a) Il mio amico Federico mi chiede di scrivere un racconto sull’acqua.
Non mi piacciono le cose che,
anche prese alla lettera, sono già metafore. Tanto più che, in genere, sono
quelle di cui è impossibile fare a meno. E io non sono mai riuscito ad
accettare fino in fondo che di qualcosa sia impossibile fare a meno. Ma
ovviamente, poiché di farne a meno è impossibile anche a me, ne sono attratto
nella stessa misura in cui ne diffido. Ne diffido non solo perché dipendo da
esse, ma anche perché mi sfidano su un terreno troppo vasto, che non posso
controllare, dove rischio di perdermi ancora prima di riuscire a incontrarle. E
mi attraggono per lo stesso motivo. La loro forza sta nel fatto che, quando
credi di averle trovate, ti sfuggono da tutte le parti, come acqua dalle mani,
ogni volta che cerchi di afferrarle. E del resto anche afferrarne un lembo,
accontentarsi di coglierne un aspetto, oltre che insoddisfacente, è ancora
cedere al loro potere, restarne prigioniero, nonostante che spesso quanto ci è
concesso non si riduca che a questo. Ma è appunto questo che mi fa
imbestialire. L’onnipotenza o niente: mi dico consumando l’obolo che mi viene
distrattamente gettato tra i piedi. E intanto il nodo di diffidenza e
attrazione si stringe sempre di più e loro si stagliano sempre più gigantesche
davanti a me. Beffarde. Ben mi sta.
Ne diffido e mi attraggono perché
mi fanno paura. Ho paura della paura, ma a volte mi piace. Così a volte
distolgo lo sguardo, fuggo; altre invece resto medusato, incapace di fare
alcunché ma con tutti i sensi acuiti, con la testa percorsa da innumerevoli
piccole scariche che schizzano incontrollabili in ogni direzione. In questi
casi prima cerco di prestare attenzione a tutte, poi, chissà perché, resto come
attaccato a qualcuna, preso nella sua corrente, e così, senza accorgermene,
comincio a muovermi, e quando me ne accorgo sono già abbastanza avanti da non
sapere più come, e a volte da non volere, tornare indietro. Allora non mi resta
che lasciarmi trascinare da esse, attraversarle e esserne attraversato, in una
specie di panico attivo. Sono tutto meno che un eroe: lo faccio perché devo
farlo, perché senza di esse non si vive (non si pensa, non si parla). Infatti
queste sono le cosiddette cose elementari.
Più una cosa è elementare, meno è
possibile prenderla alla lettera. Meno puoi prendere alla lettera una cosa, più
difficile diventa parlarne. Si potrebbe pensare il contrario: più immagini e
connessioni una cosa suscita, più spazio hai per muoverti e più materiale a disposizione.
Ma sarebbe un errore, almeno per me. Più una cosa è elementare e meno è a tua
disposizione: semmai sei tu a disposizione sua. Una cosa elementare non è un
materiale. Né uno spazio libero in cui muoverti: meno sono visibili i vincoli,
più forti sono e più facilmente ci si ritrova ingorgati. Lo stesso avviene con
le parole.
Non considero il passato (le
immagini) come un magazzino teatrale al quale attingere allegramente ciò che mi
serve né le parole come altrettanti costumi da indossare, come faceva
Rembrandt, per rappresentare ciò che voglio, ammesso che i costumi a Rembrandt
interessassero veramente. Anche se poi si finisce per farlo comunque; ma non è
una scusa. E poi io non sono Rembrandt. Piuttosto preferisco immergermi e
percorrere tutte le strade, senza darlo a vedere (senza citare: allora le uso
anch’io come costumi per nascondermi, o meglio come falso bersaglio per
scremare i distratti, quelli il cui sguardo scorre sulle parole come l’acqua
verso valle), per cercare di tracciarne un’altra, se possibile. E quest’altra
deve partire da me, dall’esperienza, poca o tanta che sia, che io ne ho, della
quale ovviamente le immagini e le parole fanno parte.
b) Dichiaro che è
impossibile. Poi lo scrivo.
A cominciare dalle immagini invece
non si finisce più. Un’immagine non è niente da sola: anche una bella immagine,
per quanto ci sia chi per essa afferma di essere disposto a sacrificare
parecchio, se non tutto. Ma allora, non è più l’immagine che conta, è
l’ossessione. Ammesso che dica il vero, e che non si inganni sulla verità di
ciò che dice. Comunque con l’acqua è impossibile persino cominciare. O si è
sempre già cominciato.
