La prima volta che ho letto questo
libro, da poco tradotto per Theoria con il titolo di Philip Dick. Una biografia (1995), è stato solo per Dick, e
confesso, da frequentatore alquanto deficitario del genere biografico, di
averlo letto volentieri ma un po’ disorientato, perché non aveva molto delle
classiche biografie da una parte, ma nemmeno di una tradizionale monografia
critica dall’altra: la vita mi sembrava troppo narrata, con intrusioni del
narratore che peraltro non mi dispiacevano, mentre il discorso critico era
troppo incline al biografico e alla psicologia, cioè a usare disinvoltamente il
dato fattuale per l’interpretazione dei testi e viceversa i testi come
materiale per la ricostruzione della complessa psiche dell’autore e dei suoi
conflitti.
La seconda volta invece, pur senza
trascurare quanto diceva di Dick anche alla luce di una conoscenza più estesa
della sua opera, l’ho letto vari anni dopo per il suo autore, attento a quanto
rivelava di Carrère, del suo modo di procedere, cioè di scrivere, pensare e
proporsi: come se l’oggetto del libro fosse, sia pure indirettamente, lui, cioè
una figura (persona, autore e personaggio) che nel frattempo avevo visto
delinearsi nei suoi romanzi successivi, e a situarla nel complesso della sua
opera, a cui si è da poco aggiunta anche la raccolta di articoli, reportage e
saggi Il est avantageux d’avoir où aller (P.O.L., 2016), che tra
l’altro contiene anche l’introduzione alla traduzione francese di tutti i
racconti di Dick (Nouvelles, Denoël, 2000) e alcune indicazioni relative alla nascita di
questo libro.
Sotto questa nuova lente, ciò che nella
prima lettura mi era parso spaesante è diventato invece non solo più visibile e
meglio situabile, ma anche più significativo. Fermo restando che il libro mi
era piaciuto prima e mi è piaciuto altrettanto, se non di più, dopo.
Questo cambio di prospettiva è
segnalato ora anche dalla nuova edizione (http://www.adelphi.it/libro/9788845930874), meglio tradotta per Adelphi da Federica e Lorenza Di
Lella e più accurata nei riferimenti della precedente comunque benemerita, che
ripristina il titolo originale Io sono
vivo, voi siete morti, che richiama Dick solo a chi lo conosce già bene (la
frase è tratta da uno dei suoi capolavori, Ubik)
mentre agli altri comunica solo come si tratta di un’opera di Emmanuel Carrère,
il cui oggetto è quindi secondario.
Anche alla luce dei libri successivi, e
soprattutto di quelli che come Limonov
più si avvicinano alla biografia, sia pure declinata in una forma molto
originale che anzi ora costituisce una delle cifre di riconoscimento di
Carrère, questo libro appare come una specie di momento di passaggio, di
incubatore di qualcosa ancora a venire, ma già compiuto di per sé. Dick
infatti, nonostante lo scrupolo documentario che il genere esige, vi appare
quasi come un personaggio di romanzo. E non tanto per la sua vita, che pure di
tratti romanzeschi non ha difettato (morte precocissima della gemella Jane che
lo ossessionerà fino alla fine, droghe e anfetamine assunte a manciate, serie
di matrimoni falliti in quella che Carrère chiama “una lunga carriera di
monogamo compulsivo”, ricoveri in clinica psichiatrica, tentativi di suicidio,
fino alla “rivelazione” della realtà “vera” del febbraio ‘74 e alle conseguenti
illuminazioni-allucinazioni-rimuginazioni e compulsioni degli ultimi anni:
sebbene in fondo, come tutti gli scrittori, la maggior parte del tempo Dick
l’ha passata da solo, a leggere e scrivere, anche nei periodi in cui si
circondava di gente di ogni risma, tossici, devianti, delinquenti, oltre che di
amici e colleghi amanti del cazzeggio e dell’interminabile sofisticheria a
perdere), ma per il trattamento che le riserva Carrère. Se infatti si confronta
questo libro con la classica biografia di Lawrence Sutin (Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, trad. A. Marti,
Fanucci, 2001), che è stata uno dei riferimenti anche per lo scrittore
francese, si notano subito alcune divergenze decisive.
