado a prenderle una coca. Le dico di
aspettare cinque minuti che sto finendo di leggere un racconto, il primo che mi
piaccia veramente del libro che ho iniziato ieri sera. Suona il telefono: è per
lei. Io finisco di leggere, le chiedo se una lattina le basta. Due è meglio, mi
risponde. Prendo un sacchetto di cellophane dallo sgabuzzino per non tenere in
mano le lattine, che di sicuro saranno gelide. Metto il cappotto e esco.
Fuori non fa freddo, la sera è limpida, senza vento.
Passato il cancello, mi trovo davanti il prato che costeggia la strada e mi
sembra più grande del solito. Sarà il buio, le luci dei lampioni o quelle sullo
sfondo: non so, fatto sta che mi pare più grande e più bello, con gli alberi
che ne delimitano tre lati, scuri ma tutti perfettamente distinguibili. Sul
prato si diffonde, sfumando, la luce dei lampioni che costeggiano la strada
dalla parte delle case. Villette, in genere, a parte il mio condominio. La
strada è vuota, la roggia alla mia destra è asciutta. L’auto della vicina è
ferma davanti al suo cancello, spenta, ma coi lampeggianti accesi. Il loro
pulsare silenzioso mi fa percepire il silenzio che emana il mio quartiere. Da
alcune finestre viene una luce che non sembra servire a nessuno: nessuno si
vede nelle stanze, non una voce arriva sulla strada, neanche quella della
televisione. Le luci se ne stanno lì, per conto loro, buone buone. Mi
rispettano, accompagnano discrete i miei passi, e io gli sono grato. Mi volto
verso il prato, nella luce che sfuma guardo le erbe più vicine, cercando di
distinguerne i colori: verde scuro? nero? rosso smorto? ocra spento? Non ci
riesco. Dietro invece è tutto buio, gli alberi sono neri; nero è il profilo
dell’unica casa che vedo alle loro spalle; anche il cielo sopra di loro è
scuro. Di uno scuro più luminoso però.
In fondo alla via, davanti a me, c’è la cascina al cui
angolo è situato il ristorante, con barettino annesso. I tavolini alla sua
destra sono vuoti: non è più stagione. Davanti ci sono due enormi pioppi i cui
tronchi si sono ormai fusi alla base, tanto da sembrare un’unica pianta con due
grandi diramazioni che formano una gigantesca, bellissima chioma le cui foglie
residue, grazie alle luci della strada e del ristorante, posso distinguere ad
una ad una. Le luci dei lampioni sono di un giallo intenso, innaturale; quella
del ristorante è bianca. Le macchine parcheggiate davanti alla cascina sono
tutte in ombra, nere.
Entro nel bar, chiedo due lattine di coca. Il proprietario
le mette sul banco, io prendo dal portafoglio centomila lire e chiedo se ha da
cambiare. Sì, ma non ha nessun sacchetto per le lattine. Non importa, l’ho
portato io. Metto una mano in tasca, estraggo il sacchetto e quando lo apro
scopro che sono due, sottili, uno infilato nell’altro. Ho esagerato, come
sempre, senza accorgermene. Mentre ne rimetto uno in tasca, un signore da un
tavolo mi saluta. Rispondo con piacere, poi intasco il resto, metto le lattine
nel sacchetto, infilo la mano nel buco dei manici e poi in tasca, lasciando che
il sacchetto penzoli e mi batta contro la coscia, e esco.
La strada è ancora deserta, ma ora la vedo nella direzione
opposta. Sulla mia destra, ai bordi del prato, due coppie di ciliegi distanti
un centinaio di metri l’una dall’altra, anch’essi con molte foglie residue e
vizze. Mi sembrano diversi dal solito, poi mi accorgo che non c’è più la
recinzione a proteggerli: ecco perché il prato mi era sembrato più grande.
Guardo anche il prato in modo diverso. In fondo, a destra, gli stessi alberi di
prima, ma alle loro spalle, lontano, ora vedo le luci di alcuni caseggiati che
si stagliano sulla linea mossa ma netta della riva destra del fiume, più alta
di quella del mio paese, a un paio di chilometri di distanza. L’aria è pulita,
il cielo è senza stelle, molto alto. Se
ci sono nubi non le vedo, e comunque non contano.
Sono le 18,30 del 2 novembre 1997. Sto bene, anche se
prima, all’andata, guardandomi attorno e poi fissando i pioppi, nel fare la
stessa constatazione ho pensato: e io devo morire. Senza amarezza però. Solo
con un pizzico di rimpianto, come è comprensibile, ma senza strascichi.
Quietamente. Alla mia sinistra i fari dell’auto della vicina continuano a
lampeggiare in silenzio e per nessuno. Guardo il fosso e poi l’erba sulle rive.
Raggiungo la curva che conduce al cancelletto del mio condominio, aperto come
sempre. Davanti ci sono auto parcheggiate su entrambi i lati della strada. In
una, la ragazza del quinto piano sta al buio con un amico. Ne sento uscire una
musica sommessa, poi delle risate.
Angela mi sta aspettando e fa scorrere la serratura mentre
io sto girando la chiave nella porta. La saluto e metto il sacchetto sul tavolo
della cucina. Lei estrae una lattina e parla della telefonata appena finita.
Dico qualcosa anch’io. Ci sorridiamo. Poi lei si versa la coca e io mi dirigo
verso lo studio. Apro la porta, la richiudo subito per non fare uscire il fumo,
accendo la lampada, mi siedo al tavolo e scrivo.
Scrivi come un osservatore attento che riflette su ciò che vede. Credo che faresti la gioia di un cieco se tu traducessi nella scrittura per non vedenti i tuoi racconti di questa tipologia. Ciao Valerio
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EliminaSai Valerio, ho letto il racconto molti anni fa a Prato e tra i presenti c'era anche una donna cieca, che mi ha detto proprio che le era sembrato di vedere e sentire tutto, e di essere accanto a me lungo tutto il percorso. Proprio come hai detto tu! Grazie. Ti abbracio, Luigi
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