L’acqua è ovunque, dal poema di
Gilgamesh e dalla Genesi a tutte le cosmogonie, dall’Iliade alla mia lista
della spesa (acqua minerale non gasata, acqua demineralizzata per il ferro da
stiro), dalle acque che si sono rotte perché io potessi nascere a quelle che
rilascerò alla mia morte. Non ci sono vie preferenziali per attraversare
l’acqua. A parte le correnti, i venti e il calore, cioè qualcosa che è in
relazione con l’esterno, su cui però anch’essa influisce. L’acqua è ciò che
attraverso senza tracciare strade e che mi attraversa lungo strade che ignoro.
Mi avvolge e la avvolgo. Mi contiene e la contengo.
Io sono fatto d’acqua, ma lo so
davvero solo quando ho sete e sudo. Quando ho sete bevo. E io devo bere molto,
poiché soffro di coliche renali. Comunque bevo, e mi piace che l’acqua sia
buona.
L’acqua che bevo deve essere pura.
Cioè quasi pura. E questo “quasi” dell’acqua mi piace molto: quasi pura perché possa berla, quasi trasparente per vederle attraverso
vedendo anche lei. L’aria non la vedo, se non raramente: la sento, la respiro;
l’acqua la vedo sempre. (Il mio amico Aurelio mi dice che la trasparenza di una
cosa le deriva dall’essere composta di atomi che sono al nostro occhio
invisibili e perciò non si manifestano come colore ma acquistano solo un valore
di brillanza.) L’acqua pura non
esiste, deve essere distillata apposta. L’acqua non esiste pura: anche la più
buona deve contenere dell’altro. Pura, l’acqua è dannosa, per il mio organismo
quanto meno. E se non dannosa, poco buona. Perché mi purifichi, deve essere quasi pura.
L’acqua piovana invece non è buona
da bere; neanche quella del fiume lo è, se non vicino alle sorgenti. Non è
buona l’acqua che scende, lo è quella che sale. Ma prima di salire deve essere
scesa, deve essersi resa invisibile passando attraverso la terra, che non è
buona. L’acqua filtra attraverso la terra, scende piano, paziente, finché non
trova un fondo, il suo. Lì si deposita e si accumula; quando il livello è
troppo cresciuto, lentamente sale verso la superficie o lentamente scivola
verso un altro fondo collegato al primo: arrivata lì, è buona. Ma ci vuole
tempo. È da lì che bisogna farla salire per poterla bere. Se invece sale troppo
allagando il terreno, bisogna prosciugarla.
Quando ho bevuto, l’acqua si
distribuisce nel mio corpo e poi ne fuoriesce. Tutta, o quasi tutta. Perdo
acqua in continuazione, di solito senza accorgermene. Evapora. Mi piacerebbe
vedere il mio corpo evaporare. Qualche strumento in grado di riprendere il
processo ci sarà senz’altro, ma io, faute de mieux, mi limito ad immaginarlo, e
poiché è estate e fa caldo, lo immagino come il calore che esce dall’asfalto,
che infatti allora sembra bagnato, in lontananza, e vivo. Vedo la mia pelle
ingigantita, come un’enorme distesa offuscata da queste esalazioni che fanno
impercettibilmente vibrare la peluria che la ricopre a tratti densa e in altri
rada, mentre in certe pieghe scorrono rivoli d’acqua. Fiumi, boschi, campi,
pianura. Quella dove abito io.
Mi accorgo di perdere acqua solo
quando sudo: allora non sono invisibili esalazioni ma gocce. Anche il sudore in
genere è buono. Lo dico perché sono sano, non devo faticare quindici ore al
giorno in miniera e non sono disperso nel Sahara. Il sudore è buono non solo
quando è prodotto dallo sforzo di un corpo che ha il vigore per compierlo, ma
anche quando cerca di ripristinare la temperatura corporea d’estate o durante
le febbri (“prendi un’aspirina, mettiti a letto e fai una bella sudata”, mi
diceva mia mamma quando ero influenzato) e perché trasmette l’odore del nostro
corpo a chiunque in un modo o nell’altro vi sia interessato. Non si sa mai.
Quando sudo, o comunque mi sento
sporco, mi lavo. Ma l’acqua da sola non lava. È un discreto ma blando solvente
e uno sgrassante deficitario. Lavarsi può essere fastidioso (quando fa freddo
per esempio), ma in genere è piacevole, specie al mattino, appena sveglio. Di
solito io mi alzo allegro, e l’acqua mi fa buona compagnia. Mi piace anche
farmi la barba, pelo e contropelo, con devozione, e quando le guance sono
perfettamente lisce e morbide è bello sciacquarle con l’acqua fredda. Ho
ricevuto il buonumore in dote alla nascita. Sono felice. Non scrivo perché la
vita mi fa male (anche se una quota la versa anche a me); scrivo per aumentare
la felicità, la mia in primis e eventualmente quella di qualcun altro. Non ce
n’è mai abbastanza. (Il mio amico Marco, leggendo ieri questo passaggio, mi ha
detto che devo smetterla di scrivere queste cose. Se uno dice di essere felice
insistendo come faccio io, non verrà mai creduto: cent’anni di psicanalisi
saranno pur serviti a qualcosa! Si chiama denegazione, lo so. Ma io non
pretendo di essere creduto quando scrivo. Se c’è una verità in ciò che uno
scrive, non si esaurisce certo nella lettera. Comunque va bene: sono infelice.