Sutin lascia parlare quanto più
possibile Dick, attraverso lunghe citazioni delle lettere, dei saggi e degli
autocommenti tratti da quanto conosceva delle 8000 pagine dell’Esegesi, ora in parte anche edite, e da
poco tradotte in italiano da Maurizio Nati, sempre per Fanucci (vedi quanto ne
scrive su doppiozero Antonio Lucci: http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/lesegesi-il-vangelo-secondo-philip-k-dick), così come ricostruisce nel dettaglio i momenti della sua
vita, dà un nome, finché possibile e opportuno, a tutte le persone che in
qualche modo hanno avuto a che fare con lui e segue i suoi spostamenti di luogo
in luogo, i suoi umori e amori di giorno in giorno, senza trascurare nessuna
notizia o aneddoto; Carrère invece traspone ciò che ha letto (e immaginato, per
empatia e consonanza di sentire e di intenti) nella propria voce e gli impone
il proprio timbro e ritmo.
Chi legge sa, o presume con buona
approssimazione, che le cose narrate sono vere, o basate su documenti e
testimonianze, ma ciò non impedisce che pian piano si delinei una storia, nella
quale esperienza, pensieri e ricordi e temi delle opere si amalgamano in una
corrente mossa e variegata ma unitaria. Carrère riracconta ciò che Dick e chi
lo ha conosciuto hanno scritto e detto, portando però tutto nel solco del suo,
di racconto, adattando le citazioni al flusso del discorso o drammatizzando
eventi e momenti decisivi, dubbi e riflessioni, tormenti esistenziali e
mistici, psicosi e razionalizzazioni, in una narrazione a volte partecipe e
altre distaccata, e in dialoghi spesso brillanti e divertenti.
Il dettaglio e l’aneddoto sono, come
nei “veri” romanzi, funzionali alla delineazione del personaggio e alla sua
storia, mentre Sutin, anche a costo di annoiare, vuole essere il più completo
possibile, senza omissioni o buchi, spingendo lo sguardo microscopico a focalizzare
ogni minimo evento o incontro, come se lì potesse nascondersi la verità,
trascurando l’ammonimento più volte ribadito da Dick, che al massimo quella
verità sarà sempre e solo la penultima (come ha intitolato uno dei suoi
romanzi, peraltro non tra i migliori). Carrère, dal canto suo, non si cura dei
buchi e dei salti, perché raccontare è legare e riempire, connettere e saldare
(raccontare come ha scelto di fare lui, naturalmente; anche se forse è sempre
così, perché anche il silenzio e il bianco, se da una parte disseminano e
disperdono e separano, dall’altra creano uno spazio comune, lasciano che il
legame si istituisca quasi da solo, tessono fili invisibili e per questo più
saldi), e quindi per definizione i buchi non ha bisogno di colmarli, perché non
lì ce ne sono.
In compenso Carrère, dal momento che si
rivolge a un pubblico francese (ma vale anche per il lettore italiano) che in
gran parte lo ignora, dà più informazioni sul contesto politico e
socio-culturale, come i buoni realisti di una volta, esposte con lo stesso tono
colloquiale e ironico che permea anche molti passaggi della biografia vera e
propria. Riserva inoltre molto spazio a genesi, trama, con bellissimi riassunti
che sono già interpretazioni e racconti a sé, e analisi di alcuni libri, senza
per forza sentirsi in dovere di passarli in rassegna, o solo nominarli, tutti.
È questa economia dei riferimenti, questa esenzione dalla completezza, che fa
capire come l’autore più che uno studioso sia uno scrittore, preoccupato meno
di riferire eventi che di costruire una storia indagando a questo fine il
rapporto vita–società–opere fin dentro i temi in esse trattati.
È una forma di libertà, che scrivendo
questo libro Carrère conquista. Esso segna infatti il suo ritorno alla
scrittura, dopo anni di totale siccità, senza le restrizioni (soprattutto
interiori) che, prima in seguito allo scontento per Fuori tiro (1998), il romanzo che aveva fatto seguito
all’eccellente riuscita di Baffi
(1986), e poi in concomitanza con la crisi religiosa dei primi anni ’90 di cui
parla in Il regno, aveva ostruito
ogni suo impulso “creativo”. Una crisi non di scrittura, tuttavia, perché
durante questo periodo commenterà quotidianamente il Vangelo di San Giovanni
fino a riempire una ventina di quaderni: cosa che certamente avrà favorito la
sua comprensione della furia di scrittura che prende Dick dopo i fenomeni,
allucinazioni o altro che siano stati, del febbraio-marzo 1974, che poi egli
cercherà di capire, in un delirio a volte pasticciato ma più spesso lucidissimo
di ipotesi e controipotesi e di interpretazioni antagoniste eppure conviventi,
nei romanzi dell’ultimo periodo (il capolavoro Un oscuro scrutare e la cosiddetta Trilogia di Valis) e appunto la sterminata Esegesi.
Impostare in questo modo la biografia
permette a Carrère di scrivere senza farsi troppi problemi qualcosa di molto
simile a romanzo tradizionale, con tanto di inizio e fine, personaggi di vario
spessore, psicologia, finestre sociali ecc., con la leggerezza di chi sa che da
una parte può farlo perché è vincolato a dei dati e alle esigenze di un genere
che impone determinate regole, mentre dall’altra sa pure che, in un certo
senso, proprio perché si inserisce in un genere codificato, questa piega
romanzesca può risultare paradossalmente trasgressiva. Così Carrère può
immaginare senza inventare di sana pianta, abbandonarsi a deduzioni e
supposizioni, sollecitare il lettore a fare altrettanto e cercare di
coinvolgerlo creando attese, facendogli domande o, con prefigurazione dei
risvolti performativi che diventeranno ricorrenti in seguito (come in Facciamo un gioco, poi inserito in La vita come un romanzo russo),
proponendogli giochi e test: può
insomma sperimentare una inedita disinvoltura di tono e escogitare e mettere a
punto alcune delle procedure che poi contraddistingueranno gran parte dei suoi
libri successivi.
Ma queste sono in un certo senso delle
considerazioni a posteriori: quello che soprattutto gli interessava nel momento
in cui decise di affrontare questo progetto, era piuttosto di scrivere proprio di
Dick, uno degli autori fondamentali per la sua formazione (Carrère lo considera
“il Dostoevskij del XX secolo”, e non è il solo), e che gli avrebbe ispirato,
direttamente o meno, alcuni dei suoi temi più peculiari, che infatti si possono
ritrovare già nelle sue primissime opere, a cominciare dal quello dell’identità
e del problema di cosa è vero e cosa falso, di cosa è reale e cosa illusione,
ma anche di come l’illusione influisce sulla realtà, e di chi o cosa la genera
e la gestisce.
Già nei primi romanzi Carrère, per sua
esplicita ammissione, è come ossessionato dalla paura di non essere se stesso
(come Dick dalla morte della sorella gemella e dal dubbio di non essere lui
invece il morto che sta dall’altra parte dello specchio), e di essere deprivato
della propria esistenza dalle consuetudini o da altre circostanze e pressioni
sociali, come per esempio l’indifferenza in cui vive e la scarsa attenzione che
il soggetto riceve anche da coloro che più gli stanno vicini (Baffi). La verità, a partire da quella
relativa a se stessi, vacilla e diventa indecidibile. Ci si accorge di vivere
in un mondo che non è quello comune agli altri, ma che pian piano si scopre non
coincidere nemmeno con quello che si credeva proprio. Se non si sa cosa è vero,
è difficile anche determinare la natura del male, che pure ci attornia e di cui
magari siamo portatori; la materia perde consistenza e si sfalda, in preda
all’entropia, e tutto diventa virtuale e si moltiplica in varie realtà
possibili, che seguono strade completamente divergenti a partire dal minimo
scarto che le potenzialità insite in ogni atto spalancano.