Molto infelice. Disperato. Così mi crederanno. Non il più disperato degli
uomini. Meglio non esagerare. Se si dice a qualcuno di essere più disperato di
lui, garantito che quello si offende. Allora diciamo che sono piuttosto
disperato, ma un filino meno di ciascuno dei miei lettori. Così sono contenti
tutti. Si scrive per questo, no?)
Mi lavo e canto, sottovoce. È la
bellezza della doccia del mattino: le acque mi scorrono lungo il corpo, mi
massaggiano e mi consegnano fresco a una nuova giornata nella quale,
olimpicamente, non mi importa se combinerò qualcosa o il solito fico secco. E
tu che dall’alto dei mondi. Do re mi. Il bagno invece è meglio la sera, quando
sono stanco, cioè quasi mai. È però la prima cosa che faccio quando prendo
possesso della mia camera d’albergo dopo un viaggio. Faccio scendere l’acqua
calda mentre disfo i bagagli e quando è pronta ci resto immerso fino a quando
non mi sono abituato al nuovo luogo. E poi via! Quanto al resto non sono un
patito del bagno, neanche al mare, dove infatti di solito non vado.
Facevo invece molti bagni da
ragazzo, al fiume, vicino al punto dove si incontra con uno dei due canali che
lo costeggiano al mio paese. È un punto pericoloso, dove annega sempre
qualcuno, come è accaduto proprio una decina di giorni fa, in modo banalissimo,
a due ragazzi, due fratelli. A guardarlo così, senza pensare a niente, è un
incanto. Ci vado ancora, da solo o con gli amici che vengono da fuori, a fare
delle passeggiate, e tutti ne sono conquistati. C’è una pace! E invece ogni
anno ci muore qualcuno, qualcuno ci annega o va ad annegare.
Una volta sono partito proprio da
lì per attraversare il fiume controcorrente nonostante fosse più veloce del
solito. Nuotavo in diagonale, verso monte, per non rischiare di ritrovarmi
dalle parti della diga che c’è più a valle. Poco oltre la metà del fiume le
forze hanno cominciato a mancarmi e così ho cercato di resistere meno alla
corrente, pur senza assecondarla. Alla fine, stremato e vicino alla
disperazione, sono riuscito ad aggrapparmi ad un arbusto che sporgeva
sull’acqua, ancora lontano dalla diga. Mi sono trascinato sulla sponda e sono
rimasto lì, sdraiato in pendenza tra i cespugli, confuso e col batticuore, per
non so quanto tempo. Con l’acqua è così.
Per tornare a riprendere le mie
cose mi son dovuto fare un giro lunghissimo. Mancava ancora parecchio al
tramonto, ma le nubi si stavano già preparando per il solito temporale serale.
Avevo freddo. Dei miei amici molti se ne erano già andati a casa. Ho messo i
vestiti in silenzio e mi sono seduto contro un albero a guardare il ponte alla
mia sinistra, tranquillo adesso. Allora gli amici rimasti mi hanno chiesto cosa
mi era successo. L’ho riassunto velocemente. Bel pirla, mi hanno detto, e si
sono tuffati per un’ultima nuotata.
Eppure io ero convinto di aver
capito qualcosa.
L'immagine prededente è un tratto del fiume in questione
Le prime due sono opere di Federico De Leonardis
La prima si intitola - Essere Mare 1 - esposta alla casa di Pessoa a Lisbona
Scritto per una mostra a Verona di non ricordo più quando
mi piace questo fluire dall'Iliade alla lista della spesa. bravo!
RispondiEliminaMannaggia Luigi, hai mai pensato che l’acqua, ferma, non può stare che Orizzontale e, se in moto, corre alla sua pace? La sua, non la tua o in genere la nostra. Per noi, per te non c’è pace, con buona pace dello psicanalista tuo amico. Sarà per questo che il tuo sproloquio acquatico si è fermato esattamente nel punto in cui, ansimando per lo sforzo, sei riuscito a evitare che ti si trovasse tra Ravenna e Venezia, Orizzontale appunto, e per sempre? Guardavi e guardavi il gorgo evitato, il pelago alla riva, ma certamente meditavi che la strada per il paradiso non è proprio una barzelletta. Mannaggia
RispondiElimina