Si
tratta di un discorso dagli ampi risvolti teologici (“Da sempre Dick cercava di formulare quest’unica domanda,
quella che fa esplodere Dio o Lo costringe a rivelarsi” – p. 195) e mosso da
una radicale e onnicomprensiva (e in quanto tale paranoica) ricerca di senso,
che certo Carrère, specie in quel periodo, non poteva sentire estranea, ma che
prefigurava con grande preveggenza alcuni scenari che poi sono diventati la nostra
realtà quotidiana: “si può dire”, scrive nella citata prefazione ai racconti, “che viviamo
nel mondo di Dick, questa realtà virtuale che un giorno è stata una finzione,
l’invenzione di una specie di gnostico selvaggio, e che ora è il reale, il solo
reale”. Dick peraltro non si limita a questo,
ma (come ha mostrato Gabriele Frasca in quella che è la più bella, acutissima,
per quanto a volte stilisticamente un po’ irritante, monografia critica
italiana sullo scrittore americano: il deleuze-guattari-žižekiano L’oscuro scrutare
di Philip K. Dick, http://www.meltemieditore.it/Scheda_libro.asp?Codice=Y055), arriva a descrivere nel dettaglio, nelle storie stesse
che narra, anche alcuni meccanismi profondi della psiche e della realtà
contemporanea, dai rapporti produttivi e sociali all’instaurarsi di nuovi tipi
di poteri sovranazionali e nuove forme di gerarchia, fino alla sorte degli
individui, alla dissoluzione della loro personalità e alla perdita di qualsiasi
valore e significato dei loro ruoli.
Quanto
più tende all’entropia, tanto più sembrano aprirsi nella realtà percorsi
alternativi, che inducono a dubitare anche retrospettivamente ciò che si dava
per assodato. Mondi possibili e ucronie vanno di pari passo, gli uni non sono
che il risvolto delle altre. Alle storie alternative del futuro (ma anche del
presente, realissime, che Dick afferma di conoscere nel famoso discorso di Metz
del 1977), si affiancano quelle che riscrivono il passato. Se le prime sono uno
degli oggetti della fantascienza classica, Dick riserva ampio spazio anche
all’ucronia. La più nota è il grande romanzo che l’ha fatto conoscere, L’uomo nell’alto castello (noto anche
come La svastica sul sole), che narra
una storia in cui i nazisti e i giapponesi hanno vinto la seconda guerra
mondiale e si sono spartiti il territorio degli Stati Uniti; ma anche Carrère
si è interessato a questo argomento, a cui ha dedicato uno studio del 1987, Le Détroit de Behring, non tradotto in italiano. Lo stretto di Bering è la voce
che nell’Enciclopedia Sovietica staliniana sostituisce quella dedicata a Berija
dopo la sua espunzione, simbolo di tutte le cancellazioni che il totalitarismo
opera per riscrivere la storia eliminando non solo i suoi oppositori ma ogni
loro traccia, fino allo stesso nome proprio.
Il
totalitarismo è anche una delle tematiche che più hanno appassionato (e
intimorito: fino a essere convinto di viverci dentro, specie dopo l’avvento al
potere di Richard Nixon) Dick, che “nel leggere Hannah Arendt, era stato molto
colpito da un’idea: che lo scopo degli Stati totalitari fosse quello di
tagliare fuori le persone dalla realtà, di farle vivere in un mondo fittizio.
Gli Stati totalitari hanno dato corpo a una fantasia: la creazione di un
universo parallelo”.
E che altro è un’ucronia se non la
“descrizione metodica di universi credibili e realistici nei quali la Storia ha
seguito un corso diverso dalla nostra in seguito a un evento fondatore”,
secondo la definizione di Eric B. Henriet, citato da critico canadese Mario
Touzin (http://www.memoireonline.com/01/08/881/m_art-bifurcation-dichotomie-mythomanie-uchronie-emmanuel-carrere.html).
Ma cosa succede quando l’ucronia non è
più solo fittizia, ma in tutto e per tutto reale?
E cosa succede quando queste false
realtà si impongono fino a sostituire la “vera” o a convivere con essa? Come
interpretare questi conflitti? Che influsso hanno sugli individui che magari,
dopo aver vissuto innocentemente in una di esse credendo fosse la sola e
autentica, scoprono una crepa, qualcosa che non va, una piccola incongruenza
che mette in questione tutto, come in Tempo
fuori sesto (noto anche come L’uomo
dei giochi a premio, vera fonte di ispirazione di The Truman show di Peter Weir)?
Il conflitto delle interpretazioni, da
esterno, tra gruppi e classi e individui, si trasferisce anche all’interno, tra
io “parziali” e in rapida eclisse anche quando riescono ad avere il
sopravvento, perché ogni egemonia conquistata lascia dei residui e non riesce a
eliminare le alternative, che in rapida successione ribaltano le gerarchie, una
alla volta o, più spesso, in compresenza, nella confusione totale delle (di
tutte le) voci. I romanzi di Dick (e il romanzo in genere) sono questa
compresenza, organizzata però, specie attraverso l’adozione di punti di vista
multifocali, e non confusa; ma Dick persona non sempre riusciva a dominarla e cadeva
in sua presa al pari di molti suoi personaggi.
Si scrivono romanzi anche per questo.
L’orizzonte plurale delle alternative nasce da un difetto, dall’insoddisfazione
di vivere una sola vita, o dall‘incapacità di starci dentro stabilmente e di
gestirne la complessità e le contraddizioni, ma attrae anche chi è preda di un
eccesso di vita che non riesce a contenere in una sola. Da un lato scatena il
desiderio di vite multiple, come per alcuni personaggi di Carrère (così come il
desiderio di viverle immaginandole è stato per lui uno degli stimoli a
diventare scrittore): sono una tentazione, o una necessità, un rifugio; ma
dall’altro possono anche essere una condanna, come per Dick e per i suoi
personaggi.
Allo
stesso modo i mondi possibili possono anche rivelarsi non altrettante
opportunità, ma l’inferno. Se tutte le possibilità che si aprono ad ogni
istante e che vengono immediatamente chiuse dall’unico percorso imboccato in
quello successivo, trovassero davvero la loro realizzazione in altrettanti
mondi possibili e paralleli, in altrettante vite, molto probabilmente non
sarebbe l’eternità dei compossibili, l’apertura infinita di tutto a tutto, ma
solo quella della condanna. L’infinito realizzato delle possibilità sarebbe
l’infinito degli inferni. L’inferno infinito.
Dick temeva di essere prigioniero di
questi inferni e di non poterne più uscire, come Carrère ha temuto di restare
prigioniero del mondo da lui stesso ricostruito in L’avversario, ma mentre fino all’ultimo Dick, nonostante a momenti
pensasse di avere ricevuto la rivelazione della verità, ne ha avuto il dubbio e
si è dibattuto in esso lungo tutta la sua sterminata Esegesi, lo scrittore francese non ha cessato di provare a uscirne
affrontando i segreti famigliari e personali più torbidi e censurati nelle
opere successive a questa biografia e insieme andando a vivere nei diversi
mondi che si offrono ogni volta che viene accostata la vita degli altri. A
costo di restavi impigliato, ma anche felice di poterlo fare.
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